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Protocollo MBCT

La capacità di scegliere

08/06/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Molte volte ci sembra che, prima di iniziare qualcosa di nuovo, sia essenziale capire di cosa si tratta.

Così, seguendo le nostre abitudini mentali, cerchiamo di inquadrare una esperienza nuova in una delle categorie già usate in passato. Facciamo domande, cerchiamo di farci un’idea, vogliamo avere chiaro il significato di quello che andremo a fare. E raramente ci accorgiamo del paradosso che sta avvenendo. Quello di decidere come sarà un’esperienza prima di averla fatta.

In questo modo rimaniamo ancorati alle nostre idee e non permettiamo nessuna variazione; permettiamo solo un proliferare di domande che alimenta lo stato mentale del dubbio, piuttosto che la capacità di scegliere. La convinzione che capire le cose prima di farle sia necessario per decidere nasce dalla supremazia che diamo alla mente sul corpo.

Non  ci sembra possibile fidarsi della nostra intuizione, fidarsi della nostra sensazione fisica e nemmeno dell’intuizione, perchè nutriamo una quota di sfiducia nei nostri confronti. Come se avessimo un nemico in casa. E il paradosso è che non ci rendiamo conto che così facendo si realizza proprio quello che temiamo: scegliere sulla base di un pregiudizio, quello che nasce quando non ci permettiamo di uscire dalla nostra consueta zona di comfort. Quello che nasce quando ci fidiamo della mente e sfiduciamo l’esperienza e il corpo.

La capacità di creare si basa sulla capacità di scegliere. Virginia Satir

Pratica di mindfulness: Intenzione e accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023

Mindful Self-Compassion: intensivo residenziale

 

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Rimanere delusi

04/06/2023 by nicoletta cinotti

Tendo alla delusione, come direbbe Jack Kornifield, psicoterapeuta e insegnante di dhamma americano. Nella psicologia buddista ci sono tre tipologie di carattere: chi vede subito il bello, chi vede subito il brutto e quelli che, come me, rimangono delusi.
La delusione è la tendenza dei sognatori. Quelli che, per andare avanti, sognano qualcosa di bello e che, quando scoprono che non è possibile, scendono dalle stelle alle stalle molto velocemente. Non ci sono tante cure se non il sereno disincanto: sapere che le cose non sono mai come sembrano e nemmeno come vorremmo. Perché la realtà vince sempre.

La realtà vince sempre

Impariamo a sperare da bambini. La speranza è fatta di compleanni, natali, feste, esami, voti. Speriamo che il compito sia andato bene e che arrivi il regalo che desideriamo. Speriamo che ci siano le patatine fritte e il gelato. Speriamo che i nostri genitori non si arrabbino. È così che impariamo a sperare. E il sentimento della speranza è un terreno friabile su cui appoggiarsi. Molte volte confina con lo sperare nel miracolo: speriamo proprio quando sappiamo che non è possibile. Devo alla mia tendenza all’illusione (che è il secondo passo dopo la speranza) molte scivolate d’umore ma anche la determinazione con cui ho fatto della consapevolezza e del radicamento nella realtà, la mia arma principale di cura.

La realtà è la cura

La strada della consapevolezza è un’ottima cura per la tendenza a rimanere delusi. Anziché nasconderti nella speranza e illuderti che le cose siano diverse da come sono, ti offre la possibilità di guardarle proprio in faccia. Di tenerle davanti a te con semplice evidenza. La consapevolezza è, in questo senso, una ladra d’illusioni che protegge dal dolore dell’ignoranza intesa come non conoscenza della realtà.

All’inizio può sembrare che il mondo diventi piatto come una pianura nebbiosa. Dopo scopri che le oscillazioni dell’umore bruciano talmente tante energie che è meglio che le cose siano apparentemente piatte che sempre con alti e bassi.

Gli sbalzi d’umore

Molte persone soffrono di sbalzi d’umore. A volte così gravi da passare dalla maniacalità alla depressione. Sono arrivata alla conclusione che, oltre ai fattori clinici riconosciuti ed ereditari, ci sia anche lo zampino dell’illusione e della delusione. L’umore si alza quando c’è un sogno che gonfia le vele e si abbassa quando passa il vento e la realtà ha preso di nuovo il soprav-vento. Cercano la cura nella fase depressiva ma, invece, sarebbe da curare la fase maniacale che è annuncio di delusione e perdita di felicità. È stato Alexander Lowen, il padre della bioenergetica, a dire che non c’è solo la depressione reattiva ad un lutto o ad una perdita. C’è anche la delusione di chi si illude e poi scopre che la realtà era diversa. È quelle depressioni sono molto, molto più frequenti e pervasive.

Orali e narcisisti

Sono i caratteri orali e quelli narcisisti che rimangono più spesso delusi ma con una differenza sostanziale in quello che fanno dopo la delusione. Gli orali rimangono aggrappati al sogno e lottano all’infinito prima di lasciarlo andare. I narcisisti rompono relazioni, fanno ghosting, tolgono il saluto e non ti parlano mai più perchè il reato è grave: lesa maestà. In ogni caso non c’è storia d’amore finita male che non abbia anche la sua quota di delusione. perchè quando ti innamori vedi tutte le potenzialità e poi una parte di queste potenzialità muoiono, abortite per tante ragioni diverse. Non ho ancora incontrato qualcuno con un amore finito che non sia rimasto anche deluso da quella storia. In fondo se non fossimo sognatori non proveremmo nemmeno ad innamorarci.

Il danno che produce una delusione amorosa è molto grande perché indebolisce il senso di legame e connessione con gli altri.

La noia

L’interruttore della delusione non è solo la speranza ma è anche la vulnerabilità alla noia. La noia infatti nasconde la delusione per una vita che vorremmo sempre con i fuochi artificiali e, a volte, è solo una timida fiammella.

L’interruttore della noia non è fuori di noi: è la nostra credenza in un mondo giusto, in persone solo buone e belle, in attività solo eccitanti e gratificanti. Quell’interruttore possiamo riconoscerlo e spegnerlo solo noi. Quell’interruttore ha un nome la cui dimensione non è né piccola né grande; né buona né cattiva; né giusto né ingiusto. Si chiama realtà.

La vitale energia che sta nel fidarsi di ciò che emerge, può sollevarci dal nostro torpore, rivelare la contingenza di tutte le cose e forse può far svanire la noia con la spada della saggia incertezza. Gregory Kramer

La saggia incertezza

Alla fine il vero problema è solidificare in un oggetto che consideriamo reale quello che è solo un pensiero di speranza. Lo facciamo perchè vogliamo evitare di stare nell’incertezza. Vogliamo evitare di sentirci fragili e vulnerabili. Vogliamo evitare di sentirci umani, preferiremmo di gran lunga essere divini. Alla fine la delusione, il mio tallone d’achille, mi ha reso quella che sono: curiosa, determinata, appassionata. Mi fossi fatta meno male con la mia tendenza alla delusione non avrei avuto questo spirito di ricerca. Perché il vero punto per me è non trasformare la delusione in una ragione d’abbandono. da buona orale non mollo facilmente la presa!

© Nicoletta cinotti 2023. Il protocollo MBCT

Il Protocollo MBCT: Protocollo per la prevenzione delle ricadute depressive

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Pensieri nella sala d’attesa del cuore

30/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Capita spesso di sentire, dentro di noi, un proliferare di pensieri: la mente divisa tra mille attività da programmare, le preoccupazioni per il futuro, le rimuginazioni sul passato. Attraversano la nostra mente e ci assorbono, ritirando il nostro contatto con la realtà e con il presente. Possiamo credere che siano pensieri ma in realtà sono emozioni che non riescono ad entrare nel cuore.

Bussano alla porta ma, siccome temiamo di sentirle, salgono veloci alla mente e si trasformano in pensieri. Ogni tanto provano a scendere di nuovo nel cuore ma vengono respinte dalla nostra decisione di essere razionali. Di tenere sotto controllo la vita. Poi, man mano che corrono nella nostra mente, questi pensieri, suscitano anche delle emozioni, un po’ generiche: ansia, preoccupazione, inquietudine. Ma siamo tanto presi dal correre dei pensieri che nemmeno in questo caso ci fermiamo per aprire la porta del cuore.

Avere la testa invasa dai pensieri non è pensare. È avere una emozione che non riusciamo a sentire e che dà il via alla proliferazione mentale. I pensieri senza emozioni nascoste si riconoscono subito: arrivano, sono aderenti alla situazione specifica e se ne vanno. Leggeri come nuvole bianche in un cielo d’estate. Quando le nuvole diventano pesanti, oscure, indugiano a lungo non sono pensieri: sono emozioni travestite da pensieri che aspettano nella sala d’attesa del cuore: la mente.

Allora, alla fine – come medici indaffarati – dobbiamo decidere di fermarci e farli entrare. Visitarli non è difficile. Richiedono di essere riconosciuti. Prima di riconoscere la famiglia a cui appartengono – pensieri sul passato, sul futuro, dialoghi, pensieri sul corpo o pensieri di fuga – poi di riconoscere l’emozione che contengono e li produce. Poi di fermarsi ad osservare la situazione alla quale sono collegati, rimanendo ancorati al corpo e al respiro. E infine, salutarli e ringraziarci perchè ci siamo permessi di ascoltare, con pazienza, anziché essere assorbiti. Non c’è nulla da fare con i pensieri: solo dipanarli per non farsi assorbire, con gentilezza e precisione. La precisione dell’amore.

Quando il respiro è affannoso, il pensiero è guidato dalla paura e dall’ansia. I tuoi stati mentali affondano le loro radici nel passato o nel futuro. Sei concentrato su ciò che fanno altre persone, su come puoi compiacerle o su come proteggerti dalle loro azioni. Praticamente stai innalzando una fortezza di pensieri attorno al tuo cuore. Respira profondamente e riportati nel tuo cuore. Paul Ferrini

Pratica di mindfulness: Inclinare la mente al cuore

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT

 

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Piccoli consigli per dormire

16/04/2023 by nicoletta cinotti

Una delle domande che mi vengono fatte più frequentemente è, “Quanto dormi?”. È vero: io dormo poco ma dormire poco non è uguale a soffrire d’insonnia. Dormo poco per abitudine appresa in quarant’anni di ritiri di meditazione – dove alzarsi presto è la regola – dormo poco perché nella mia famiglia d’origine dormire fino alle 8 di mattina era quasi uno scandalo. Dormo poco perchè ho sempre voglia di allungare le mie giornate, in una forma di avidità di vita. Per l’insonnia però ci sono piccoli consigli utili, perché l’insonnia, invece è brutta e spesso è legata ad emozioni non elaborate che ci svegliano. Per me l’insonnia è attivata dal senso di colpa.

Dormire non sempre è una cosa semplice, come ci ricorda Luisa Merati, così avere qualche piccolo consiglio, può aiutare.

  1. Ogni notte è una notte nuova: non andare a letto pensando che sarà un tormento come la notte precedente. Non serve se non a farti andare a letto già agitato.
  2. Il sonno è un processo che non può essere forzato, per cui sforzarsi di dormire di più può essere controproducente.
  3. Lascia perdere il sonno ideale: di fatto è una preoccupazione inutile che può essere una interferenza con il lasciar andare che induce il sonno.
  4. Non giudicare: è facile considerare negativamente l’essere svegli e positivamente il dormire perché questo può nutrire il processo di avversione che è responsabile dell’insonnia.
  5. Riconoscere e accettare la tua insonnia può essere più importante del combatterla. Se non riesci a dormire considera l’ipotesi che sia meglio alzarsi che passare lunghi periodi di tempo svegli a letto.
  6. Abbi fiducia nella capacità del tuo corpo di autoregolare il ritmo sonno/veglia e cerca di non interferire con troppi stimolanti o calmanti. Considera che il tè, oltre che il caffè, può indurre insonnia e che l’alcool è responsabile di molti disturbi del sonno.
  7. Sii paziente con la qualità e quantità del tuo sonno. Ricordati che l’intolleranza aiuta l’insonnia!

 

© Nicoletta Cinotti 2023

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Perché la depressione fa così male?

31/03/2023 by nicoletta cinotti 1 commento

La depressione è uno dei disturbi più comuni e potenzialmente gravi, dei nostri giorni. Ci sono tanti motivi per occuparci di questo problema: è un disturbo che tende a cronicizzarsi e a recidivare e limita fortemente la qualità della vita. Inoltre molto spesso si presenta come un comportamento rabbioso e collerico e quindi di difficile diagnosi. Gli articoli in cui parlo della rabbia sono una introduzione all’approfondimento sulla depressione. In alcuni casi la depressione può manifestarsi come comportamento rabbioso e impulsivo, in altre sembra che la persona non sia più in grado di avere nemmeno la risposta fisiologica di auto-assertività che sarebbe necessaria.

Depressione e emozioni di base

In Emozione e ragione ho parlato di sette emozioni primarie che corrispondono ad emozioni di base che strutturano la nostra personalità e la nostra modalità abituale di risposta alle sfide della vita.
Sebbene possano essere molte le situazioni emotive che scatenano una risposta depressiva (un lutto o un fallimento personale o professionale, per fare solo un esempio), sappiamo anche che, a livello di queste emozioni di base, la depressione è sostenuta da una iperattività della risposta di panico del sistema di separazione, seguita da una fase di disperazione che comporta una inattività del sistema di ricerca.(Solms & Panksepp 2011).
Questo impasse tra il panico da separazione e la stasi della ricerca di situazioni nuove spiegherebbe come mai molte perdite sociali sono precursori di risposte depressive.

 

Lo stress da separazione

Lo stress da separazione può produrre delle forme di “protesta” – che spiegano i comportamenti rabbiosi presenti in alcune forme depressive – e influenza la formazione dei legami tra bambini e caregiver ma anche la crescita di un senso di socialità più allargato come l’amicizia, e la socialità. Il fatto che la separazione faccia emergere una paura ci porta a rimanere all’interno delle relazioni di cura. Ovviamente se la ricerca di relazioni di cura non riesce – come accade talvolta – è possibile che si strutturi una paralisi tra “paura della solitudine” e “Paura delle relazioni” che diventa prodromico di risposte depressive. La transizione in questo caso tra protesta, tristezza, lutto diventa la strada verso la depressione. In una visione riparativa invece la protesta permette al nostro caregiver di modulare l’intensità del legame. Se questa modulazione non riesce corriamo il rischio di entrare in una rottura relazionale e in un ritiro riparativo che, stabilizzato, può condurre alla depressione.

Quando la protesta fallisce

La protesta è un comportamento su base biologica che esprime quella “rabbia fisiologica” di cui ci parla la bioenergetica. E’ un segnale che dovrebbe attivare l’attenzione del caregiver (madre o psicoterapeuta) e i comportamenti di ricerca. Lo scopo è quello di diminuire la separazione ma purtroppo spesso ottiene proprio l’effetto contrario. Se il nostro caregiver non regge la frustrazione narcisistica che è connessa ad essere oggetto di protesta, interrompe o punisce il “piccolo ribelle” in modo diretto o indiretto, con una riduzione del legame.

Il problema è che questi comportamenti di protesta – attivi o passivi – vengono portati avanti anche da adulti, nei confronti di amici, parenti e partner. L’effetto raramente è quello sperato e non si hanno maggiori attenzioni ma un progressivo disinvestimento relazionale che conferma il sistema di iperattivazione panica e paralisi della ricerca, innescando un pericoloso circolo vizioso.

La consapevolezza può essere la strada

La ragione principale per cui l’aumento della consapevolezza ha effetti positivi sulla depressione è che rende la persona più attenta alle proprie modalità abituali di risposta e sposta la sua attenzione dalla stasi alle possibilità di movimento, psichico e fisico. Sappiamo, a questo proposito che l’attività fisica è un importante regolatore dei livelli di serotonina e un modulatore della percezione del dolore. Ma oltre che per queste ragioni l’attività fisica nei soggetti depressi è importante per riattivare delle risposte positive di ricerca portate avanti in prima persona.

La depressione quindi fa così male…

…perchè si accompagna ad una diminuzione dei sentimenti di sicurezza interiore dovuti sia alla sensazione di stress da separazione sia perché ci convince a lasciar perdere i nostri tentativi di ricerca di buone relazioni sociali portandoci così ad essere distaccati dal mondo.Quest’ultima sensazione viene sostenuta da una diminuzione delle nostre attività di ricerca di contatto. Il fatto che questi sentimenti- di separazione e di demotivazione al contatto – siano facilmente provocati e difficilmente cancellati aumenta la vulnerabilità depressiva e i comportamenti maladattativi.

© Nicoletta Cinotti
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La depressione perfezionistica e il protocollo MBCT

31/03/2023 by nicoletta cinotti

Sono psicoterapeuta da molto tempo, e detto così potrebbe non sembrare una notizia entusiasmante. In realtà credo di aver vissuto un tempo molto fertile nella mia professione: gli ultimi trent’anni sono stati davvero ricchi di novità cliniche, di nuove modalità di approccio e di nuove patologie!

Nel tempo infatti non è cambiato solo il mio modo di lavorare ma sono cambiate tantissimo le richieste che i pazienti portano in studio e le modalità di relazione. Il primo grande cambiamento è l’aumento di disagi esistenziali collegati alla sensazione di non realizzazione, professionale o affettiva. L’idea che la nostra vita sia una semplice vita – un’idea che forse poteva essere ritenuta una fortuna anche solo 50 anni fa – può gettare nella più cupa disperazione. Le depressioni primarie diminuiscono, la depressione perfezionistica cresce in modo esponenziale ed è, molto spesso, proprio strettamente connessa con il nostro desiderio di realizzazione

Cos’è la depressione perfezionistica

Forse sarebbe meglio partire da che cos’è la depressione. In forma abbreviata potremmo dire che è un insieme di disagi fisici ed emotivi connessi ad una esperienza di mancanza, di perdita, che, con il tempo si cronicizza e tende a ripetersi in forma acuta periodicamente. La depressione primaria è una esperienza di perdita più o meno grave che lascia una propensione a cogliere la perdita come evento traumatico e che si riattiva in situazioni in cui si sperimenta una nuova perdita.

Anche la depressione perfezionistica si costruisce attorno ad un senso di mancanza, solo che è la mancanza di ciò che non si è realizzato. Non è qualcosa che si è perso. È il dolore per qualcosa che non si è mai avuto. Com’è possibile soffrire per qualcosa che non abbiamo avuto? Sembra strano ma non è così strano, basti pensare al dolore per non essere riusciti ad avere figli. Al dolore per non aver completato un progetto importante. Al dolore per non aver raggiunto un obiettivo significativo. Il problema è che, queste “mancanze” allargano la loro sfera di significato al Sè. Non soffriamo più perchè qualcosa non si è realizzato: il fatto che non si sia realizzato sembra diventare una sorta di conferma della nostra inadeguatezza. Si innesca così un circolo vizioso in cui ci sforziamo di raggiungere l’obiettivo, ci esauriamo nel tentativo di farlo, ci critichiamo per provare ancora a ripetere l’esperienza e, non riuscendoci, rinforziamo l’attacco contro di noi. Credo che la descrizione renda abbastanza l’idea di come può sentirsi una persona in questa situazione (francamente credo che quasi tutti abbiano sperimentato questa situazione). Più difficile capire come uscirne.

Il trattamento farmacologico

Il trattamento farmacologico è un’ottima strada nel trattamento delle depressioni primarie, soprattutto di quelle recidivanti. Ci sono molte molecole, di solito ben tollerate, e non siamo più costretti alla dipendenza fisica da benzodiazepine. Nella depressione perfezionistica però funzionano meno o non funzionano affatto. Perché? Perché, molto spesso, la persona non ha carenza di serotonina ma carenza di self compassion. E, per quella carenza, non ci sono molecole che funzionino: serve un’attenzione affettuosa verso se stessi.

Il trucco dei pensieri

Tutti i disagi emotivi – che siano o meno di natura depressiva – sono mantenuti da schemi disfunzionali di risposta sostenuti dai nostri pensieri. L’idea che i pensieri giochino un ruolo importante nel protrarsi del disturbo emotivo è relativamente recente e si deve, non credo di sbagliare, a Aron Beck e a quella che viene definita la terza onda della teoria cognitivista. Lasciamo perdere però le definizioni – anche se terza onda è piuttosto suggestivo – e vediamo in che cosa consiste. Noi (psicoterapeuti) siamo stati educati a lavorare sui contenuti. C’è chi ha imparato a farlo in maniera simbolica, interpretativa, chi l’ha fatto in maniera esperenziale. Questa convinzione che il contenuto sia il nucleo della faccenda su cui è necessario lavorare passa attraverso una sopravvalutazione dei processi di pensiero. Comprendo qualcosa? Bene, allora basta questo per cambiare! In realtà non funziona. Non funziona proprio. Spesso comprendiamo benissimo tutto e continuiamo a fare esattamente la stessa cosa. E qui arriva la rivoluzione mindfulness. In particolare la rivoluzione MBCT.

Smettiamo di guardare al contenuto e cambiamo relazione con i pensieri

Di che rivoluzione si tratta? Semplice: anziché guardare al contenuto di quello che pensiamo cambiamo relazione con i pensieri. Non cerchiamo di cambiare il contenuto, non cerchiamo di scacciarli. Cerchiamo solo di prendere contatto con una verità semplice ed essenziale: i pensieri non sono fatti. Sono eventi mentali. La mente è fatta per produrre pensieri così come i polmoni permettono di respirare, l’apparato digerente di nutrirci ed evacuare. E, anche la mente, così come i polmoni e i reni e l’intestino, lascia andare prodotti di scarto sotto forma di pensieri. No, scherzavo. Detta così è troppo forte ma il senso è che noi prendiamo per veri, per buoni, i nostri pensieri e sottovalutiamo il fatto che, molto spesso, sono condizionati dal nostro umore e dal nostro stato di salute fisico.

A questo punto interviene la domanda: come cambio la relazione con i pensieri?

Passi di cambiamento

La base dalla quale partiamo è sempre l’esperienza mindfulness, per dare radicamento al corpo, alla percezione e aprire lo schema d’esperienza. Forse sarà capitato anche a te di accorgerti che, quando pensiamo, finiamo per rimanere assorbiti e ridurre la qualità della sensazione fisica, della percezione sensoriale. La mindfulness ci aiuta ad invertire questa tendenza e a tornare presenti – non solo con la mente ma anche con il corpo.

Questo è il primo passo: necessario ma non sufficiente.

Gli altri due passi sono: non identificarsi e distanziarsi e, infine, consolarsi

Tendiamo a dare valore di verità a ciò che pensiamo e, invece, è solo un pensiero, spesso determinato dall’umore. Nei protocolli MBCT impariamo modi specifici per guardare diversamente ai nostri pensieri, per considerarli eventi mentali, ipotesi sulla realtà e non la realtà stessa. Ci sono pratiche di consapevolezza, meditazioni ed esercizi che ci aiutano a farlo e a continuare a farlo, attraverso un autonomo lavoro a casa.

Se guardiamo ai nostri pensieri come ad eventi mentali, possiamo vedere il panorama complessivo, la sua apertura, l’intrecciarsi di aspetti emotivi e fisici in ciò che pensiamo. Ma non è solo questo il lavoro che facciamo: ci ricordiamo di consolarci.

Ci siamo dimenticati la consolazione

La nostra fiducia nella “razionalità” e nei processi di pensiero non sempre ci è stata d’aiuto: molto spesso ha prodotto uno strano dislivello tra la nostra intelligenza, la nostra cultura e la nostra felicità. Abbiamo pensato che bastasse capire il perché qualcosa accadeva affinché cambiasse. Abbiamo dato un potere magico ai pensieri e non ci siamo accorti che i nostri pensieri, che tendiamo a considerare razionali – non sono affatto pensieri. Sono, piuttosto emozioni travestite da pensieri. Sono modi cognitivi per dare voce a quello che sentiamo senza provarne la sensazione emotiva. Perché delle emozioni abbiamo paura e dei pensieri no! Pessima posizione visto che le emozioni sono legate alle situazioni contingenti ma con i pensieri possiamo far tornare a galla qualsiasi emozione in qualsiasi momento anche se ormai è passato tanto tempo dall’evento che l’ha scatenata.

Alla fine i pensieri ri-attualizzazno il trauma, non ci consolano e aumentano il nostro senso di inadeguatezza. Infatti un’altra delle caratteristiche della depressione perfezionistica è quella di ritenersi responsabili di ciò che non riusciamo a realizzare, anche se è, evidentemente, una missione impossibile.

Ci siamo dimenticati che qualsiasi dolore – legato a qualcosa accaduto o a qualcosa che non si è realizzato – necessita, come prima cosa, della consolazione. Del conforto che viene da una comprensione emotiva. Possiamo soffrire per ragioni molto irrazionali ma la consolazione può arrivare  in ogni piega. Non la consolazione degli altri – che pure desideriamo – ma la nostra consolazione. Quella che rimandiamo lungamente di darci. Quella di cui abbiamo bisogno per essere felici
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© Nicoletta Cinotti 2023

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