
La prima è una modalità di biasimo: “non mi merito questo”; la seconda è che iniziamo a dividere lo spazio tra noi e l’altro, a costruire muri e definire confini.
Possiamo riassumere questa sensazione con la frase implicita, “guarda cosa mi stai facendo”; la terza è che iniziamo a proiettare sull’altro una delle nostre storie passate: la frase “è tutta colpa tua” sintetizza bene questa sensazione; infine, iniziamo uno schema di vendetta, “se pensi di passarla liscia, ti sbagli”. La vendetta però ha una conseguenza immediata che è una parziale soddisfazione – e una conseguenza a lungo termine, una depressione più o meno profonda.
La radice della vendetta
La radice della vendetta sta nel dolore che cerchiamo di eliminare dalla nostra vita e dalle nostre relazioni. Non è possibile farlo ma ci proviamo con insistenza. Non sempre attiviamo una vendetta: lo facciamo quando ci sentiamo minacciati dal quel dolore. Allora chiudiamo il cuore – riduciamo le emozioni affettive – e aumentiamo le emozioni difensive. La persona che ci ha ferito diventa un oggetto, come se fosse un quadro, un vaso rotto, incapace di provare emozioni. Se ne vedessimo troppo la sua umanità non riusiremmo a vendicarci. Vediamo solo il nostro dolore e la nostra ira. L’ira è qualcosa in più della rabbia: è rabbia con l’aggiunta di un contenuto egocentrico.
I passi della vendetta
Il biasimo
Il biasimo ha la funzione di coprire il dolore che abbiamo appena provato. È avvenuto qualcosa che ci ha ferito che accogliere il nostro dolore con la compassione e la cura che merita proviamo paura e spostiamo la nostra attenzione verso la difesa. Ci diciamo che non meritiamo quello che sta succedendo e smettiamo di ascoltare e di ascoltarci. Perdiamo il contatto con i sentimenti di tenerezza e affetto nei confronti di noi stessi e dell’altra persona.
Possiamo biasimare gli altri quanto vogliamo, ma il problema rimane: non ci permettiamo di conoscere la vera dimensione della difficoltà. A volte, in queste situazioni, iniziamo una comunicazione triangolare, ossia parliamo con una terza persona di ciò che è accaduto cercando di convincerla dell’ingiustizia che abbiamo subito e costruendo una configurazione che complica ulteriormente la situazione.
Mettere i confini
Il passaggio successivo rispetto al biasimo è quello di dividere lo spazio tra noi e chi ci ha fatto soffrire. Iniziamo a definire le nostre qualità in contrapposizione alle sue e passiamo a delle generalizzazioni contraddistinte dalle parole “mai” oppure “sempre”. Questa è la fase in cui iniziamo a perdere il contatto con i sentimenti di tenerezza e affetto: l’altra persona diventa solo un soggetto che ci ha tagliato, ferito, contuso. Iniziamo a costruire una barriera che interrompe il senso di connessione relazionale. A volte, la reazione è così forte che possiamo tagliare i collegamenti anche con chi è vicino alla persona che ci ha ferito
La proiezione
La perdita di sentimenti teneri nei confronti di noi stessi e dell’altro a causa di una ferita ci porta direttamente alle nostre passate esperienze personali di rifiuto. Per quanto la nostra vita possa essere stata buona, è difficile non aver mai incontrato un’esperienza di rifiuto. La difficoltà riaccende quel doloroso serbatoio della nostra storia personale e mette in scena uno dei film a disposizione. A questo punto, non è più molto rilevante cosa sia accaduto davvero perché il passato prende tutto lo spazio del presente.
La vendetta
Se la proiezione è legata alle esperienze passate, la vendetta ci porta dritti nel futuro ipotetico. Realizza un sogno: far soffrire l’altro come ha fatto soffrire noi.
Per molte ragioni, siamo abituati a iper-reagire ai fallimenti considerandoli inaccettabili, imperdonabili e fondamentalmente negativi. Portare compassione ai nostri copioni interiori relativi a successo e fallimento ci permette di accedere a una strada di perdono che passa dall’accettare prima i nostri limiti e i nostri stessi errori e poi quelli altrui.
Una citazione
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui dentro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità.
Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione, a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!… DOTTOR S.
La coscienza di Zeno, di Italo Svevo
L’inconveniente di essere nati
La vendetta è un bisogno, il più intenso e profondo che esista, e ognuno deve soddisfarlo, non fosse che a parole. Se lo soffochiamo, ci esponiamo a turbe gravi. Più di uno squilibrio – forse addirittura tutti gli squilibri – scaturisce da una vendetta che abbiamo troppo a lungo differito. Osiamo esplodere! Qualunque malessere è più sano di quello provocato da una rabbia accumulata. […] Ci fu un tempo in cui, ogni volta che subivo un affronto, per allontanare da me ogni velleità di vendetta immaginavo me stesso nella pace della tomba. E subito mi acquietavo. Non disprezziamo troppo il nostro cadavere: qualche volta può servire.
Emil Cioran
La relazione tra vendetta e depressione
Le conseguenze della vendetta
Se è vero che ripetute vendette possono sembrare offrirci uno scudo protettivo, in realtà quello che producono è un impoverimento del Sé che viene progressivamente privato del rischio e del conforot della relazione. Al fine di proteggerci finiamo per non aprirci alla relazione sperimentando quindi un senso progressivo di delusione e depressione. siamo chiusi in un circolo vizioso: avremmo bisogno di aprirci ma abbiamo paura di farlo per proteggerci dal dolore della delusione, espresso così bene nella citazione precedente da Emil Cioran, che, come sappiamo, non era prorprio persona che abbondasse in buon umore. Anche Oriana Fallaci descrive la condizione della delusione. Eccola!
Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione. Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato.
La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono. Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliegie

Pratiche di conforto: alternative salutari alla vendetta
01
Self-compassion breathing
02
Lasciar andare il dolore del passato
03
Manas, cercare il piacere, evitare il dolore
I prossimi corsi
4
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Emozioni selvatiche: un programma per elefanti coraggiosi
12
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Il protocollo MBSR
Mindfulness per la riduzione dello stress
13
Ottobre
Il protocollo MBCT
Mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive