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ansia

L’ansia del rientro

11/09/2023 by nicoletta cinotti 1 commento

Mi capita spesso, in questi giorni, di sentirmi dire “Ho appena iniziato ma mi sembra che le vacanze siano lontane anni”, oppure “Ho appena ripreso e avrei già bisogno di andare in vacanza”. Io lo chiamo effetto immersione. Quando riprendiamo la nostra quotidianità – che sia lavoro o quotidianità in senso ampio – riprendiamo il nostro consueto meccanismo di vita. Che ci stritola non solo perché è troppo pieno ma anche, e soprattutto, perché è meccanico. Non ha posto per gli imprevisti, non ha posto per la pausa.

È come se la nostra vita diventasse più grande di noi: una specie di macchina gigantesca che ci ingloba fino a soffocarci. In questo senso la vacanza rischia di essere una fuga momentanea che ci permette di tornare a farci stritolare, senza pietà e senza ritegno.

Perché costruiamo dei meccanismi, degli schemi, delle routine? Per amore dell’efficienza. Per timore di non farcela. Il meccanismo acquista così una vita propria ma ci soffoca. Il punto allora è incominciare a mettere la vacanza nella propria vita quotidiana: non nel fine settimana ma proprio nella giornata. In ogni giornata. Dei momenti di assoluta gratuità, in cui dedicarci a quello che accade, senza bisogno di produrre nulla.  Momenti in cui siamo semplicemente presenti. In cui trattiamo la nostra agenda come se fosse un giardino. Momenti in cui, ogni giorno, ci prendiamo una vacanza. Senza l’ansia dell’inizio, senza l’ansia della fine.

Per essere un artista della fine bisogna lodare
Non solo ciò che è stato prima, ma anche ciò che verrà.
Il fatto di finire è di per sé sorprendente;
Le linee che la definiscono non vengono mai tracciate.
L’inizio è un dono che arriva inaspettato,
ma la fine può essere creata come un’arte. Pat Schneider

Pratica di mindfulness: Un cuore sicuro

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR

 

 

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Placare le acque scure del cuore

20/01/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono momenti in cui il nostro cuore è sereno e calmo come un lago di montagna e altri in cui sembra un ribollire di acque scure e misteriose.

Quell’inquietudine cerca una consolazione e una rinnovata serenità. Così iniziamo a scavare nella mente e a guardare alla logica dei fatti scoprendo che un pensiero tira l’altro e nessuno porta alla pace. Quando siamo inquieti abbiamo bisogno di dare nome all’inquietudine e per farlo non possiamo passare dalla mente: abbiamo bisogno di tornare alle parole del corpo. Forse potremmo proprio disegnare i passaggi necessari per placare le acque scure del cuore.

Il primo passo è ascoltare cosa dice il corpo. Dove si muove la tensione e come si esprime. Potremo chiamare questo passo “Tornare a casa” perchè dà una dimora alla nostra inquietudine.

Il secondo passo è riconoscere se ci sono emozioni che nascono dalle sensazioni fisiche e dargli nome. Se non sappiamo trovare nome alle nostre emozioni proviamo a nominarne mentalmente qualcuna – paura, tenerezza, rabbia, ansia, commozione e così via – perché se nominiamo l’emozione che ci corrisponde ci accorgeremo che il cuore si calma. Se proprio non troviamo l’emozione diamo un titolo a come ci sentiamo, come farebbe il regista di un film. Spesso il titolo mette insieme più informazioni di quelle di cui siamo consapevoli. Potremmo chiamare questo passo “Dare nome”

Il terzo passo sarebbe il più ovvio e invece lo dimentichiamo: confortiamo. Non ha importanza se abbiamo torto o ragione. Se è assurdo o comprensibile: se siamo inquieti abbiamo bisogno di confortarci. Solo quando saremo tornati alla calma il senso delle cose può emergere. Pretendere di capire cosa sta succedendo senza calmare prima l’inquietudine è come pretendere di abbassare le onde tagliandole a fette: una missione impossibile. Confortiamoci con il mezzo più antico che c’è: la nostra voce. Ripetiamo mentalmente parole di conforto: ognuno di noi ha la propria formula magica. La mia è “I pensieri non sono fatti”. Potremmo chiamare questo passo “Cullare il cuore” ma se ci sembra troppo romantico chiamalo “Amicizia”. È quello che gli amici fanno per noi: ci calmano e ci confortano. È quello che abbiamo bisogno di re-imparare: essere amici di se stessi.

E poi lasciamo che le acque del cuore tornino chiare rimanendo fermi: le azioni che scegliamo sotto la spinta dell’agitazione complicano la vita. Quando le acque saranno tornate chiare saremo ancora in tempo a scegliere e faremo quello di cui abbiamo davvero bisogno.

Accettazione significa riconoscere cosa sta succedendo e permettere che le cose si svelino per come sono, senza combattere la realtà.

Pratica di mindfulness: Cullare il cuore

© Nicoletta Cinotti 2023 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

 

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Una storia tra inadeguatezza, rischio e miglioramento

27/11/2022 by nicoletta cinotti

Si avvicina la fine dell’anno e arriva il momento dei bilanci. A fine mese ci sono le tasse per noi liberi professionisti e questo aiuta a fare i conti. Conti tra i più vari: vanno dal mantenere le buone abitudini acquisite, al fare qualcosa di lungamente rimandato, all’iscriversi a qualche corso. Lo scopo? Spesso non espresso ma implicito: miglioramento. Siamo dei fanatici del miglioramento, e lo stiamo diventando sempre di più. Abbiamo libri, riviste, giornali che parlano di come migliorarsi: aspetto fisico, abitudini, aspetti emotivi. Ma come mai tanta attenzione al miglioramento e che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Anche se tendiamo a negarlo l’idea del miglioramento è sottilmente ostile nei nostri confronti. Significa che c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui subordiniamo la nostra possibilità di accettazione. Mi accetterò quando avrò superato quel problema, quel difetto, e dimostrerò così, a me stesso e agli altri, che valgo, che sono capace, che ho padronanza nei confronti della mia vita. Inoltre l’idea del miglioramento fa pensare a qualcosa di statico, già definito e concluso, che richiede solo un ritocco. Magari grande ma un ritocco.

Il concetto di crescita è invece più stimolante e flessibile. Include la possibilità che ci siano aspetti più maturi e altri più deficitari, include l’idea che il cambiamento sia in corso ma non dà una classificazione negativa. Rimane aperto a molte possibilità che potranno verificarsi o meno, a seconda della direzione di sviluppo. Include la possibilità che non tutto si realizzi ,senza che questo debba per forza essere considerato un fallimento. Molto spesso le persone orientate alla filosofia del miglioramento hanno una visione perfezionistica delle loro possibilità di crescita.

Chi, invece, ragiona in termini di crescita, in genere associa la crescita ad un aumento degli aspetti positivi ed è più propenso al rischio, anche al rischio di sbagliare, di chi, invece, si muove in termini di miglioramento.

Cosa nascondono i nostri sforzi migliorativi

Vorrei sgombrare il campo da possibili equivoci: sia che siamo fanatici del miglioramento che teorici della crescita, le cose sono soggette a cambiamento. Alcuni cambiamenti sono piacevoli, altri meno. In alcuni casi sperimentiamo una crescita, in altri una decrescita. In alcuni casi poi – forse la maggioranza – il cambiamento non dipende da noi. Ce lo troviamo davanti già confezionato e non sempre è di nostro gradimento. Spesso abbiamo un eccessivo senso di colpa rispetto agli eventi che accadono, ci riteniamo responsabili anche di cose che non possono, oggettivamente, rientrare nella nostra sfera di competenza, come se da noi dipendesse tutto.

La vera domanda però è un’altra: quello che accade – fuori dal nostro programma e controllo – suscita una sensazione di disagio o inadeguatezza? Preferiamo i programmi o siamo flessibili alle novità? Ci basta rispondere che dipende dall’aspetto desiderabile di queste novità oppure l’imprevisto è spesso accolto con ansia?

Molti dei nostri tentativi di miglioramento nascondono, infatti, una sotterranea sensazione di inadeguatezza. Non ci sentiamo all’altezza, a volte di uno standard di prestazione, a volte di un ideale, a volte di come eravamo e di come cerchiamo di rimanere. Perché la sensazione di inadeguatezza ci perseguita? Perché sentirci inadeguati ci fa sentire fuori dal club, fuori dal gruppo, fuori dall’appartenenza.

Sentirsi fuori dal gruppo

Non appartenere, sentirsi estranei, è percepito come pericoloso, fin dall’antichità. Per i nostri antenati essere estromessi dalla tribù significava morte certa e la minaccia di espulsione è, da sempre, una forte molla di controllo sociale. Dietro alla compulsione a verificare i like sui social credo ci sia questo desiderio di appartenere, di fare parte. A volte anche i desideri più elitari nascondono, in realtà, proprio il bisogno di appartenere. Magari ad un gruppo molto ristretto e selezionato, ma appartenere.

Nella mia infanzia la minaccia, “Ti mando in collegio“,era l’unica che sortiva qualche effetto, breve ma intenso. Come rispondiamo a questo senso di inadeguatezza e al sottostante rischio di isolamento? Le strategie più usate sono diverse ma tutte hanno una duplice qualità: iper-compensazione o resa.

Torniamo ai fatidici progetti di miglioramento

I progetti di miglioramento hanno l’obiettivo di farci ri-entrare in un gruppo o in un target. E sono un buon modo per spiegare la differenza tra iper-compensazione e resa. Le persone che iper-compensano sono quelle che iniziano una dieta (magari senza averne tantissimo bisogno) e poi non riescono a smettere. E questo vale per moltissime altre scelte che portano avanti con ossessione e determinazione.

Se invece prevale la resa un buon esempio sono quelle persone che, forse avrebbero bisogno di iniziare una dieta ma non provano nemmeno, essendo convinti che non riusciranno mai a portarla a termine. Queste due modalità opposte possono sembrare diverse: in realtà nascondono entrambe un  bisogno di gestire il sentimento di inadeguatezza: in un caso facendo di tutto per non provarlo (iper-compensazione), nell’altro facendo di tutto per non rischiare un ulteriore fallimento. Ma in quali altri modi trattiamo il nostro senso di inadeguatezza? Ecco un breve elenco:

  • Evitiamo di rischiare

È un po’ all’opposto dell’essere sempre presi da un progetto di miglioramento: in questo caso il punto è evitare di rischiare. Niente responsabilità, niente leadership, meglio rimanere nell’ombra. Non rischiare anche quando, non rischiare, è già di per sé un danno. Perché? Per paura del fallimento. o meglio per paura che un fallimento alimenti la personale sensazione di inadeguatezza. È vero che fallire è doloroso ma paralizzare la propria vita evitando qualsiasi rischio diventa un modo per bloccare la propria crescita personale. Abbiamo bisogno di rischiare perché rischiare ci permette di coltivare la zona prossimale di sviluppo.

  • Evitare il presente

Strettamente collegato ad evitare di rischiare è evitare di stare nel presente. Ci sono persone che sono sempre catturate da episodi del passato: passato immodificabile, senso di inadeguatezza non trasformabile. Ma anche situazioni in cui evitare il presente, e le sue opportunità, permette di evitare di rischiare, di mettersi in gioco. Una delle modalità con cui evitiamo il presente è con la distrazione. Da una parte siamo catturati da vecchie storie del passato, dall’altra siamo attirati dalla nostra fantasia ad andare altrove. Dove? Non ha importanza, la fuga ha sempre qualche destinazione. L’aspetto principale è evitare l’ansia connessa al presente della nostra situazione. Affrontarla suscita troppa inadeguatezza. insomma, quella che di solito chiamiamo mancanza di disciplina è, molto spesso, mancanza d’amore nei nostri confronti. Ci sentiamo troppo inadeguati per volerci bene!

  • Tenersi occupati

Se ci teniamo occupati, anche molto occupati, controlliamo la sensazione di inadeguatezza. Non è detto che l’occupazione con la quale ci intratteniamo sia utile ma sicuramente ci protegge da qualcosa che farebbe emergere la sensazione che temiamo. Il vuoto, la pausa, fa emergere il senso di mancanza, il senso di inadeguatezza. Tenersi occupati è come un tappo che va bene per qualsiasi disagio. In più dà l’illusione che, tutto sommato, ce la stiamo mettendo tutta. In realtà a volte ci teniamo occupati con compiti al di sotto delle nostre possibilità, come navigare sui social. Ma non importa: tutto purché non affiori quella sgradevole sensazione.

  • Andiamo sul classico: la voce critica interiore

Abbiamo già parlato molto spesso della nostra radio, sempre accesa, sempre pronta a criticarci.Non riparlerò troppo di questa modalità che è sul versante dell’iper-compensazione. Come se criticarci servisse a migliorarci. In realtà non fa che confermare una convinzione che abbiamo già: non andiamo bene. Se guardiamo a questo aspetto con consapevolezza possiamo renderci conto di quanto sia improduttivo: quale allenatore direbbe continuamente al suo atleta – durante la prestazione – che non va bene? Nessuno, perché a tutti parrebbe evidente l’assurdità del comportamento conseguente. Eppure con noi stessi facciamo proprio così: confondiamo il bisogno di consolarci con la critica. Confondiamo il desiderio di crescere con la storia del miglioramento ad oltranza.

  • L’altra faccia della medaglia: il biasimo

L’altra faccia del comportamento di critica interiore è il biasimo rivolto, questa volta, all’esterno. Apparentemente la nostra ostilità non è rivolta verso di noi ma in realtà ci mette nella condizione di temere tantissimo il nostro personale fallimento e di temere ancora di più il giudizio altrui. Se stiamo attenti le persone che sono sempre pronte a criticare il prossimo sono, molto spesso, persone insoddisfatte dei propri risultati, persone che scelgono di non rischiare e, quindi, di non crescere.

I discorsi di laurea

Negli Stati uniti, alla cerimonia di laurea vengono chiamati famosi oratori per celebrare questo momento di transizione. Alcuni di questi discorsi sono diventati famosi perché pieni di saggezza e intuizione. In effetti io credo che ogni giorno dovremmo svegliarci con un discorso di laurea rivolto a noi stessi. Guardare l’agenda del giorno e rivolgersi delle parole calde e ispiranti per la transizione tra le mura domestiche e il mondo esterno.Se non ogni giorno almeno all’inizio di ogni anno o di ogni attività importante. Prendo due citazioni, per concludere in bellezza.

[box] In questo meraviglioso giorno in cui siamo riuniti per celebrare il vostro successo accademico, ho deciso di parlarvi dei vantaggi del fallimento. Ed esaltare, proprio mentre siete sulla soglia di ciò che viene chiamato “vita reale”, l’importanza fondamentale dell’immaginazione. I miei genitori, entrambi di umili origini e senza istruzione universitaria, hanno sempre pensato che la mia prolifica immaginazione fosse una specie di divertente capacità personale che non avrebbe mai pagato un mutuo, né assicurato una pensione. Capisco quanto questo possa apparire ironico adesso (…) Non biasimo i miei genitori per il loro punto di vista. C’è una data di scadenza per accusare i tuoi genitori per averti guidato in una direzione sbagliata (…) Ma quello che io ho temuto di più nella mia vita non è stata la povertà ma il fallimento. Credo di poter dire che, solo sette anni dopo la mia laurea, avevo fallito in modo esponenziale. Un matrimonio eccezionalmente breve finito, senza lavoro, genitore single e povero come è possibile esserlo in Gran Bretagna senza arrivare ad essere senza fissa dimora. I timori che i miei genitori avevano avuto per me – la loro stessa povertà – e che io avevo avuto per me, si erano realizzati: sono stato il più grande fallimento possibile. Allora perché parlo dei benefici del fallimento? Semplicemente perché il fallimento è stato un incredibile punto di partenza. Ho smesso di fingere di essere quello che non ero e ho iniziato a dirigere tutta la mia energia per finire l’unico lavoro che mi interessasse. (…) Mi sono sentita libera, perché il mio più grande timore si era stato realizzato e io ero ancora viva, con una figlia adorata, una vecchia macchina da scrivere e una grande idea. E così il fondo che ho toccato è diventata la solida base su cui ho ricostruito la mia vita. (Harvard, 2008) J.K. Rowling autrice della saga di Harry Potter[/box]

Se tutti conoscono l’autrice di Harry Potter, forse non tutti conoscono Jennifer Lee, regista di cartoni animati, il più famoso dei quali è Frozen. Il suo discorso di laurea, del 2014 riprende in parte i temi di quello precedente e poi parla dei dubbi su se stessi. Ecco cosa dice:

[box] … è solo quando sei libero dai dubbi su di te, che inizi a fallire davvero, perché non ti difendi e quindi puoi anche accettare le critiche degli altri. Non sei così tanto preoccupato del fallimento da dimenticare di imparare dal fallimento, da dimenticare come crescere. Quando credi in te stesso, riesci meglio. Le ore trascorse in discussioni, dubbi, paure, possono essere passate a lavorare, esplorare, vivere.(…) e se c’è una cosa che ho imparato è che il dubbio nei propri confronti, il dubbio sulla propria adeguatezza, è una delle forze più distruttive. Ti mette sulle difensive invece che renderti aperto, diventi reattivo invece di attivo. È crudele e la mia speranza è che possiamo iniziare tutti a eliminarlo.(2014) Jennifer Lee[/box]

Lasciamo che questi discorsi di laurea ci aiutino a percorrere il nostro tempo con più accettazione e meno senso di inadeguatezza. Facciamoceli ogni mattina. Ricordiamoci ogni mattina che essere noi stessi, così come siamo, è il miglior punto di partenza per qualsiasi cambiamento e che criticare ciò che ci ha fatto diventare così significa negare la nostra unica qualità. Chi saremmo, senza ciò che abbiamo vissuto? Io ho provato a farlo e, inaspettatamente, ho scoperto la gioia anche nelle giornate più buie!

Per amare chi sei non puoi odiare le esperienze che ti hanno fatto diventare come sei.

© Nicoletta Cinotti 2022 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

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Ancora due parole sulla salute e sulla malattia

10/10/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando ci ammaliamo, molto spesso, sorge un senso di sottile inadeguatezza. Come se la salute fosse lo standard e la malattia una deviazione dalla norma.

Questo succede per il disagio fisco quanto per il disagio emotivo. Anzi, forse il disagio emotivo, ha suscitato, negli anni, moltissima vergogna. Alimentando l’idea che avere ansia, tristezza, agitazione sia un segno di inaffidabilità personale e professionale. Molto spesso, ormai iniziamo a saperlo, il disagio – fisico od emotivo – è un punto di presenza importante, significativo. Offre un segnale forte che spinge a vedere le cose sotto una diversa prospettiva. Forse attraverso la lente di ciò che è davvero importante. Ci permette di mettere a fuoco le nostre vere priorità. E, soprattutto, spinge ad accorgersi che non siamo invulnerabili.

La migliore definizione di salute, in tutti questi anni, l’ho sentita attribuire a Wilhelm Reich, il padre della psicoterapia corporea. Reich affermava che la salute non è l’assenza di malattia: è normale ammalarsi. Sappiamo che prima o poi accadrà perché fa parte del nostro essere umani. La salute è piuttosto indicata da quanto tempo ci mettiamo a guarire. Perché questo è una indicazione della nostra vitalità. Adotterei questa definizione anche per la salute emotiva: non è l’ansia o la depressione un segno di scarsa salute emotiva. Possono accadere cose per cui è normale provare queste emozioni, questi sentimenti. È quanto tempo rimaniamo in una condizione di disagio emotivo che fa la differenza. Se la nostra difficoltà si trasforma in una stagnazione: questo fa la differenza.

E, credo, se considereremo normale “ammalarci” nel corpo e nella mente, e se considereremo salute e malattia come due vicende delle alterne sorti della nostra vita, sarà molto più facile uscirne. Perché non ci sentiremo in colpa di non essere perfetti. Ci sentiremo fieri di essere umani.

Perché ad ammalarsi non è solo la nostra anima ma anche le nostre idee, che quando sono sbagliate intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. Paul Watzlawick

Pratica di mindfulness: Self compassion breathing

© Nicoletta Cinotti 2022 !0 Ottobre Giornata mondiale per la salute mentale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Modi opposti di regolare l’ansia

31/03/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

L’ansia è l’emozione dell’inizio. Anzi direi dell’anticipo. Serve ad attivarci per poter avere le energie di svegliarsi, iniziare, prepararsi. Fondamentale quindi, eppure, fastidiosa. Allora utilizziamo delle strategie per gestire la nostra ansia, strategie di comportamento. Sono modalità che, in alcuni casi, possono diventare disfunzionali, perché troppo compulsive.

Cosa vuol dire compulsive? Vuol dire che non possiamo scegliere se farle o meno: siamo costretti a farle. Anzi le facciamo prima ancora di aver deciso se agire in quel modo. Le due modalità – opposte – possono essere “troppo vicino” o “troppo lontano”.

Se scegliamo la modalità “troppo vicino” facciamo troppe azioni, ci lasciamo coinvolgere troppo, diventiamo troppo interventisti e troppo presto. Se, invece entriamo in modalità “troppo lontano”, rimandiamo, procrastiniamo, la prendiamo lunga, molto lunga, per evitare di affrontare qualcosa che ci fa paura.

Il bello è quando troppo vicino e troppo lontano vengono vissute in coppia. Magari lei è della serie “troppo vicino” e lui della serie “troppo lontano”. Il risultato è molto complicato perché in entrambe le situazioni c’è un troppo che non permette di mettere a fuoco quello che è davvero necessario.

Riconoscere il nostro stile ci aiuta. Possiamo prendere un respiro, fermarsi e – nella pausa – cercare la distanza che è necessaria. Che non è quella giusta. È quella in cui siamo in relazione. Quella in cui non soffochiamo nessuno con la nostra ansia, non allontaniamo nessuno per non essere in ansia. Quella distanza in cui possiamo scambiarci uno sguardo e, ascoltare. E scegliere se agire.

“Cara, cosa hai fatto? bastava che chiedessi”. “Caro, ho fatto tutto io, ecco cosa ho fatto! “(da una conversazione realmente ascoltata)

Pratica di mindfulness: Protendersi

© Nicoletta Cinotti 2022 Il protocollo MBSR

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Foto di ©J.A Imagen

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