• Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina
Nicoletta Cinotti
  • Nicoletta
  • I miei libri
  • Blog
  • Contatti
  • Iscriviti al blog
  • Mindfulness
    • Cos’è la Mindfulness
    • Protocollo MBSR
    • Protocollo MBCT
    • Il Protocollo di Mindfulness Interpersonale
    • Il Protocollo di Mindful Self-Compassion
    • Mindful Parenting
    • Mindfulness in azienda
  • Bioenergetica
    • Cos’è la Bioenergetica
    • L’importanza del gruppo
  • Corsi
  • Percorsi suggeriti
  • Centro Studi
  • Nicoletta
  • I miei libri
  • Blog
  • Contatti
  • Iscriviti al blog
AccediCarrello

mindfulness chiavari

Sognare qualcosa che ancora non c’è

22/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo mossi dal desiderio; quando non riusciamo a desiderare ci sentiamo malati. Come se l’anima avesse abbandonato il corpo. Non tutti i desideri però sono uguali. Ci sono desideri che alimentano la nostra motivazione. Ci danno forza e speranza. Ci aiutano a costruire e ad andare al di là del consueto, anche dei nostri limiti consueti.

Ci sono desideri che, invece, ci offuscano e indeboliscono, ci confondono e ci rendono dipendenti. Sono desideri collegati al realizzarsi di condizioni esterne che non possiamo controllare; alla volontà di altri e non solo alla nostra spinta. Quando questi desideri compaiono è come se tutta la nostra attenzione venisse risucchiata e attirata verso un unico punto: quel desiderio che vorremmo realizzare. A volte questo diventa fonte di così tanta sofferenza che incominciamo a provare diffidenza per tutti i desideri. Finiamo per temerli come se fossero sempre pericolosi e così togliamo alla nostra vita un’energia importante: quella che nasce dalla capacità di sognare qualcosa che ancora non c’è.

Non possiamo separarci da questa capacità di sognare: sarebbe come tagliarci le ali. E, in effetti, quando cerchiamo di togliere la nostra capacità di sognare è come se le nostre braccia giacessero esangui ai lati del corpo. Abbiamo solo bisogno di distinguere i desideri che ci offuscano da quelli che, invece, ci fanno crescere.

Avere un desiderio nella vita significa semplicemente tenere d’occhio la stella polare, seguire un lampo, una traccia, qualcosa che appare e scompare all’orizzonte, qualcosa che non possiamo ancora vedere ma solo intra-vedere. Può scomparire alla vista per un po’ ma quando il cielo è chiaro possiamo vederlo di nuovo e riconoscerne ancora una volta lo splendore. David Whyte

Pratica di Mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2023 Scrivere storie di guarigione

Archiviato in:mindfulness continuum Contrassegnato con: bioenergetica, Bioenergetica e Mindfulness Centro Studi, corpo, David Whyte, dimorare nel corpo, dimorare nel presente, meditazione mindfulness, meditazioni mindfulness, mindful, mindful parenting genova, mindfulness, mindfulness chiavari, mindfulness cinotti, mindfulness e bioenergetica, Nicoletta Cinotti, pratica di mindfulness, pratica formale, protocolli basati sulla mindfulness, protocolli mindfulness, protocollo di mindfulness interpersonale, protocollo mbsr, protocollo mbsr chiavari, protocollo mbsr genova, protocollo MBSR torino Niccolò gorgoni, speranza

Gratitudine, gratefulness e cambiamento

21/05/2023 by nicoletta cinotti

Sono uscita di casa con animo allegro. Dopo pochi passi mi sono accorta che non avevo al polso l’orologio di mia madre. Un orologio che non si toglieva mai, nemmeno per dormire. Era l’orologio che io e i miei fratelli avevamo regalato a mio padre per il suo cinquantesimo compleanno. Lui non l’aveva amato perché apprezzava la tecnologia più avanzata e non aveva rinunciato al suo orologio digitale, mentre mia madre l’aveva indossato sempre.

Quando è morta ho chiesto ai miei fratelli di poterlo avere io e loro, generosamente, hanno capito le mie ragioni, assolutamente emotive, e me l’hanno lasciato.

Si diventa così animisti per affetto. Non è il valore economico che ci lega ad un oggetto ma il significato affettivo. Il lutto è fatto così, di oggetti che, improvvisamente, acquistano un grande valore. Succede per qualunque lutto. Ho visto partner distruggere reperti della relazione come se avessero trovato la soluzione al loro dolore. Un figlio distrutto perché aveva perso l’ultima lettera di sua madre. Potrei scrivere mille storie sul dolore degli oggetti perduti e sul senso degli oggetti dimenticati. Un paziente molto tempo prima di separarsi (e addirittura molto tempo prima di iniziare a parlare della sua crisi matrimoniale) dimenticò nel mio studio la vera nuziale. Perché nella vita incontriamo molte morti: separazioni, abbandoni e perdite ci allenano. Sono “piccole morti” da cui imparare. Imparare a continuare a vivere sapendo che il cambiamento non è qualcosa che possiamo controllare. C’è un dolore legato al cambiamento e un dolore legato all’invecchiamento, alla morte, alla malattia. Consideriamoli allenamenti per arrivare splendenti. Sembra che Michela Murgia lo stia facendo e ognuno di noi può farlo. Soprattutto se lasciamo andare la scaramanzia che abbiamo rispetto a questa parola e a tutte le parole collegate. Siamo animisti anche nella superstizione e le parole diventano oggetti concreti, tangibili e intoccabili.

La scelta di Michela

Sto leggendo il libro di Michela Murgia, Tre ciotole. L’ho preso perché sapevo che avrebbe parlato della sua malattia. È un libro in cui le parole sono come i sassi che trovi sulla spiaggia di Camogli, alcuni riescono a camminarci sopra con apparente anestesia. Io no, devo sempre mettermi delle ciabatte. Il libro di Michela Murgia declina, attraverso diverse storie, le nostre reazioni alle piccole e grandi morti della vita. È un libro discontinuo, scritto di getto (e si sente) ma ti lega alla lettura perché capisci che dentro c’è un pezzo del cuore della persona che l’ha scritto. Non scherzava con la penna quando scriveva. Ci metteva dentro quello che c’era. Non ha la raffinatezza di Matteo B. Bianchi nel raccontare il lutto e nemmeno la profondità di Joan Didion che estrae il suo lutto e lo trasforma in un succo prelibato e squisito ma ti incatena per la sua autenticità. Perché il punto, dovremmo avere il coraggio di riconoscerlo, è che le cose acquistano valore alla luce della perdita. Come dice Michela in un’intervista “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? Ho chiesto a Vogue di poter fare un viaggio sull’Orient Express. Posso andare alle sfilate di moda, farò un sacco di cose. Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così”. Ecco molto spesso, troppo spesso, diamo valore a quello che “abbiamo” nel momento in cui lo stiamo perdendo. Eppure odiamo il lutto, lo scansiamo, a volte facciamo finta che non ci sia.

L’ Harvard Business Review ha dedicato più di un articolo al tema del lutto perché, se non accettiamo di riconoscere il lutto che viviamo di fronte ai cambiamenti, rimaniamo paralizzati nella nostra creatività ma, soprattutto, rimaniamo bloccati nella nostra vita. Durante e dopo la pandemia globale, è emerso un senso di lutto collettivo. Il lutto è un sentimento multiplo che non possiamo evitare ma è necessario imparare a gestire. Le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione) ci aiutano a vivere e non sono – come molti temono – un preludio della fine ma un preludio per ogni nuovo inizio. L’alternativa al lutto è il ristagnare, aggrapparsi ad un passato che non c’è più e che non è in alcun modo ripetibile.

Passare dalla perdita per essere felici

Come forse saprai ho appena fatto un ritiro monastico. Un ritiro è, in qualche modo, un grande esercizio di perdita. Ci esercitiamo lasciando la solita vita, lasciando il cellulare, lasciando il modo consueto di comunicare, lasciando il contatto con la vita quotidiana. In un ritiro monastico lo facciamo in modo ancora più estremo ma in ogni caso, qualsiasi ritiro ha una quota di rinuncia dell’ordinario. Perché?

Proprio perché accettando di incontrare volutamente qualcosa che ci fa paura ci apriamo ad una nuova e diversa felicità: la felicità essenziale e non quella che proviamo nel momento in cui si realizza qualcosa di desiderato ma quella che è alla base ed è espressione della nostra mente originaria. Per conoscere quella felicità è necessario attraversare il vuoto, trovarsi, almeno per qualche attimo, nel mezzo del niente.

David Steind-Rast ne fa un sunto perfetto nella sua distinzione tra gratitude (gratitudine) e gratefulness (lascio le parole in inglese perché non c’è un corrispettivo in italiano). La gratitudine è un sentimento che sorge nel momento in cui riceviamo qualcosa che ci sorprende e che abbiamo desiderato. La gratefulness è uno stato di base che nasce dal sentirsi grati per qualsiasi cosa, incluso anche per quelle esperienze che potremmo definire di perdita. È una condizione mossa dal riconoscere la bellezza, la speranza, la qualità della nostra vita, la vulnerabilità, l’incertezza e l’impermanenza come condizioni e ragioni per essere grati.

La gratitudine è una cosa fantastica. Quando riceviamo qualcosa che desideriamo, quando le esperienze ci danno piacere o quando la vita va per il verso giusto, è naturale e significativo provare gratitudine (…) Immagina di poter avere una gratitudine incondizionata e duratura. Una gratitudine che non dipende da ciò che accade, ma che viene da dentro di noi. (…) Come tessuto connettivo tra i nostri momenti e le nostre esperienze, la gratitudine ci permette di trovare gratitudine nella “grande pienezza” della vita in tutti i suoi momenti reali di disordine e magnificenza. Kristi Nelson

Confondere l’ansia con il lutto anticipatorio

L’ansia è un’emozione che ci accompagna. Ne ho parlato molto in “Mindfulness ed emozioni”.

Il ruolo dell’ansia è principalmente quello di funzionare come attivatore di fronte alle situazioni nuove o come rilevatore di pericolosità. Per questa ragione può presentarsi in tutti i sistemi emotivi: possiamo provare ansia di fronte a un esame medico (emozione del sistema difensivo), ansia durante la partecipazione a un concorso (emozione del sistema di ricerca delle risorse), ansia prima di incontrare una persona che ci piace molto (ansia del sistema affiliativo). In qualche modo l’ansia è un interruttore dell’intensità emotiva. Quando una situazione è molto intensa diventiamo ansiosi. Se è un’ansia funzionale al compito attiva tutte le nostre risorse, ma può portarci alla paralisi quando è disfunzionale. E spesso confondiamo l’ansia con altre emozioni come la vergogna e il lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è quello che proviamo quando sappiamo che, prima o poi, accadrà un cambiamento non desiderato. È il lutto anticipatorio quello che sta alla base di tutto l’enorme marketing dei cosmetici (tra parentesi la cosa che mi è mancata di più nel ritiro è stata la mia crema viso!) e molte persone provano, nei confronti dei segni dell’invecchiamento, un vero e proprio senso di vergogna. Insomma, per quanto tentiamo di far finta di nulla, sappiamo che la vita è impermanente e che ogni cosa che può accadere, potrebbe succedere anche a noi: “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Non basta lo scudo della disapprovazione per i comportamenti sbagliati e l’arma della prevenzione per evitare che qualcosa accada. La protagonista del libro di Michela Murgia chiede, “cosa ho sbagliato?” nel momento in cui le viene comunicata la diagnosi di cancro come se sapere che è stato un errore rendesse l’evento più comprensibile.

Gli stati mentali

Adesso spero che non sarai arrivato o arrivata troppo depressa leggendo fino a qui perché non c’è una ragione per essere depressi ma, piuttosto, molti buoni motivi per essere consapevoli. Consapevoli di cosa? Forse penserai che ti stia rispondendo del “respiro” e invece ti sorprenderò dicendoti che l’invito, per stare nell’incertezza, nella vulnerabilità, nell’impermanenza è essere consapevoli del nostro stato mentale. Cercare di sperimentare gratefulness oltre che gratitudine, ricordarsi che la nostra tendenza a focalizzare l’attenzione sul pericolo ha bisogno di essere compensata da pari attenzione alla gioia (Trovi qui una pratica di meditazione su Mudita: la gioia). Non ci serve a nulla essere ansiosi su quello che potrebbe succedere. Ci serve, invece, tantissimo, essere aperti per poter contare sulle nostre risorse più che sulle nostre difese. Il lavoro è instabile, il clima è fuori controllo, non abbiamo molto potere sugli eventi importanti della nostra vita. Però possiamo scegliere di guardare con gratefulness al fatto che siamo vivi e gustarcela fino in fondo la nostra unica, preziosa e selvaggia vita.

Tornare indietro

Forse ti domanderai com’è andata a finire la storia dell’orologio. Ho fatto due passi avanti, senza orologio. Mi sono fermata. Mi sentivo nuda. Mi sono girata e ho fatto tre passi indietro, provavo desiderio. Sono rimasta un attimo lì, ferma tra l’andare avanti e tornare indietro. Poi ho deciso: sono tornata a prendere l’orologio. Mi sono concessa il lusso di riconoscere che avevo ancora bisogno di essere animista: non mi sono tolta quell’orologio nemmeno durante il ritiro anche se era stato consigliato di farlo. Non dobbiamo sforzarci di essere radicali ma di sapere dove siamo. Prima o poi lo lascerò.

So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti. Joan Didion

Perdere il lavoro

Ti rivelerò un segreto di Pulcinella: lavoro moltissimo con persone che perdono il lavoro e con persone che devono comunicare ad altre la perdita del lavoro. Il lavoro non è più una garanzia. In nessun settore, nemmeno per noi liberi professionisti. A volte fantastico di poter parlare direttamente alle persone che si devono confrontare con la minaccia della perdita del posto di lavoro e che, lottano, paradossalmente quanto inutilmente, per rimanere aggrappati. E più quel lavoro era ben remunerato – e meno indispensabile rimanere aggrappati – e più lottano. È la paura e la difficoltà a fare i conti con il lutto del cambiamento. Rimandare l’accettazione fa arrivare stanchi al cambiamento. Non farlo. Trasforma la memoria di tutto quello che hai ricevuto in gratitudine. Non lasciare che la memoria diventi una trappola che ti incatena al passato ma trasformala in una quantità di gratitudine che ti permetta di fare un passo avanti. Il passo che non volevi fare.

Inizia da molto vicino, non fare il secondo passo o il terzo, inizia dalla prima cosa, quella più facile, il passo che non vorresti fare. David Whyte

© Nicoletta Cinotti 2023

Eventi correlati

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion/

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion-formula-intensiva-residenziale/

Archiviato in:approfondimenti, esplora, Mindful Self Compassion, mindfulness Contrassegnato con: Bioenergetica e Mindfulness, destinazione mindfulness, felicità, gratefulness, gratitudine, meditazione chiavari, meditazione genova, mindful self-compassion, mindfulness chiavari, mindfulness genova, programma di mindful self-compassion

Lo spazio dell’attesa

27/12/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando guardiamo siamo attirati dagli oggetti, dalle forme e quindi lo spazio tra un oggetto e l’altro finisce solo per disegnare la distanza. Eppure quello è lo spazio nel quale ci muoviamo. Uno spazio senza il quale finiremmo soffocati.

Quello spazio – che noi chiamiamo vuoto – dà la forma e l’armonia agli oggetti e alle cose. Restituisce a loro la dimensione e a noi la possibilità di muoverci e apprezzare la forma.

Quel vuoto – così necessario – è quello che coltiviamo nella pratica. Nella pratica – che sia di bioenergetica o di mindfulness – noi coltiviamo lo spazio di vuoto per poter dare un senso al pieno delle nostre esperienze e al pieno della forma che le cose prendono. Senza quel vuoto le nostre esperienze, i nostri pensieri, le nostre sensazioni diventano affollate e diventa difficile attribuire loro un significato.

Possiamo incontrare quel vuoto anche nella vita quotidiana: si incontra nei tempi dell’attesa. Quando sappiamo che qualcosa verrà ma ancora non c’è. Non è solo i mesi dell’attesa che nasca un bambino. Molti momenti sono momenti di attesa. Tra quando nasce un’idea e quando prende forma. Tra un desiderio e la sua possibile realizzazione. Anche il silenzio è una forma di attesa. È un dare forma al vuoto perchè il vuoto possa definirci. Perchè – alla fine – quello di cui abbiamo bisogno è un senso di spaziosità. Quella spaziosità che è lo spazio dell’attesa, del silenzio, del vuoto.

Con un maggior senso di spaziosità riusciamo più facilmente a rimanere presenti rispetto a qualunque cosa venga in mente e a essere più indulgenti con noi stessi quando le migliori intenzioni vanno storte. Segal, Teasdale, Williams

Pratica di mindfulness: Il suono del silenzio

© Nicoletta Cinotti 2022 Il protocollo MBCT online: in early bird fino al 31 Dicembre

Archiviato in:mindfulness continuum Contrassegnato con: bioenergetica, Bioenergetica e Mindfulness, Bioenergetica e Mindfulness Centro Studi, ciclo di gruppi, ciclo di gruppi terapeutici, classe d'esercizi bioenergetici, dare, MBCT genova, meditazione, meditazione della montagna, mente, mindful, mindfulness, mindfulness chiavari, mindfulness e bioenergetica, mindfulness per principianti. protocolli mindfulness, Nicoletta Cinotti, pratica di mindfulness, protocollo MBCT, protocollo mbsr, protocollo mbsr chiavari, protocollo mbsr genova, silenzio

Il rischio di sentire: un cuore a metà disoccupato

19/05/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono momenti in cui procedo con una qualità dimezzata di presenza. Faccio una cosa, ne penso un’altra. A volte succede perché il compito che sto portando avanti è molto semplice e ripetitivo. A volte perché mi annoio e mi sembra così di distrarmi e rendere più leggero quello che faccio. Non sono la sola a conoscere questa qualità dimezzata di presenza e non è neanche una novità dei tempi moderni. Diventiamo come il cavaliere inesistente di Calvino: combattiamo per dovere la battaglia del quotidiano senza esserne davvero appassionati.

Perché sentire comporta un rischio. O forse molti rischi. Il rischio della vulnerabilità, il rischio dell’imprevedibilità, il rischio della novità che cerchiamo e temiamo insieme.

La qualità dimezzata di presenza però è come un vivere a metà. Anche le cose migliori perdono gusto e sapore. Per uscire da questa trance che ci isola dal sentire abbiamo bisogno di tornare al corpo e al respiro, al momento presente ma, soprattutto, abbiamo bisogno di tornare alla vastità e all’apertura del nostro cuore. È quello che dimezziamo quando siamo con il pilota automatico, quando diventiamo il cavaliere inesistente. Dimezzando l’attenzione dimezziamo il cuore che mettiamo nel fare le cose. E l’altra metà del cuore – quella disoccupata – non è libera. È disorientata. Non sa chi amare e a cosa volgere il suo sguardo, la sua passione, la sua vitalità.

Alla fine è un modo per evitare di vedere la verità, di evitare il contatto con le cose così come sono, con l’altro così com’è e con noi stessi così come siamo. Preferiamo deviare verso un’illusione piuttosto che stare di fronte alla realtà delle cose. Come mai vedere è un rischio così grande? Forse perché richiede di mettere da parte le nostre convinzioni. Vedere ci chiede di uscire dalla nostra auto-referenzialità per permettere che sia il mondo a parlarci. Si accompagna ad un altro rischio: quello di essere presenti.

Anziché vedere cerchiamo uno specchio che rifletta quello che pensiamo e perdiamo così la bellezza e la verità che sta in tutte le cose. C’è un legame sottile tra il rischio di vedere e l’attenzione che diamo alle cose. Se siamo pre-occupati di ricevere attenzione non riusciamo a vedere: vogliamo solo essere visti. Diventiamo accumulatori di attenzione  che non è tanto diverso dal diventare accumulatori di cose. Alla fine è una forma di avidità quella che ci impedisce di vedere: l’avidità di voler solo essere visti.

Matto forse non lo si può dire: è soltanto uno che c’è ma non sa d’esserci. Italo Calvino

Pratica del giorno: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2022 Mindfulness e psicoterapia: formazione in reparenting

Archiviato in:mindfulness continuum Contrassegnato con: accettazione, accettazione radicale, Bioenergetica e Mindfulness Centro Studi, blog nicoletta cinotti, meditazione mindfulness, mindful education, mindful parenting, mindfulness chiavari, mindfulness cinotti, mindfulness e scrittura, Nicoletta Cinotti, presente, protocolli basati sulla mindfulness, protocollo di mindfulness interpersonale, protocollo MBCT, protocollo mbsr, protocollo mbsr chiavari, protocollo mbsr genova, respiro, ritiri, ritiri di mindfulness, ritiri di mindfulness e bioenergetica, ritiro, ritiro di bioenergetica e mindfulness, ritiro di meditazione, ritiro di mindfulness, ritiro giaiette

Lasciar andare e non rimuginare

25/05/2019 by nicoletta cinotti 2 commenti

Mindfulness: 56 giorni per la felicità

Lasciar andare e non rimuginare

“La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non cercare di resistere a questi cambiamenti. Resistere crea solo dolore. Lascia che la realtà sia la realtà e che le cose prendano il loro corso naturale.” –Lao-Tzu

Lasciar andare è un monito che, nel tempo, è diventato quasi uno slogan. Declinarne il significato ci aiuta a far chiarezza rispetto alle tante sfumature che questa parola può assumere. Certamente non è un invito alla superficialità: è piuttosto un invito a lasciare che il dolore e la gioia abbiano il loro corso naturale.

Molto spesso cerchiamo di trattenere il piacere come se non avessimo più fiducia che potrebbe ripresentarsi. Oppure rimuginiamo in continuazione su un’offesa riattivando così ripetutamente le emozioni ad essa connesse e prolungando la ferita nel tempo.

La pratica di mindfulness incoraggia a fare l’opposto: a fare in modo che non sorgano condizioni negative e a lasciarle andare con semplicità quando sorgono; a sostenere e promuovere la possibilità che emergano stati mentali positivi. Tutto espresso con semplicità nella frase di Thich Nath Hahn che già conosciamo “E’ a causa della natura impermanente del dolore che possiamo trasformarlo. E’ a causa della natura impermanente della felicità che possiamo nutrirla”.

Lasciar andare e non rimuginare

Mi occupo da sempre di depressione: non è solo per professione ma anche per familiarità.  Mi è familiare fin dall’infanzia, quando studiavo il viso di mia madre per capire come andava. O quando mi alzavo appena si alzava lei – all’alba – per prendere l’odore del giorno. Credo che una parte dell’amore che avevo per mia madre sia osmoticamente fluito nella passione con cui mi occupo di depressione.

Una delle frasi tipiche della mia professione è che diventiamo psicoterapeuti per salvare i nostri genitori. Io non volevo salvarla ma almeno capirla. Devo a questo desiderio la costanza con cui studio, la diffidenza nei confronti dello scoraggiamento, la reticenza a dire ad un paziente che non posso seguirlo. La fatica a rinunciare alla cura.

La depressione è la malattia del “non lasciar andare”. Avviene un evento negativo – piccolo o grande che sia –  e con la depressione, anziché sciogliersi, il dolore si solidifica e diventa un tormento e una ruminazione. Questo tormento e questa ruminazione non sono solo una difficoltà, visto che offrono quella profondità che permette, talora, l’accesso alla radice della creatività. Ma portano a perdere il senso delle proporzioni e, soprattutto, il senso dello scorrere della vita, delle cose, delle emozioni. In qualche modo congelano il passato e lo trasformano in un eterno presente.

Mia madre è rimasta tutta la vita dentro ad un bombardamento, di quella guerra che ha segnato la morte in massa dei civili: una morte di civili che continua tuttora in tante e diverse parti del mondo. Nessuno dei miei spettacoli d’arte varia l’ha mai veramente distolta da quel passato ma io ho imparato a conoscere le sue sfumature e a dosare distanza e vicinanza con rispetto per lei e per me. E accettato che non la conoscerò mai davvero.

La depressione, l’illusione e la felicità

Negli approcci psicoterapici classici la depressione è messa in relazione con un lutto primario che si riacutizza in occasione di perdite successive. Lowen e l’analisi bioenergetica, accettano questa posizione ma affermano che la depressione è, primariamente, il frutto del crollo di una illusione. E che la rimuginazione e il non lasciar andare altro non sono che il tentativo di rendere reale quell’illusione e di non arrendersi alla verità dei fatti. Un tentativo che viene rinforzato dallo strutturarsi di una posizione corporea ed energetica. Senza la possibilità di cambiare il corpo, i tentativi di uscire dalla depressione sono indeboliti.

Costruiamo delle illusioni che sono una promessa di felicità futura o un tentativo di negare una realtà dolorosa. Nascono da un desiderio compensativo di quello che è stato il tradimento di uno dei nostri diritti di base: il diritto di essere amato, il diritto di essere autonomo, il diritto di essere rispettati e il diritto alla propria sessualità. Ci illudiamo che – se saremo “bravi”(qualunque sia il significato che assume per noi questa parola) – questo diritto e questa promessa di felicità si realizzeranno. Attorno a questo diritto negato strutturiamo un insieme di contrazioni corporee che sono difensive ed espressive di questo desiderio. Anche qui mindfulness e bioenergetica usano un termine comune: ci aggrappiamo a queste illusioni, a questi hang ups, e quando l’illusione crolla crolliamo anche noi, entrando in depressione. Queste illusioni sono strettamente in relazione con la nostra struttura caratteriale – e quindi con il nostro corpo –  e, una volta illuminate dalla realtà – rivelano tutta la loro incapacità di renderci felici. Ci fanno sentire ancora di più in trappola. Il problema è che le nostre illusioni costruiscono concetti solidi della vita e ci lasciano immobili. Sulla riva della nostra esistenza.

Lasciar andare implica non continuare a desiderare quello che vogliamo ottenere e non rimanere legati a quello che già abbiamo, o semplicemente a quel che pensiamo di dover avere. Lasciar andare significa anche non rimanere ancorati a quel che odiamo, a quello verso cui proviamo una fortissima avversione.       Jon Kabat Zinn

Pema Chodron, una insegnante di meditazione molto nota, usa la metafora del fiume per esprimere la differenza tra fluire e rimanere  arroccati nelle proprie posizioni. La nostra ricerca di sicurezza ci lascia immobili sulla riva mentre la vita vera scorre. Tanto più riusciamo a vincere la paura, tanto più siamo in grado di stare nel flusso, al centro del fiume, e permettiamo che avvenga il cambiamento, che dichiariamo di desiderare ma che, molto spesso, ostacoliamo con le nostre contrazioni, con il nostro controllo. Le difese che costruiamo ci mettono al sicuro – sulla riva – ma ci lasciano anche fuori dal flusso e dalla possibilità di lasciar andare.

Costruire tante strutture

Il nostro lavoro ha una struttura, così come le nostre relazioni, il nostro giro di frequentazioni, le nostre modalità di relazione e la nostra agenda. La struttura è necessaria a darci sicurezza e a garantirci crescita ma nello stesso tempo può ancorarci troppo sulla riva e spingerci a provare rabbia, frustrazione e stress rispetto a ciò che sfugge al nostro controllo. Lasciar andare è strettamente connesso al non trasformare il nostro dolore in sofferenza: la sofferenza della delusione.
In questo senso cosa significa andare con il flusso? Significa accettare le cose che arrivano senza entrare in una modalità reattiva. Prendere la vita per quello che offre piuttosto che cercare di modificarla in modo che ti dia esattamente quello che desideri. Significa non affrettarsi a dire e a pensare che qualcosa è negativo o positivo ma sperimentarlo con apertura e curiosità.

“Scorri con ciò che accade e lascia che la tua mente sia libera. Rimani centrato e accetta qualsiasi cosa tu stia facendo. Questo è la massima realizzazione.” – Chuang Tzu

C’è un vademecum del lasciar andare?

Credo che, teoricamente, possiamo comprendere la bontà del lasciar scorrere perché la mente sia libera di cogliere e accogliere il presente, la sua novità. Realizzarlo però è tutt’altro che semplice. Così ho pensato di condividere quegli appunti che sono nati via via, dalle mie meditazioni sul lasciar andare. Non sono tanto organici ma sono abbastanza vissuti da essere, spero, facilmente comprensibili.

La prima scoperta sull’argomento lasciar andare è stato il corpo: difficile lasciar andare quando qualcosa è contratto e aggrappato. Perché ad una contrazione corporea corrisponde inevitabilmente una contrazione mentale. Così l’aspetto del corpo nella mindfulness e nei protocolli è tutt’altro che secondario. Quando lavoriamo bene con il corpo otteniamo una mente sgombra – almeno per un po’ di tempo – proprio perché abbiamo lasciato andare la tensione. Ovviamente per lasciar andare è necessario un passaggio: occorre prima sentire e questo non è sempre facile. Così svegliare il corpo è il primo elemento del lasciar andare e cedere, anziché contrarre, il secondo.

Possiamo davvero controllare?

La contrazione corporea nutre una illusione: quella del controllo, grande antagonista del lasciar andare. Quando desideriamo avere precisione tendiamo l’attenzione e tendiamo il corpo. Spesso questo diventa contrazione. Abbiamo effettivamente bisogno di precisione molte volte. Di quello che Kabat Zinn chiama “calibrare gli strumenti” ma, come dice spesso, è necessaria una certa quota di gentilezza perché questa precisione e questo calibrare gli strumenti non diventino controllo. La distinzione in alcuni casi è quella espressa con eleganza da Lowen, tra padronanza e controllo. La padronanza ci permette di sentire che stiamo esprimendo una nostra capacità e che non ne siamo trascinati. Il controllo assume invece il dominio dell’azione e diventa un atto di prepotenza, tanto più prepotente quanto più è nutrito da self control. La padronanza è una forma dell’espressione di sé e ci porta quindi in quel dominio dell’essere che accompagna la nostra pratica. Il controllo è attività e fare incessante.

Abbandonare questa illusione non è facile perché nasce dalla paura e dalle forme sottili che la paura assume. Dietro al mio alzarmi, appena sentivo mia madre muoversi, non c’era solo il desiderio di strappare un tempo tutto nostro, quando gli altri della famiglia ancora dormivano. In quel tempo segreto c’era anche la paura che stesse male, che fosse triste o nervosa. C’era il desiderio di evitare “la catastrofe” o di prepararsi ad affrontarla per tempo. Così abbandonare il controllo nei confronti di mio figlio e del suo diverso modo di muoversi nel mondo è stato andare incontro ai fremiti della mia paura e accorgermi di quante sfumature avesse: dall’indifferenza all’azione, dalla velocità al distacco. Ri-conoscerla è stato il primo atto di vero coraggio che ho fatto. E allentando il controllo – stavo scrivendo smettendo ma non so quanto sia vero – potevo permettermi di risentire per entrambi – mia madre e mio figlio – quella bellissima declinazione dell’amore che il controllo strangola: la tenerezza.

Forse la tenerezza è davvero il sentimento che scioglie la rigidità del corpo. Per me più ancora del cedere. Perché in quell’abbandono e in quell’abbraccio si mantiene quel contatto e quel riconoscersi che vado cercando. Nicla Vassallo, filosofa della conoscenza, in una delle sue interviste dice che l’uomo è tale non perché ha il linguaggio ma perché esercita una funzione di conoscenza. Questo per me è verissimo con la sfumatura delle tenerezza e della gentilezza. Altrimenti la conoscenza mi fa paura e mi isola. Così entrare in dialogo con il controllo è un altro passo del mio lasciar andare che si accompagna al conoscere come atto di esperienza che comprende l’abbandono alla mutevolezza e al cambiamento

Se abbiamo intenzione di usare la mente per osservarla e familiarizzare con essa e, infine, arrivare a comprenderla, dobbiamo anzitutto imparare i rudimenti necessari e stabilizzarla, così che possa prestare attenzione in modo stabile e costante nel tempo, fino a diventare consapevole di quel che accade sotto la superficie della sua attività. Jon Kabat Zinn

Il respiro: uno spazio poetico ma non lirico

respiro.001Il ritmo del respiro è un continuo rimando al lasciar andare. Senza una buona espirazione finiamo soffocati e per quanto possiamo trattenere, prima o poi abbiamo bisogno di cedere al lasciar andare dell’espirazione. Vero è che abbiamo infiniti modi per trattenere il respiro e che, come giustamente dicevano Reich e Lowen, questi modi hanno uno scopo essenziale: limitare il sentire. Così riportare l’attenzione al respiro, senza correggerlo o modificarlo, è davvero l’alfabetizzazione del lasciar andare, l’alfabetizzazione al sentire nuovamente. Promuove la consapevolezza in modo poetico ma non lirico: ci mette di fronte ai nostri ostacoli e alle nostre interruzioni. Ci permette di rallentare innescando il passaggio dall’attività simpatica all’attività parasimpatica del Sistema Nervoso Autonomo: questo rallentamento permette i processi di consapevolezza. Il respiro è un’ottima metafora del lasciar andare e dell’essere consapevoli. Infatti è un atto involontario – non possiamo decidere di non respirare – che può essere volontariamente modificato. Così, semplicemente respirando, pratichiamo in ogni momento il lasciar andare. Illuminazione banale che ha reso la mia pratica confortante per moltissimo tempo. Mi confortava perché lasciavo andare il controllo, la paura, la rabbia, gli stereotipi, le narrazioni precostituite e altre cose ancora. Senza bisogno di pratica formale, in ogni momento.

La mindfulness è una modalità dell’essere che richiede un lavoro costante. E’ una disciplina che già di suo si estende a tutti gli aspetti della vita, contemporaneamente al suo svolgimento. Jon Kabat Zinn

Riderci sopra

Tutti noi abbiamo paure irrazionali. Io non amavo il mare sabbioso perché avevo paura delle tracine, pesci con spina velenosa sul dorso che si nascondono sotto la sabbia e che possono pungere chi li calpesta. Da specificare che non sono mai stata punta da una tracina, comunque, per prudenza, sceglievo se possibile gli scogli, oppure, se ero in spiaggia, iniziavo a nuotare praticamente dalla riva, con scene che, già di per se stesse, erano piuttosto comiche.

Il top sull’argomento fu raggiunto durante una vacanza in Corsica. Degli amici avevano un gommone che, nell’intenzione della compagnia, avrebbe garantito pesce fresco tutti i giorni. In realtà credo che riuscissimo a pescare solo i pesci che avevano già scelto, di loro iniziativa, di morire. Ma questo andava bene. Se non che, durante una di queste uscite di pesca saltò, quasi di sua iniziativa, dentro il gommone, una tracina. Al mio grido “la tracina!” seguì il delirio nel piccolo equipaggio di uomini, donne e bambini. Un assalto di pirati avrebbe avuto meno conseguenze. Non so se tutti avessero terrore delle tracine o se fosse stata l’intensità del mio grido a produrre quel caos. Risi così tanto che da allora non riesco più a prendere sul serio la mia paura. Il nostro equipaggio sostituì il più tradizionale “All’arrembaggio” con “Alla tracina!” suscitando sempre una incontenibile ilarità.

Questo sguardo comico nei confronti di ciò che accade mi ha aiutato tantissimo. A volte domandarmi “Come vedrò questa cosa tra un giorno, una settimana, il prossimo anno?” è stato sufficiente per ristabilire una prospettiva più adeguata e lasciar andare con più semplicità. So che la mia tendenza a scherzare può risultare fastidiosa ma il gioco, per me, vale la candela.

La legge dell’impermanenza è una legge di armonia. Jack Kornfield

La lettera nella bottiglia

Nei libri che leggevo nell’infanzia compariva spesso il messaggio chiuso nella bottiglia e affidato al mare. Oggi questo mezzo sembra scomparso, forse sostituito dal vuoto virtuale della rete. In ogni caso questa è una delle ragioni per cui scrivo e una delle cose che mi aiutano di più a lasciar andare. Non ho capito bene perché ma ci sono dei pensieri che, fino a che non li scrivo, compaiono ripetutamente. Alla fine, una volta scritti, avviene un piccolo miracolo, formano catene associative, concetti e approfondimenti che, se non avessi praticato la scrittura, non sarebbero avvenuti. Non sono un’esperta di scrittura ma farlo mi aiuta a riflettere e riflettere mi aiuta a lasciar andare. Leggere è un altro tipo di processo riflessivo per me, più simile al mantenere l’attenzione, al fare una inspirazione. Mentre scrivere mi mette in uno stato, anche mentale, di flusso. Non so se questo valga per tutti e credo che la scuola possa avere qualche responsabilità rispetto al nostro atteggiamento nei confronti della lettura e della scrittura. Per alcune persone l’idea di scrivere è come prendere una medicina amara che è meglio evitare. Per me è paragonabile al camminare, che è l’altra pratica, di questo vademecum sul lasciar andare.

La meditazione camminata è un invito fortissimo al lasciar andare, soprattutto quando, finito il breve tratto prescelto di cammino, mi giro e, con un piccolo movimento, tutto lo scenario cambia. Rimango sempre sorpresa dalla forza di quella semplice rotazione della prospettiva. Un attimo e niente di quello che vedevo prima sembra esistere ancora. Tutto lasciato alle spalle. Quello è un momento di imperscrutabile felicità.

Nulla è diverso e tuttavia tutto è diverso; perché c’è stata una rotazione nel nostro modo di osservare, nel nostro modo di essere, nel nostro modo di sapere.                 Jon Kabat Zinn

© Nicoletta Cinotti 2015

Eventi correlati

[ecs-list-events design=”columns” limit=’30’ thumb=’true’ thumbheight=’550′ viewall=’false’ venue=’true’ contentorder=’date, title,venue, excerpt, thumbnail’ buttonbg=”#038793″ buttonfg=”white” button=”Informazioni” cat=”analisi-bioenergetica” ]

Sede di Genova: Via I. Frugoni 15/2

Sede di Chiavari: Via Martiri della liberazione 67/1

Questo capitolo è un estratto di Destinazione mindfulness 56 giorni per la felicità acquistabile – come ebook  cliccando sulle parole in azzurro

Foto di ©AndreaPucci, ©ludi_ste, ©thescourse, ©jooferr, ©Gianfranco Liccardo ©pollu_it

Archiviato in:approfondimenti, bioenergetica, esplora, mindfulness Contrassegnato con: depressione, lasciar andare, mindfulness chiavari, mindfulness genova, protocollo MBCT, protocollo mbsr, rimuginare

La storia del crepaccio è la storia della vulnerabilità

05/01/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Per Natale mi hanno regalato un CD di Leonard Cohen. Così tutti i giorni lo ascolto e lo sento ripetere quella frase ormai famosa: C’è un crepa in ogni cosa è da lì che entra la luce. C’è anche un poema di Rumi che recita esattamente la stessa strofa: chissà se la frase arriva proprio da lì! Certo mi colpisce questa frase che ripete – con dolcezza – quello che tutti i giorni ognuno di noi sperimenta: la nostra vulnerabilità.

Facciamo molto per curarla e, a volte per evitarla. Eppure è da lì che parte ogni spinta verso il cambiamento. Non è lo scorrere placido delle acque del fiume che ci fa cambiare direzione. Sono gli ostacoli. Il torrente canta quando incontra gli ostacoli e anche noi, in qualche modo, cantiamo proprio quando siamo di fronte alla nostra vulnerabilità. Senza queste piccole e grandi fratture la nostra vita avrebbe preso un altro corso.

Così onorare la nostra vulnerabilità è il primo passo. Il secondo può essere esplorare con consapevolezza cosa facciamo quando ci sentiamo vulnerabili. Andiamo verso il rimprovero o verso la compassione? Cerchiamo di correre prima possibile ai ripari, spinti dal nostro perfezionismo, o cerchiamo aiuto? Tendiamo a isolarci o a cercare contatto? E come rispondiamo alla vulnerabilità delle persone che amiamo? Per strano che possa sembrare spesso, la prima reazione alla vulnerabilità è la rabbia. Soprattutto se riguarda una persona che amiamo. Ci arrabbiamo perchè è in pericolo, ci arrabbiamo perchè siamo spaventati.

Così, ad essere onesti, guardare il crepaccio che sta nella vita, guardare la crepa che c’è in ogni cosa, non è affar semplice. Abbiamo proprio bisogno della dolce voce di Cohen per farlo. Oppure della luce della nostra self compassion.

Perchè le persone più difficili da perdonare non sono gli altri: siamo noi.

Viviamo in un mondo vulnerabile. E uno dei modi che abbiamo per relazionarci con la vulnerabilità è cercare di offuscarla…La ricerca scientifica ci insegna però che non possiamo offuscare selettivamente una emozione. Non possiamo dire non voglio il dolore, non voglio la vergogna o la delusione. Non possiamo offuscare solo i sentimenti difficili senza offuscare tutte le nostre emozioni. Non possiamo offuscare selettivamente ciò che non ci piace. Se offuschiamo queste emozioni offuschiamo anche la gioia, la gratitudine, la felicità. Brenè Brown

Pratica di mindfulness: Self compassion breathing

© Nicoletta Cinotti 2018 A scuola di grazia e non di perfezione

Foto di © morillo

Archiviato in:mindfulness continuum Contrassegnato con: Bioenergetica e Mindfulness Centro Studi, blog nicoletta cinotti, cambiamento, compassione, consapevolezza, emozioni, gratitudine e scrittura, interpersonal mindfulness, interventi mindfulness, mindful, mindfulness chiavari, mindfulness e bioenergetica, mindfulness e psicoterapia, mindfulness per principianti. protocolli mindfulness, Nicoletta Cinotti, perfezionismo, pratica di meditazione, pratica di mindfulness, protocollo di mindfulness interpersonale, protocollo MBCT, protocollo mbsr genova, protocollo MBSR torino Niccolò gorgoni, ritiri di mindfulness e bioenergetica, ritiro, ritiro di bioenergetica e mindfulness, ritiro di meditazione, rumi, self compassion

  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Vai alla pagina successiva »

Footer

Sede di Genova
Via XX Settembre 37/9A
Sede di Chiavari
Via Martiri della Liberazione 67/1
Mobile 3482294869
nicoletta.cinotti@gmail.com

Iscrizione Ordine Psicologi
della Liguria n°1003
Polizza N. 500216747, Allianz Spa
P.IVA 03227410101
C.F. CNTNLT59A71H980F

  • Condizioni di vendita
  • Privacy e Cookie Policy
  • FAQ
  • Iscriviti alla Newsletter

Le fotografie di questo sito sono state realizzate da Rossella De Berti e Silvia Gottardi
Concept e design Marzia Bianchi

Impostazioni Cookie

WebSite by Black Studio