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adolescenza

Il virus della competizione e quello della diversità

15/01/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Qualche giorno fa ero in un bar, in pausa pranzo, quando è arrivato un gruppo piuttosto numeroso di ragazzi, forse ai primi anni delle superiori. Carini, simpatici e divertenti e tutti uguali. Stessi colori, stesse giacche, stesse scarpe: una variazione attorno a due cose, non di più. È stato così che mi è venuto in mente di pubblicare il discorso di Anna Quindlen  sul fatto che essere perfetti ha una quota di banalità: presuppone essere come un modello esterno e non come se stessi.

C’è un altro elemento però che mi colpiva guardandoli: quanto è facile essere esclusi da un gruppo di pari. Come se l’avere gli stessi abiti avesse una funzione di rassicurazione, fosse un modo per dire Tranquillo sono come te, non porto il germe della diversità. Porto solo il germe della competizione.

Perchè tra i due virus – quello della diversità e quello della competizione – preferiamo senza dubbio quello della competizione. Non importa se può fare molto danno, non importa se può lasciarci soli: l’unica diversità tollerabile è quella di essere speciali. Essere diversi e scrivere la propria storia fa paura.

Non guardo a quei ragazzi dicendo Ai miei tempi, quando andavo a scuola io…Quando andavo a scuola io era esattamente uguale, cambiavano solo i vestiti. Se non avevi l’eskimo, eri un paninaro. Il punto è che entriamo nel mondo con una paura segreta: quella di essere diversi. Una paura fortissima in adolescenza, presente sempre. Uno stato dell’essere che associamo alla sfortuna.

Eppure quella diversità – non diversamente dalla biodiversità – salva la nostra vita e la vita dell’umanità. Così ringrazio ogni giorno i diversi, coraggiosi, a volte loro malgrado. Ringrazio la mia diversità e la porto con umiltà perchè so quanto è pericoloso essere diversi. So a quante feste non sono stata invitata. Eppure so che la diversità di ognuno di noi è quello che permette la nostra crescita e la nostra evoluzione, come singoli e come gruppi. Senza il nostro pensiero divergente ci aspetterebbe solo la stagnazione: niente è più immobile della perfezione.

Siamo stati tutti espulsi dal Giardino, ma quelli che soffrono di più l’esilio sono coloro che continuano ancora a coltivare il sogno della perfezione. Stanley Kunitz

Pratica di mindfulness: Self compassion breathing oppure la meditazione live alle 7.30 su Facebook che puoi vedere in differita nella Pagina Meditazioni Live

© Nicoletta Cinotti 2018 A scuola di grazia e non di perfezione

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Cresciamo a zone, senza rimproveri strategici

22/12/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Forse è un’esperienza comune quella di accorgersi che l’età anagrafica e quella percepita non coincidono: a volte ci sentiamo molto più giovani. Altre volte molto più vecchi. Altre volte ancora ci sentiamo senza età, come se galleggiassimo al di fuori del tempo. Forse succede perchè convivono, in noi, parti diverse ed età diverse. Non cresciamo tutto insieme. Cresciamo a zone. Magari siamo affettivamente adolescenti e professionalmente adulti o viceversa. A volte siamo fieri del nostro essere bambini e altre volte ce ne vergogniamo come se fosse un difetto da nascondere a noi stessi prima che agli altri.

L’idea che la crescita sia segnata dall’anagrafe è un mito: la crescita è segnata dalla coltivazione. Cresciamo in quelle aree che ricevono la nostra attenzione, la nostra cura e il nostro impegno. Cresciamo quando permettiamo che la realtà ci trasformi, quando siamo abbastanza flessibili senza diventare troppo permeabili e abbastanza definiti senza diventare troppo rigidi. Cresciamo quando rimaniamo bambini senza essere infantili, maturi senza essere vecchi, freschi senza essere giovanilistici.

È difficile far crescere tutto insieme. Succede come alle piante che crescono di più a seconda della luce che ricevono. Le zone in ombra rimangono più piccole e, a volte, più tenere. Possiamo guardare alle parti piccole di noi come la nostra riserva di sviluppo. Sappiamo che in qualche area della nostra vita abbiamo ancora tanto da crescere. L’importante è capire che non esiste solo il tempo interno ma che la nostra vita è sempre in dialogo con un tempo esterno che, senza la nostra autorizzazione, passa e ci trasporta in momenti diversi.

Se manteniamo questo dialogo tra tempo interno e tempo esterno potremo mantenere la tenerezza dell’infanzia, il rischio dell’adolescenza e la maturità dell’età adulta senza trasformarli in rimpianti o in rimorsi per quello che non abbiamo fatto. In rimproveri strategici per spingerci a fare quello che dovremmo fare.

Abbiamo bisogno di avere in noi tutte le età: cosa saremmo se perdessimo la tenerezza dell’infanzia e la capacità di stupirci di ogni cosa? Quanto sarebbe triste smettere di rischiare e di crescere oltre l’abitudine quotidiana. Ma, soprattutto, come sarebbe inutile lo scorrere del tempo se non gli permettessimo di stagionarci e condirci, di maturarci e insaporirci. E di continuare a farci crescere ogni giorno in zone diverse: quelle battute dalla luce delle diverse stagioni.

La pratica spirituale dovrebbe aiutarci a crescere senza perdere il senso del gioco, dell’umorismo e della magia, in modo da evitare il rischio professionale del congelamento in identità fisse e stabili.(…) Come monaco zen sono stato salvato dal congelamento dal mio essere poeta, come poeta sono stato aiutato ad andare in profondità dal mio essere monaco zen. Lo zen probabilmente mi ha salvato da me stesso; la poesia mi ha salvato dallo zen. Norman Fischer

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2017 Il protocollo MBCT  Foto di ©helveticaneue

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La mente del principiante

02/10/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ho molto presente il momento in cui ho iniziato a praticare mindfulness – o, se preferite – vipassana. L’ho fatto con curiosità ma senza particolari aspettative. Stavo cercando qualcosa ma non mi era chiaro cosa. Dopo pochissimi minuti ho avuto l’intuizione di averlo trovato.

Mi sono vista bambina, nel piccolo paese di montagna in cui vivevo. Era appena nevicato. Una di quelle nevicate farinose che mi facevano impazzire di gioia. In quel momento, immersa nella neve come se fosse panna montata, ho sentito che nella vita si poteva essere felici.

In quell’attimo iniziale di pratica di mindfulness il ricordo è tornato vivido, come se non fosse un ricordo ma proprio il luogo in cui mi trovavo in quel preciso momento della mia esistenza. Gli anni successivi non sono stati così divertenti. Una adolescenza ribelle, qualche guaio inevitabile. Penso di aver percorso la strada del dolore e dell’inquietudine moltissime volte. Qualche volta quella bambina e la sua convinzione mi sembravano totalmente scomparse. Segni di una ingenuità che mi esponeva a ferite e delusioni e che era meglio abbandonare.

Tornare all’ispirazione è stato il vero ritorno alla mia bambina interiore e il vero percorso verso la mente del principiante. Questo credo che sia il livello di consapevolezza che offre la mindfulness: la possibilità di imparare da noi stessi e dalle nostre intuizioni. L’intuizione è un processo singolare: essendo frutto della creatività nasce dall’essere e non dal fare. Anzi il fare incessante può far sparire o nascondere l’intuizione dentro una tana profonda. E quando la nostra intuizione è nascosta, attraversiamo sempre un periodo di aridità. Non possiamo procedere senza intuizioni, perché vorrebbe dire che non abbiamo più aspirazioni ma solo obiettivi.  Tratto da Destinazione Mindfulness 56 giorni per la felicità

Pratica di mindfulness: La consapevolezza del respiro

© Nicoletta Cinotti 2017 Verso un’accettazione radicale

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I nostri piani sul futuro e il capitano

13/12/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

La tendenza a programmare, a progettare è una delle funzioni della nostra mente. Ha un nome: si chiama proprio “funzione esecutiva”. Inizia a sorgere con l’infanzia e il suo sviluppo occupa tutta la nostra adolescenza fino all’età adulta. A circa trent’anni la nostra funzione esecutiva è pienamente matura: è su quella che contiamo per organizzare la nostra vita.

Ha una sua specifica identità e un suo carattere. È quella che ci rende disorganizzati o efficienti. Improvvisatori o programmatori. Sbaglieremmo però se decidessimo che funziona bene solo se siamo programmati. In realtà ho incontrato persone molto efficienti e molto infelici dei loro risultati e persone molto improvvisatrici e molto soddisfatte – a ragione – della loro vita. Non possiamo quindi valutarla sulla base di questo criterio. Più organizzati = più soddisfatti o più maturi.

In realtà io la immagino come un capitano, un comandante che deve gestire un equipaggio. Un buon capitano non è solo quello che porta la nave in porto anche in mari tempestosi. Un buon capitano è quello che sa trasformare il suo equipaggio in un gruppo coeso, che ne sa esprimere la natura, e aiuta a realizzare le migliori qualità di ognuno. Un buon capitano è un uomo che ha una visione, non personale ma condivisa.

Così, quando facciamo i nostri piani per il futuro, perchè non chiederci se, in questo momento siamo dei buoni capitani della nostra vita o degli schiavisti? Se i nostri piani sul futuro esprimono una visione di noi stessi o sono solo un elenco, più o meno lungo, di doveri? Non obbediremo per sempre ad un capitano troppo autoritario ma seguiremo fedelmente un capitano che saprà ispirarci, motivarci, rendere le nostre giornate – anche le più banali – una avventura con un ideale nobile. La nostra vita ha bisogno di un capitano: è per questo che amiamo gli eroi. Perchè sanno essere capitani e sanno contagiare, con la loro visione, gli altri. E il capitano dorme dentro ognuno di noi. Non essere pigro, sveglia il capitano e ascolta la sua visione. Questo è già un modo per mettere le intenzioni sul tuo futuro e renderlo più nobile di un progetto, di una organizzazione.

Fare un passo che è coraggioso, per quanto piccolo, è un modo per portare in superficie i doni che abbiamo ricevuto. David Whyte

Pratica del giorno: Grounding

© Nicoletta Cinotti 2016 Mettere le intenzioni Foto di ©Riccardo Orti

 

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Affetti da un esagerato realismo

08/11/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se dovessi dire cos’è che rende attive nel presente le difese del passato direi che è una forma – esagerata – di realismo. Molte delle nostre precauzioni, preoccupazioni, cautele, disagi, sono ragionevoli. Si basano su esperienze realmente vissute nel passato. Su fatti che abbiamo imparato sulla nostra pelle. E sofferto, sempre sulla nostra pelle. Per questa ragione siamo poco disponibili a cambiare idea e a ridurre le nostre cautele: gli altri non possono capire che cosa abbiamo sofferto. A volte, addirittura, pensiamo di aver sofferto solo noi (anche se non è così!)

Detto questo ampliamo la nostra esperienza – in un eccesso di cautela e generalizzazione – come se mettessimo in pratica il proverbio toscano che dice “Meglio aver paura che buscarne”. E quindi, per non correre altri rischi, cadiamo in un eccesso di realismo – che a volte è anche un eccesso di cinismo – e non ci aspettiamo altro se non la ripetizione della sfortuna che abbiamo già vissuto.

Costruiamo e manteniamo così i nostri schemi di risposta automatici, come se le cose fossero sempre destinate a ripetersi. Non è così: le cose sono sempre nuove. Abbiamo solo bisogno di vederla questa novità e per farlo dobbiamo essere radicati nella realtà e non “realisti”. Dobbiamo stare nel vero e non nel “verosimile”. Dobbiamo correre il rischio di dimenticare il passato, per stare nel presente.

Uno schema automatico di risposta si costruisce sulla base di una esperienza nel passato – infanzia o adolescenza – e porta con se un esagerato realismo, che a volte può essere molto intenso, anche se viene attivato solo se ci sono certe condizioni ed è dormiente per la maggior parte del tempo. Wendy Behary

Pratica di mindfulness: Il panorama della mente

© Nicoletta Cinotti 2016 Il mese della gentilezza Foto di ©Burdizo

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C’è almeno una strada che si fa sovrappensiero

15/10/2016 by nicoletta cinotti

“C’è almeno una strada che si fa sovrappensiero.” (Bluvertigo)

Azioni di poco conto

Sono infinite le cose che facciamo sovrappensiero, le attività che non incontrano il nostro interesse. A che cosa pensi quando ti lavi i denti o bagni i fiori? Sei concentrato, o pensi a quello che devi fare dopo?

E’ vero che c’è almeno una strada che si fa sovrappensiero. E’ quella strada che non ricordi quasi di aver fatto, magari perché è diventata talmente usuale da aver perso qualunque attrattiva. La stessa strada in cui forse ogni giorno succede qualcosa di carino, ma non si hanno più gli occhi per notarlo.

Anche quelle piccole azioni quotidiane e abituali a cui non prestiamo più attenzione potrebbero essere in realtà svolte con uno spirito diverso, con uno sguardo che permetterebbe di vedere oltre la noia o la fatica di farle.

I percorsi di mindfulness partono spesso proprio da queste azioni automatiche, che possono diventare il terreno per diventare più consapevoli e riappropriarsi delle proprie azioni.

Il corpo sovrappensiero

Il corpo è il primo oggetto con il quale siamo sovrappensiero. Parlare del corpo come “oggetto” è forse un po’ surreale, perché il corpo siamo noi. Eppure per molti di noi il corpo è un semplice oggetto, sul quale si possono concentrare molte attenzioni o nessuna, ma che consideriamo come qualcosa di fondamentalmente separato.

Siamo come disconnessi.

Lo possiamo vedere dalle volte in cui ci dimentichiamo di mangiare, o quando ci accorgiamo di aver esagerato e ormai è troppo tardi.

In realtà ci accorgiamo davvero del corpo solo quando sentiamo una sensazione forte o un dolore. Allora ci ricordiamo di quella parte di noi che fino a quel momento avevamo dimenticato.

Riappropriandoci del nostro corpo anche quando questo non succede ci riappropriamo delle nostre azioni e delle esperienze che viviamo. Perché? Perché la mente ci porta sovrappensiero, il corpo no. La mente può viaggiare nel passato e nel futuro, essere lontano e in altri spazi, il corpo no. Il corpo ci tiene dove siamo veramente.

Sentire il corpo, al di là dei concetti

Concentrarsi sul corpo significa tornare a contatto col presente.

Non si può fare in maniera concettuale: non si tratta di guardarsi attentamente allo specchio, quanto di entrare dentro lo specchio per sentire quello che sta succedendo all’interno.

Guardandoci da fuori possiamo vedere la forma del nostro volto e magari notare qualche imperfezione. Con un’osservazione diversa, che parte dall’interno, possiamo anche sentire se i nostri muscoli sono tesi, se la mascella è rigida o morbida, sentire cosa i nostri occhi stanno provando a comunicare.

Quello che si ricerca con la mindfulness è un’attenzione autentica, va al di là del concetto di come pensiamo che sia o debba essere quella parte del corpo. Se guardiamo lo specchio è facile cadere nel “concetto”: osserviamo che i nostri capelli sono in un modo e non in un altro, confrontando i nostri dettagli con dei dettagli ideali.

Questi concetti possono essere un elemento di disturbo, non permettendo di vedere la realtà come qualcosa di mutevole e fondamentalmente unico.

Se si vuole fare un ritratto pensando che “gli occhi si fanno così”, il disegno non sarà mai somigliante: è possibile vedere la persona “in quell’istante”, come forma ed espressione, dimenticando per un po’ che quello è un naso e quelli sono occhi?

E’ possibile sentire e sentire se stessi in modo incondizionato?

Una vera alternativa

Il corpo dà continuamente dei segnali e già da ora puoi iniziare a sentirli, chiedendoti di percepire la temperatura, la gravità, i movimenti che stanno accadendo “nella tua sede”.

Qualsiasi sensazione, pulsazione, può essere neutra o trasmettere qualcosa, di positivo o negativo.

Prima di pensare a che cos’è o a che cosa vuol dire, prova a sentire del tutto una determinata sensazione, a chiederti che effetto ti fa.

I pensieri busseranno di sicuro alla porta, ma si può imparare che sono solo pensieri.

I pensieri hanno a che fare con l’esperienza ma non coincidono con l’esperienza e la mindfulness insegna a trattarli nella giusta misura.

Se sono molte le strade che fai sovrappensiero, se anche tu ti dimentichi ogni tanto di avere un corpo, ora sai che c’è un’alternativa a questo distacco. Alcuni lo chiamano “tornare a casa”.

Vuoi ascoltare Sovrappensiero dei Bluvertigo? Clicca qui!

© Silvia Cappuccio 2016

 

 

 

 

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