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protocolli per bambini

Quanto tempo è che non ti sorprendi?

22/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

I nostri pensieri hanno tanti pregi e tanti difetti. Come tutto del resto. però c’è una cosa che perdiamo quando siamo immersi nei pensieri e che è qualcosa di davvero insostituibile: la capacità di sorprendersi. È una sensazione connessa alla gioia e nasce da una sorta di risveglio improvviso dei sensi. La nostra mente è aperta, qualcosa colpisce la nostra attenzione sensoriale, attivandola. Quella sorpresa fa sobbalzare il cuore e, soprattutto, risveglia il corpo.

Se è tanto tempo che non provi più un senso di sorpresa è molto probabile che tu sia troppo attirato dai tuoi pensieri, troppo catturato dalla loro sonorità e poco catturato dalla vita. Forse puoi fare qualcosa, non per rimanere sorpreso perché quello è un evento spontaneo e naturale, ma per creare le condizioni perché qualcosa ti risvegli dalla trance dei pensieri.

  • Senti la forza di gravità, ascolta i tuoi piedi sul terreno, il peso delle cose che porti. La gravità è sempre presente e ascoltare questa sensazione riporta, con semplicità, al corpo. Può essere anche solo sentire il movimento dei piedi quando cammini. Visto che dobbiamo farci i conti, lasciati sorprendere dal peso. Questo ti permetterà di essere sorpreso dalla leggerezza.
  • Onora quello che succede: spesso non ci facciamo sorprendere perché tendiamo a correggere gli imprevisti prima di poter assaggiare la gioia della novità. E se ogni imprevisto fosse un regalo, un messaggio, un richiamo alla sorpresa e, quindi, alla presenza?
  • Sosta nella sensazione che la sorpresa ti dà, condividila con qualcuno. Contagia il mondo attorno a te con la possibilità che la sorpresa, la novità, sia una gioia inaspettata.

Un momento di gioia ci prende sempre di sorpresa. Non siamo noi ad afferrarlo, ma è lui ad afferrare noi. Ashley Montagu

Pratica del giorno: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

 

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La sfumatura del cambiamento emotivo

03/04/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Molti di noi possono credere che le emozioni siano collegate solo a ciò che sentiamo. Che nascano da una interazione con una situazione o con una persona e che la loro origine stia in qualcosa che succede o che è successo.

In realtà moltissime delle emozioni che proviamo in una giornata nascono da quello che pensiamo. A volte, volutamente, andiamo a ripescare un ricordo per poter provare di nuovo una certa emozione. E non sempre lo facciamo con le emozioni positive. Anzi, moltissime volte lo facciamo proprio con le emozioni spiacevoli. Possiamo dire che qualsiasi emozione può essere suscitata dai pensieri e l’effetto che ha sul corpo è proprio come quella prodotta dall’esperienza diretta di una situazione.

I nostri pensieri quindi ci espongono ad una realtà aumentata di trauma, dolore e sofferenza. Una realtà che va ben al di là di quello che abbiamo vissuto. Tendiamo a sottovalutare l’impatto che hanno su di noi ma per il nostro corpo l’emozioni prodotta dal pensiero o l’emozione prodotta dall’esperienza è diversa solo di una sfumatura leggera: la sfumatura del cambiamento

Possiamo pensare a quello che dovremmo fare per ore e giorni ma questo non cambierà quello che sentiamo. Potrà aiutarci momentaneamente a fare qualcosa di diverso ma se non continueremo ad esercitare uno sforzo quello che sentiamo riemergerà. Per cambiare quello che sentiamo abbiamo bisogno di passare dal corpo. Un corpo diverso percepisce in modo diverso e “pensa” in modo diverso.

C’è un processo di cambiamento che avviene dall’interno e non richiede sforzi coscienti. È chiamato crescita e migliora l’essere. Non è qualcosa che si può fare: quindi non è una funzione dell’Io ma del corpo. (…). Alexander Lowen

Pratica del giorno: La classe del mattino (Video di esercizi)

© Nicoletta Cinotti 2023 Be real not perfect: crescita e cambiamento

 

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La forza di volontà? Just for love!

18/12/2022 by nicoletta cinotti

Ovvero come far durare a lungo i buoni propositi

Questa è la parte dell’anno dedicata ai buoni propositi. Anche se sappiamo che è solo simbolico pensare a dicembre come ad una conclusione, diventa inevitabile farlo. Fare un bilancio e fare i conti con quello che si è realizzato o mancato di realizzare

È spontaneo che sorga l’idea di fare qualcosa di nuovo, di meglio, di diverso, per l’anno nuovo. Dirsi “quest’anno farò….è tanto rituale quanto farsi gli auguri.

Quando lo diciamo siamo convinti e pieni di entusiasmo. Poi passano i giorni, i mesi e il nostro entusiasmo svanisce di fronte alla fatica del quotidiano. È mancanza di forza di volontà? Possiamo fare qualcosa per avere più grinta? Direi proprio di sì e a questo è dedicato questo articolo.

Per la forza di volontà aboliamo devo, dovrei, per forza

Come prima cosa aboliamo il verbo “Devo” in tutte le sue declinazioni di significato. La mente è “grammaticale” cioè è sensibile alle parole come un poeta e quindi reagisce a questa ingiunzione come reagirebbe ad un ordine. La considera qualcosa di estraneo e, prima o poi, cercherà di liberarsene. E anche noi lo vivremo così. Non siamo più bambini che devono sottostare alle regole: cambiamo il linguaggio verso di noi e trasformiamo i nostri obiettivi in intenzioni.

Può sembrare una sfumatura priva di significato ma non lo è. Se ci diamo un obiettivo abbiamo solo due possibilità: lo raggiungiamo o falliamo. Se mettiamo una intenzione sappiamo che, lungo la strada, potremmo accorgerci che ci sono aspetti nuovi da prendere in considerazione che possono farci cambiare direzione. Se procediamo per obiettivi costruiamo un immagine di noi in cui basta un fallimento per considerarci perdenti. Se mettiamo un’intenzione rimarremo consapevoli del processo e non inizieremo a pensarci come persone prive di forza di volontà!

Sì, perchè uno dei problemi rispetto alle intenzioni dell’anno nuovo è proprio questa: a volte partiamo considerandoci già dei perdenti. Non farlo!

Pensare a te stesso come a qualcuno capace di superare tremende avversità spesso porta ad un comportamento che conferma questa idea. Angela Duckworth

Vòlli, e vòlli sèmpre, e fortissimaménte vòlli

Ve lo ricordate Alfieri? Io lo ricordo più che per le sue opere per la sua frase “vòlli, e vòlli sèmpre, e fortissimaménte vòlli” e per l’immagine di lui legato alla sedia con le corde per non farsi distrarre dallo studio. Ho sempre pensato che fosse una forma estrema e una manifestazione di come la forza di volontà possa essere follia.

In quella breve frase però Alfieri ci dice due cose importanti: la forza di volontà comporta un conflitto contro la distrazione e anche uno sforzo fisico. Lui lo faceva in modo estremo: legandosi. Però è vero che una delle misure della forza di volontà può essere proprio la facilità con cui ci distraiamo. Tutte le volte che, indipendentemente dalla situazione, non ci permettiamo di distrarci coltiviamo la forza di volontà, anche se può sembrare strano. Questa è una delle cose in cui la pratica di mindfulness può essere un grande aiuto. Perchè permette di accorgersi della nostra tendenza a distrarsi ma, senza rimprovero, ci dice, semplicemente, di tornare a casa. Quindi è necessario stabilire un punto in cui tornare e un punto in cui vorremmo arrivare che è la nostra intenzione. Il punto a cui tornare ha bisogno di essere sufficientemente stabile per permetterci l’orientamento. L’intenzione, ossia la direzione, può essere suscettibile di modifiche lungo il percorso, ma deve rimanere chiara.

[box] Stabilire un’intenzione

1. Scrivi su un foglio che cosa desideri per la tua vita. Metti giù 25 cose, anche le più disparate tra loro.

2. Di queste 25 scegline 5: le più importanti.

3. Considera le 20 che hai lasciato fuori una distrazione. Ti torneranno in mente tante volte: ricordati che non le hai scelte e quindi lascia perdere. Tutto non si può fare!

4. Guarda se tra le 5 rimaste c’è un filo comune e costruisci così la tua intenzione.

Liberamente tratto da Grinta di Angela Duckworth[/box]

Mettere a fuoco

Il primo punto quindi potrebbe essere non chiedere troppo a noi stessi e metterci in condizioni in cui, se vogliamo essere concentrati, gli stimoli siano ridotti. Immagino che Alfieri non si legasse ad una sedia pretendendo di studiare in piazza ad Asti ma lo facesse nella sua stanza. Quindi la prima condizione potrebbe essere proprio mettere a fuoco quello che davvero è importante per noi.

Molto spesso mettiamo alla prova la nostra forza di volontà con cose che detestiamo (tipo le diete: ditemi che non posso mangiare una cosa e improvvisamente avrò voglia di mangiare solo quello!). Prova a partire da un punto di vista diverso: che cosa ti sta davvero a cuore? Che cosa vorresti davvero per la tua vita? Qual è la tua passione segreta? Seguila – magari come hobby – ma nel seguirla coltivi la tua forza di volontà perchè è lì che si impara determinazione e perseveranza: dall’amore.

[box] In questo senso la mindfulness è un ottimo esercizio per la forza di volontà: ci distraiamo continuamente e continuamente siamo richiamati a tornare allo stesso oggetto d’esplorazione. Mille volte vaghiamo, mille volte torniamo. Congratulandoci per essere tornati presenti coltiviamo l’attenzione e i vantaggi del mantenere un’attenzione prolungata su un unico oggetto.[/box]

Rimane però un tema: come fare per non essere trascinati continuamente da nuove distrazioni?

Iniziare e finire qualcosa

Dietro alla distrazione e alla relativa mancanza di forza di volontà c’è una sorta di abbandono. Iniziamo qualcosa, magari entusiasti e poi arriva qualcos’altro e appena l’entusiasmo diminuisce passiamo ad una nuova attività. Apparentemente questa è mancanza di forza di volontà. Con una piccola aggiunta: a volte siamo sopraffatti da moltissimi stimoli e quindi non solo non basta la forza di volontà ma quasi non ci accorgiamo che stiamo seguendo uno dei tanti desiderata che avremmo dovuto mettere in secondo piano se abbiamo fatto l’esercizio del mettere un’intenzione che è nel box sopra. Un buon modo per non farsi trascinare è prendere un tempo prima di iniziare qualcosa di nuovo: quel tempo permetterà di chiederci se è davvero questo quello che vogliamo fare. Lo stesso vale per prendersi del tempo quando finiamo qualcosa: ci permetterà di chiederci se è proprio il momento per concludere o se non stiamo abbandonando troppo presto un’attività. In più ci permetterà di mettere una specie di segnalibro: ottimo quando torneremo su quell’attività

[box] Cerca di fare una pausa proprio prima di iniziare e proprio dopo aver finito qualcosa di nuovo. Anche se è qualcosa di semplice come mettere la chiave per aprire la porta. Questa pausa è un breve momento, eppure ha l’effetto di decomprimere il tempo e di centrarti. David Steindl-Rast[/box]

Le componenti della forza di volontà? Passione e perseveranza

Cos’è che forma la nostra forza di volontà? Angela Duckworth non ha dubbi: sono la passione e la perseveranza che formano la nostra forza di volontà. Che lei chiama, in modo più accattivante, grinta.

La passione alimenta la nostra motivazione e la rende resistente alla distrazione, alla noia e alla frustrazione che si incontrano sempre quando vogliamo approfondire una qualità. Sì, perchè avere una passione significa essere soddisfatti anche quando siamo insoddisfatti. Significa non mollare perchè le cose non vanno nella direzione giusta ma insistere perchè ci sembra che quello che arriverà dopo sarà un bel premio anche se ci è costato fatica. La passione non ha solo determinazione ma ha anche una direzione: vogliamo arrivare da qualche parte e lo facciamo con perseveranza. Queste due qualità sono nutrite dai successi ma diventano essenziali di fronte alle difficoltà e agli insuccessi. La forza di volontà infatti riguarda più quello che facciamo quando qualcosa non funziona che quello che facciamo quando va tutto bene. Quando le cose vanno a gonfie vele siamo motivati…abbiamo bisogno della forza di volontà nei momenti difficili.

Lavorare duro come…topi

Se la passione può essere considerata qualcosa di intimo e personale la perseveranza è invece una qualità che può essere coltivata. Come? Secondo Robert Eisenberg, che lavora all’università di Houston, dando compiti duri. Due popolazioni di topi con le stesse caratteristiche genetiche possono sviluppare comportamenti di perseveranza molto diversi a seconda del tipo di addestramento ricevuto. Eisenberg propone ad un gruppo una ricompensa – in genere cibo – ottenuta attraverso 20 ripetizioni di una singola azione e ad un altro gruppo dopo 2 ripetizioni. Dopo un periodo di addestramento con questo esercizio ai topi viene proposto un compito difficile.  I topi che sono stati addestrati ad avere più difficoltà per ottenere il cibo sono più abili nei compiti successivi di quelli che hanno avuto “la vita facile”. Anche se sono compiti di altra natura.

Ecco perchè è importante partire dalla passione: coltiva la tua forza di volontà facendo qualcosa che ami. Questo rafforzerà la tua determinazione anche nel fare le cose che non ami particolarmente perchè le nostre abilità sono trasversali.

Geoffrey Canada è uno scienziato sociale che si occupa di bambini che crescono in situazioni disagiate, per favorire uno sviluppo pieno del loro potenziale di crescita. Non si comporta come Eisenberg con i topi, facendoli lavorare duro per poter mangiare. Fa una cosa ancora più bella. Li fa lavorare duro per la loro passione: che sia ballare o giocare a basket non ha importanza. Parte da lì per sviluppare i loro comportamenti di perseveranza. Nella convinzione – abbastanza dimostrata – che se accetti la fatica da qualche parte poi la saprai usare anche per il resto della sua vita. E i dati gli stanno dando ragione!

Il talento: gioie e dolori

Vogliamo che i nostri figli siano felici e così esageriamo: esageriamo nell’offrire loro un ambiente eccessivamente comodo. In questo modo non gli permettiamo di sperimentare le loro passioni a fondo, né di fargli trovare quella perseveranza che nasce dal lavorare duro per qualcosa che ami. Il punto però è partire dalla loro passione e metterli in condizione di capire che la passione vale la pena del lavoro duro che, a volte, comporta.

Il vero ostacolo, per strano che possa sembrare, è il talento. Abbiamo una cultura che dà estrema importanza al talento e rischia di sottovalutare l’importanza dell’impegno. Per quanto una persona sia talentuosa nessuno può fare a meno di esercitarsi. Ne sono un esempio gli sportivi o i musicisti. Quando li vediamo in gara rimaniamo estasiati dal loro talento e crediamo che sia un miracolo, frutto di una fortunata coincidenza tra struttura fisica e condizioni ambientali. In realtà dietro ci sono tantissime ore di allenamento e una vita passata a studiare.

Ho odiato ogni minuto di allenamento ma mi dicevo, soffri ora ma vivi il resto della vita come campione! Muhammad Alì

Questa frase è un po’ come quella dell’Alfieri: non sottovaluta la fatica e la accetta in vista di un risultato futuro. Il punto di partenza però è il cuore.

I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere l’abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte dell’abilità. Muhammad Alì

La forza di volontà è una caratteristica innata?

È vero che i bambini, fin da neonati, hanno comportamenti molto diversi. E che questi comportamenti sembrano avere una base innata. È vero però che la forza di volontà risponde all’apprendimento e – buona notizia – è un apprendimento che può essere fatto in qualsiasi momento. Angela Duckworth dà alcuni suggerimenti che io ho un po rielaborato.

  1. Fermati al punto naturale di fine. Che vuol dire impara a non andartene troppo presto ma anche a non rimanere oltre il limite duro delle cose. Interrompere alla prima difficoltà coltiva la distrazione. Insistere troppo a lungo coltiva lo sforzo. Le cose però hanno un punto naturale di fine che è importante saper riconoscere. E quel punto di fine deve essere in relazione con noi non con il raggiungimento di un obiettivo particolare che potrebbe essere molto spostato rispetto al nostro limite. Tradotto vuol dire finisci tutte le lezioni di yoga che hai comprato anche se è dura; finisci la pratica anche se ti sembra lunga; domandati se sei al punto naturale di fine o se stai abbandonando o prolungando troppo oltre.
  2. Scegli su che cosa vuoi esercitare la tua forza di volontà: non farlo su qualcosa che devi ma su qualcosa che ami. Una volta imparato a coltivare perseveranza e determinazione su quello che ami ti sarà più semplice applicarlo anche su quello che devi fare.
  3. Scegli una cultura, un  gruppo di riferimento. Può sembrare che la forza di volontà sia un fatto squisitamente personale: non lo è. Nelle famiglie i cui membri hanno maggiore determinazione, ci sono bambini più determinati. Meditare insieme è più facile che meditare da soli. Essere in una squadra affiatata ci fa giocare meglio che quando si è in un gruppo disordinato. Abbiamo bisogno del rinforzo, del sostegno che viene dalla condivisione. Abbiamo bisogno di modelli di riferimento. Qualunque sia la tua passione, l’intenzione per il nuovo anno, l’oggetto della tua forza di volontà cerca un buon gruppo con cui condividerlo. Persone con cui allenarti o essere in dialogo.
  4. Non farlo solo per te. Gli scopi esclusivamente personali sono più deboli. Chi ha famiglia è più motivato ad avere successo professionale perchè pensa al futuro dei propri figli. Questo è vero anche se non abbiamo famiglia: è più facile studiare per ore e ore violino se pensiamo alla gioia che potremo dare a chi ci ascolterà. È più facile allenarsi se siamo affezionati al nostro allenatore. Il nostro animo e la nostra mente sono squisitamente sociali e hardwired per la socialità. Ciò che rafforza esageratamente gli elementi di personalità a discapito del gruppo mette una condizione di stress eccessivo. Competere, nella sua etimologia originaria, aveva il significato di andare insieme verso il medesimo punto: qui nasce la nostra forza: nell’andare insieme verso il medesimo punto. Nei secoli abbiamo ristretto questa visione in “io arrivo prima di te”. Torniamo all’etimo originario e andiamo insieme verso il medesimo punto…

Per me lo scopo della forza di volontà non è l’eccellenza ma la pratica. Lo scopo è aiutare le persone a trovare il proprio ritmo e la propria continuità nella pratica. Quando ho fatto la supervisione con Carolyn West del Center for Mindfulness le sue parole sono state molto gentili su questo argomento “Rilassati: non possiamo fare niente perchè le persone pratichino. Deve essere una loro scelta”.

È vero: la pratica non può che essere una scelta personale ma poiché sperimento ogni giorno i benefici della pratica, ogni giorno mi piace ricordare che abbiamo la possibilità di compiere un retto sforzo: non per amore dell’eccellenza ma just for love. E la mia pratica non sarebbe così ricca se non sapessi che la faccio ogni giorno insieme a te. Per cui grazie: sei la radice della mia determinazione. (Grazie anche se hai letto fino a qui: sono un po’ lunga!)

© Nicoletta Cinotti 2022

 

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Una storia tra inadeguatezza, rischio e miglioramento

27/11/2022 by nicoletta cinotti

Si avvicina la fine dell’anno e arriva il momento dei bilanci. A fine mese ci sono le tasse per noi liberi professionisti e questo aiuta a fare i conti. Conti tra i più vari: vanno dal mantenere le buone abitudini acquisite, al fare qualcosa di lungamente rimandato, all’iscriversi a qualche corso. Lo scopo? Spesso non espresso ma implicito: miglioramento. Siamo dei fanatici del miglioramento, e lo stiamo diventando sempre di più. Abbiamo libri, riviste, giornali che parlano di come migliorarsi: aspetto fisico, abitudini, aspetti emotivi. Ma come mai tanta attenzione al miglioramento e che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Anche se tendiamo a negarlo l’idea del miglioramento è sottilmente ostile nei nostri confronti. Significa che c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui subordiniamo la nostra possibilità di accettazione. Mi accetterò quando avrò superato quel problema, quel difetto, e dimostrerò così, a me stesso e agli altri, che valgo, che sono capace, che ho padronanza nei confronti della mia vita. Inoltre l’idea del miglioramento fa pensare a qualcosa di statico, già definito e concluso, che richiede solo un ritocco. Magari grande ma un ritocco.

Il concetto di crescita è invece più stimolante e flessibile. Include la possibilità che ci siano aspetti più maturi e altri più deficitari, include l’idea che il cambiamento sia in corso ma non dà una classificazione negativa. Rimane aperto a molte possibilità che potranno verificarsi o meno, a seconda della direzione di sviluppo. Include la possibilità che non tutto si realizzi ,senza che questo debba per forza essere considerato un fallimento. Molto spesso le persone orientate alla filosofia del miglioramento hanno una visione perfezionistica delle loro possibilità di crescita.

Chi, invece, ragiona in termini di crescita, in genere associa la crescita ad un aumento degli aspetti positivi ed è più propenso al rischio, anche al rischio di sbagliare, di chi, invece, si muove in termini di miglioramento.

Cosa nascondono i nostri sforzi migliorativi

Vorrei sgombrare il campo da possibili equivoci: sia che siamo fanatici del miglioramento che teorici della crescita, le cose sono soggette a cambiamento. Alcuni cambiamenti sono piacevoli, altri meno. In alcuni casi sperimentiamo una crescita, in altri una decrescita. In alcuni casi poi – forse la maggioranza – il cambiamento non dipende da noi. Ce lo troviamo davanti già confezionato e non sempre è di nostro gradimento. Spesso abbiamo un eccessivo senso di colpa rispetto agli eventi che accadono, ci riteniamo responsabili anche di cose che non possono, oggettivamente, rientrare nella nostra sfera di competenza, come se da noi dipendesse tutto.

La vera domanda però è un’altra: quello che accade – fuori dal nostro programma e controllo – suscita una sensazione di disagio o inadeguatezza? Preferiamo i programmi o siamo flessibili alle novità? Ci basta rispondere che dipende dall’aspetto desiderabile di queste novità oppure l’imprevisto è spesso accolto con ansia?

Molti dei nostri tentativi di miglioramento nascondono, infatti, una sotterranea sensazione di inadeguatezza. Non ci sentiamo all’altezza, a volte di uno standard di prestazione, a volte di un ideale, a volte di come eravamo e di come cerchiamo di rimanere. Perché la sensazione di inadeguatezza ci perseguita? Perché sentirci inadeguati ci fa sentire fuori dal club, fuori dal gruppo, fuori dall’appartenenza.

Sentirsi fuori dal gruppo

Non appartenere, sentirsi estranei, è percepito come pericoloso, fin dall’antichità. Per i nostri antenati essere estromessi dalla tribù significava morte certa e la minaccia di espulsione è, da sempre, una forte molla di controllo sociale. Dietro alla compulsione a verificare i like sui social credo ci sia questo desiderio di appartenere, di fare parte. A volte anche i desideri più elitari nascondono, in realtà, proprio il bisogno di appartenere. Magari ad un gruppo molto ristretto e selezionato, ma appartenere.

Nella mia infanzia la minaccia, “Ti mando in collegio“,era l’unica che sortiva qualche effetto, breve ma intenso. Come rispondiamo a questo senso di inadeguatezza e al sottostante rischio di isolamento? Le strategie più usate sono diverse ma tutte hanno una duplice qualità: iper-compensazione o resa.

Torniamo ai fatidici progetti di miglioramento

I progetti di miglioramento hanno l’obiettivo di farci ri-entrare in un gruppo o in un target. E sono un buon modo per spiegare la differenza tra iper-compensazione e resa. Le persone che iper-compensano sono quelle che iniziano una dieta (magari senza averne tantissimo bisogno) e poi non riescono a smettere. E questo vale per moltissime altre scelte che portano avanti con ossessione e determinazione.

Se invece prevale la resa un buon esempio sono quelle persone che, forse avrebbero bisogno di iniziare una dieta ma non provano nemmeno, essendo convinti che non riusciranno mai a portarla a termine. Queste due modalità opposte possono sembrare diverse: in realtà nascondono entrambe un  bisogno di gestire il sentimento di inadeguatezza: in un caso facendo di tutto per non provarlo (iper-compensazione), nell’altro facendo di tutto per non rischiare un ulteriore fallimento. Ma in quali altri modi trattiamo il nostro senso di inadeguatezza? Ecco un breve elenco:

  • Evitiamo di rischiare

È un po’ all’opposto dell’essere sempre presi da un progetto di miglioramento: in questo caso il punto è evitare di rischiare. Niente responsabilità, niente leadership, meglio rimanere nell’ombra. Non rischiare anche quando, non rischiare, è già di per sé un danno. Perché? Per paura del fallimento. o meglio per paura che un fallimento alimenti la personale sensazione di inadeguatezza. È vero che fallire è doloroso ma paralizzare la propria vita evitando qualsiasi rischio diventa un modo per bloccare la propria crescita personale. Abbiamo bisogno di rischiare perché rischiare ci permette di coltivare la zona prossimale di sviluppo.

  • Evitare il presente

Strettamente collegato ad evitare di rischiare è evitare di stare nel presente. Ci sono persone che sono sempre catturate da episodi del passato: passato immodificabile, senso di inadeguatezza non trasformabile. Ma anche situazioni in cui evitare il presente, e le sue opportunità, permette di evitare di rischiare, di mettersi in gioco. Una delle modalità con cui evitiamo il presente è con la distrazione. Da una parte siamo catturati da vecchie storie del passato, dall’altra siamo attirati dalla nostra fantasia ad andare altrove. Dove? Non ha importanza, la fuga ha sempre qualche destinazione. L’aspetto principale è evitare l’ansia connessa al presente della nostra situazione. Affrontarla suscita troppa inadeguatezza. insomma, quella che di solito chiamiamo mancanza di disciplina è, molto spesso, mancanza d’amore nei nostri confronti. Ci sentiamo troppo inadeguati per volerci bene!

  • Tenersi occupati

Se ci teniamo occupati, anche molto occupati, controlliamo la sensazione di inadeguatezza. Non è detto che l’occupazione con la quale ci intratteniamo sia utile ma sicuramente ci protegge da qualcosa che farebbe emergere la sensazione che temiamo. Il vuoto, la pausa, fa emergere il senso di mancanza, il senso di inadeguatezza. Tenersi occupati è come un tappo che va bene per qualsiasi disagio. In più dà l’illusione che, tutto sommato, ce la stiamo mettendo tutta. In realtà a volte ci teniamo occupati con compiti al di sotto delle nostre possibilità, come navigare sui social. Ma non importa: tutto purché non affiori quella sgradevole sensazione.

  • Andiamo sul classico: la voce critica interiore

Abbiamo già parlato molto spesso della nostra radio, sempre accesa, sempre pronta a criticarci.Non riparlerò troppo di questa modalità che è sul versante dell’iper-compensazione. Come se criticarci servisse a migliorarci. In realtà non fa che confermare una convinzione che abbiamo già: non andiamo bene. Se guardiamo a questo aspetto con consapevolezza possiamo renderci conto di quanto sia improduttivo: quale allenatore direbbe continuamente al suo atleta – durante la prestazione – che non va bene? Nessuno, perché a tutti parrebbe evidente l’assurdità del comportamento conseguente. Eppure con noi stessi facciamo proprio così: confondiamo il bisogno di consolarci con la critica. Confondiamo il desiderio di crescere con la storia del miglioramento ad oltranza.

  • L’altra faccia della medaglia: il biasimo

L’altra faccia del comportamento di critica interiore è il biasimo rivolto, questa volta, all’esterno. Apparentemente la nostra ostilità non è rivolta verso di noi ma in realtà ci mette nella condizione di temere tantissimo il nostro personale fallimento e di temere ancora di più il giudizio altrui. Se stiamo attenti le persone che sono sempre pronte a criticare il prossimo sono, molto spesso, persone insoddisfatte dei propri risultati, persone che scelgono di non rischiare e, quindi, di non crescere.

I discorsi di laurea

Negli Stati uniti, alla cerimonia di laurea vengono chiamati famosi oratori per celebrare questo momento di transizione. Alcuni di questi discorsi sono diventati famosi perché pieni di saggezza e intuizione. In effetti io credo che ogni giorno dovremmo svegliarci con un discorso di laurea rivolto a noi stessi. Guardare l’agenda del giorno e rivolgersi delle parole calde e ispiranti per la transizione tra le mura domestiche e il mondo esterno.Se non ogni giorno almeno all’inizio di ogni anno o di ogni attività importante. Prendo due citazioni, per concludere in bellezza.

[box] In questo meraviglioso giorno in cui siamo riuniti per celebrare il vostro successo accademico, ho deciso di parlarvi dei vantaggi del fallimento. Ed esaltare, proprio mentre siete sulla soglia di ciò che viene chiamato “vita reale”, l’importanza fondamentale dell’immaginazione. I miei genitori, entrambi di umili origini e senza istruzione universitaria, hanno sempre pensato che la mia prolifica immaginazione fosse una specie di divertente capacità personale che non avrebbe mai pagato un mutuo, né assicurato una pensione. Capisco quanto questo possa apparire ironico adesso (…) Non biasimo i miei genitori per il loro punto di vista. C’è una data di scadenza per accusare i tuoi genitori per averti guidato in una direzione sbagliata (…) Ma quello che io ho temuto di più nella mia vita non è stata la povertà ma il fallimento. Credo di poter dire che, solo sette anni dopo la mia laurea, avevo fallito in modo esponenziale. Un matrimonio eccezionalmente breve finito, senza lavoro, genitore single e povero come è possibile esserlo in Gran Bretagna senza arrivare ad essere senza fissa dimora. I timori che i miei genitori avevano avuto per me – la loro stessa povertà – e che io avevo avuto per me, si erano realizzati: sono stato il più grande fallimento possibile. Allora perché parlo dei benefici del fallimento? Semplicemente perché il fallimento è stato un incredibile punto di partenza. Ho smesso di fingere di essere quello che non ero e ho iniziato a dirigere tutta la mia energia per finire l’unico lavoro che mi interessasse. (…) Mi sono sentita libera, perché il mio più grande timore si era stato realizzato e io ero ancora viva, con una figlia adorata, una vecchia macchina da scrivere e una grande idea. E così il fondo che ho toccato è diventata la solida base su cui ho ricostruito la mia vita. (Harvard, 2008) J.K. Rowling autrice della saga di Harry Potter[/box]

Se tutti conoscono l’autrice di Harry Potter, forse non tutti conoscono Jennifer Lee, regista di cartoni animati, il più famoso dei quali è Frozen. Il suo discorso di laurea, del 2014 riprende in parte i temi di quello precedente e poi parla dei dubbi su se stessi. Ecco cosa dice:

[box] … è solo quando sei libero dai dubbi su di te, che inizi a fallire davvero, perché non ti difendi e quindi puoi anche accettare le critiche degli altri. Non sei così tanto preoccupato del fallimento da dimenticare di imparare dal fallimento, da dimenticare come crescere. Quando credi in te stesso, riesci meglio. Le ore trascorse in discussioni, dubbi, paure, possono essere passate a lavorare, esplorare, vivere.(…) e se c’è una cosa che ho imparato è che il dubbio nei propri confronti, il dubbio sulla propria adeguatezza, è una delle forze più distruttive. Ti mette sulle difensive invece che renderti aperto, diventi reattivo invece di attivo. È crudele e la mia speranza è che possiamo iniziare tutti a eliminarlo.(2014) Jennifer Lee[/box]

Lasciamo che questi discorsi di laurea ci aiutino a percorrere il nostro tempo con più accettazione e meno senso di inadeguatezza. Facciamoceli ogni mattina. Ricordiamoci ogni mattina che essere noi stessi, così come siamo, è il miglior punto di partenza per qualsiasi cambiamento e che criticare ciò che ci ha fatto diventare così significa negare la nostra unica qualità. Chi saremmo, senza ciò che abbiamo vissuto? Io ho provato a farlo e, inaspettatamente, ho scoperto la gioia anche nelle giornate più buie!

Per amare chi sei non puoi odiare le esperienze che ti hanno fatto diventare come sei.

© Nicoletta Cinotti 2022 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

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Scrivere è un errore continuo

25/09/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

All’esame di maturità presi 3 di tema. Mi salvò la prova di matematica dove presi 10. Il Presidente della Commissione d’esame – un’insegnante di Lettere molto stimata in città anche per il suo impegno politico – mi predisse le 7 calamità naturali per quello che riguardava la mia scrittura. Arrivai all’Università ben contenta che gli esami fossero orali. Scrivere la prima tesi di laurea fu difficile. Poi decisi di prendere un’altra laurea e anche la seconda tesi fu difficile: mi salvai perché era una tesi di ricerca e i numeri a me piacciono. Soprattutto le metriche e le statistiche.

Iniziai ad aver bisogno di scrivere per lavoro. Era una sofferenza ogni volta. Lo facevo ma non potevo dimenticare le 7 calamità predette dal presidente della commissione di maturità. Te le dico perché potrebbero venir utili: vai fuori tema, sei esagerata, usi frase fatte, non hai una struttura, inizi male, finisci peggio, usi parole difficili. Come ottava calamità aveva detto “Leggerti mi ha fatto venire i vermi”. Confesso che delle parole difficili non mi sono ancora liberata: mi piacciono abbastanza per via del suono.

Poi, ad un certo punto iniziai a scrivere per amore: per amore della pratica. Per gratitudine verso tutto quello che ogni giorno fioriva dentro di me e fuori di me. Continuavo ad avere tutte e sette le calamità naturali (qualche volta avevo anche i vermi mentre scrivevo che sarebbe stata l’ottava calamità!). Però ero certa che non fosse importante perché quelle parole erano un regalo. E ai regali non si contesta mai nulla. Piano piano le parole non erano più sassi appuntiti ma diventavano fluide come acqua. A volte dolci come miele.

Ho capito che quello che mi rendeva difficile scrivere erano gli errori. Scrivere è incontrare di continuo i nostri errori. Ti si palesano davanti perché scrivere è come tornare a casa: ti incontri. E vedi, con onestà, le cose come stanno. E se non sei onesta la scrittura lo rivela subito, diventa subito una nota stonata. Magari cerchi di nasconderti e allora la scrittura diventa roboante o contorta. Cerchi di dargli struttura ma invece a volte le parole girano nell’aria come fiocchi di neve e bisogna lasciarle così: parole singole in movimento.

ieri abbiamo fatto la pratica gratuita di meditazione e scrittura e alcune persone, dopo, mi hanno inviato quella che hanno scritto. È stato davvero un regalo, anche se non risponderò personalmente a tutti. Sono uscite parole vive, che splendevano. Che si mostravano – “piene di errori” sintattici, avrebbe detto la professoressa della maturità – eppure splendevano nella loro unicità insegnando, nei fatti, che quando ti mostri incontri i tuoi errori e li rendi luminosi. Scrivere è incontrare di continuo i nostri errori e amarli: meno male che è così.

Dedicate: prima e dopo aver scritto, siate sicuri che sia dedicato. Questo è vero per tutto, non solo per la scrittura. Dedico ogni cosa che faccio. Ogni singolo atto di dedica trasforma la mia pratica di scrittura. Gail Sher

© Nicoletta Cinotti 2022 Scrivere storie di guarigione

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Questo non è un paese per ossessivi

23/01/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

La scorsa settimana sono andata a vedere un film di un famoso regista italiano. Lo seguo da molti anni e, nel tempo, mi sono affezionata alla sua comicità, al suo modo di raccontarci senza troppa pesantezza. Al suo parlare di sé parlando di noi. L’ultimo film però mi ha fatto tristezza: era preciso, professionale, bella fotografia, tanto mestiere ma finiva tutto lì. Di nuovo niente, ha giocato tutte le carte che gli permettevano di essere sicuro: è questo che mi ha fatto tristezza.

Mi fa tristezza vedere che le persone, invecchiando, si aggrappano al conosciuto ed evitano la novità.

Mi fa tristezza vedere che il mestiere può diventare più importante della freschezza.

Mi fa tristezza vedere che, con il tempo, non vogliamo correre rischi.

Mi fa tristezza pensare che non ci siano storie nuove da raccontare.

Mi fa tristezza pensare che non si possa crescere in profondità ma solo in età.

Ecco io non vorrei invecchiare così: vorrei continuare a correre rischi, ad essere fresca e curiosa, non vorrei diventare mestierante ma vorrei essere professionale. Vorrei che la mente del principiante fosse accessibile ogni giorno in ogni cosa. Vorrei potermi stupire almeno una volta al giorno e non deprecare quello che mi ha fatto stupire.

Siamo tutti un po’ ossessivi nel nostro desiderio di controllo. Nella speranza di tenere a freno la marea, nel desiderio di essere pronti, preparati ad ogni evenienza ma la vita non è un paese per ossessivi e l’Italia lo è tanto meno. E ogni giorno abbiamo una diversa possibilità di risposta alle solite domande. Non ci serve ripetere sempre le stesse risposte: ci serve cambiare domande.

Dietro alle nostre ossessioni, dietro alla nostra ripetizione sta il dubbio. Quando siamo nel dubbio abbiamo due strade: possiamo scegliere un pensiero ossessivo o un pensiero creativo. E la chiave della scelta sta in quanto ci permettiamo di sbagliare, di rischiare, di essere nuovi.

Ci sono storie che quando le racconti si consumano. Sono quelle in cui il pathos si appanna, e ogni versione suona più sciocca e vuota della precedente. Altre storie, invece, consumano te. Più le racconti, più acquisiscono forza. Chuck Palahniuk

Pratica di mindfulness: La consapevolezza del respiro (File audio)

© Nicoletta Cinotti 2018 A scuola di grazia e non di perfezione

Foto di © Fabio Besostri

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