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La verità è semplice, le bugie no

03/12/2023 by nicoletta cinotti

C’è una regola base della psicoterapia che spesso è considerata tanto ovvia e scontata da non essere nemmeno dichiarata: “Dire la verità e censurare il meno possibile”. Non ci sono strumenti per sapere la verità se non l’intento di dirla e di farla conoscere perchè la psicoterapia possa procedere.

In realtà molto spesso portiamo in psicoterapia quello che crediamo raccontabile e lasciamo fuori quello che temiamo ci farebbe “giudicare male” Eppure è proprio quello che avremmo bisogno di dire. perché omettiamo, minimizziamo ed evitiamo il cuore della questione?

Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno. Mark Twain

Costruire un segreto

Tutti noi abbiamo dei segreti: non parlo di cose che non diciamo che a pochi intimi. Parlo proprio di cose che non diciamo e che percepiamo come segreti. Questi segreti rimangono chiusi strettamente dentro di noi. In psicologia sappiamo che spesso questi segreti sono portatori di patologia: soprattutto i segreti familiari. Questa trasformazione di un segreto in patologia avviene per diverse ragioni.

La prima ragione è la vergogna. La vergogna è un’emozione che ci fa sentire non degni ed esclusi dal proprio gruppo di appartenenza: due condizioni che non solo sono ragione di patologia ma che, anticamente, portavano addirittura alla morte. Gli uomini primitivi non riuscivano a sopravvivere fuori dalla loro tribù.

La seconda ragione è la non accettazione: il segreto è una verità considerata inaccettabile e tutto ciò che è inaccettabile deve rimanere segregato, attivando così delle difese per questa segregazione. Costa quindi molte energie emotive: troppe

La limitazione del senso di appartenenza: noi siamo animali sociali. Nasciamo e viviamo in contesti relazionali e l’approvazione o disapprovazione che riceviamo è un elemento importante della nostra autostima. Se crediamo che delle parti di noi non meritino appartenenza, costruiamo una immagine menomata di noi.

Come facciamo a mantenere un segreto?

Per mantenere un segreto abbiamo bisogno di attivare delle difese sia corporee che emotive.

Dal punto di vista corporeo abbiamo bisogno di trattenere. Ogni emozione infatti attiva una risposta muscolare, consapevole o inconsapevole. E per non esprimere quell’emozione dobbiamo attivare una contro risposta muscolare di direzione opposta e di forza almeno uguale. E’ in questa qualità di trattenimento che perdiamo le nostre risorse migliori: la nostra creatività e la nostra motivazione, la nostra vitalità e la nostra spinta curiosa. Con il passare del tempo l’effetto della contrazione diventa cronico e quindi non percepiamo più quella parte del corpo che è connessa al trattenere. Quindi all’inizio trattenersi dal dire richiede uno sforzo consapevole e intenzionale. Nel tempo è come se dimenticassimo. Sono entrate in azione le nostre difese psichiche

Le difese psichiche legate al mantenere il segreto sono principalmente due: l’evitamento e la dissociazione. L’evitamento ci porta a ridurre le esperienze in modo che questa verità non emerga. La dissociazione ci induce a chiudere in un cassetto quello che c’è in modo da non sentire gli effetti. Sono due difese che hanno conseguenze significative nella qualità della salute emotiva.

Essere spontanei

L’effetto più evidente è quello di una perdita della spontaneità e della libertà espressiva: non siamo liberi di muoverci come vorremmo se abbiamo bisogno di tenere nascosto qualcosa. Arrivati a questo punto sarebbe piuttosto facile pensare che questo sia un argomento che non ci riguarda. Sono gli altri che non dicono la verità: noi non abbiamo niente da nascondere. In realtà le cose non funzionano così. Tutti abbiamo qualcosa da nascondere perché la nostra mente giudica continuamente quello che è accettabile e lo separa da quello che considera inaccettabile. Siamo continuamente divisi da una piena presenza che è quella che possiamo definire verità.

Allora cosa fare?

La prima cosa è la più semplice e la più disattesa: mettere l’intenzione di non essere distratti. Non è perché vogliamo diventare dei buddha (c’è chi dice che buddha lo siamo già e che basterebbe non nascondere la nostra vera natura per esserlo) ma perché se non siamo consapevoli di quello che succede quello che rimane non riconosciuto va ad alimentare la nostra riserva di ansia. E l’ansia è una emozione che non vale mai la pena di coltivare.

Per alcuni custodire un segreto è come trattenere il respiro. Roberto Gervaso

Siamo continuamente sul crinale tra segreto e verità

Siamo continuamente sul crinale tra segreto e verità. Tra presenza e distrazione. Non possiamo farci niente ma riconoscerlo è già un modo semplice perché questo si trasformi in presenza e la presenza apra uno spiraglio di verità. A volte nascondiamo la verità perché nascondiamo a noi stessi un evento. I segreti possono metterci in un continuo stato di dubbio e aumentano la proliferazione mentale.

Cosa significa allora dire la verità? Significa sapere che cosa sentiamo e non censurarlo. Non renderlo un elemento escluso dal nostro panorama interno. Significa rimanerci in compagnia fino a che non sapremo dargli un nome e riconoscere il modo in cui si esprime nel corpo.

Poi potremo scegliere se dirlo o non dirlo. Perché spesso le prime persone a cui non diciamo la verità non sono gli altri ma noi stessi. Mi succede spesso di ascoltare storie di tradimenti. E, ad un certo punto, nella maggior parte delle volte, le persone mi dicono che lo sapevano ma non avevano voluto crederci. Ecco questo è l’effetto del dubbio. Non sappiamo più riconoscere la verità perché non sappiamo più se fidarci di quello che sentiamo oppure no.

Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell’anima. Carlos Ruiz Zafón

La verità è semplice, le bugie no

Dire la verità nelle nostre giornate non è una impresa impossibile. È un atto quotidiano che possiamo coltivare con la presenza, la consapevolezza e una attenzione non giudicante alla nostra esperienza. Spesso non sono i grandi segreti quelli che creano inquietudine ma il non saper più conoscere la verità di quello che sentiamo e pensiamo tanto ci siamo abituati a nascondere le cose per paura di guardarle. Guardare la verità non  è pericoloso. Il pericolo è non sapere.

Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale e’ invisibile agli occhi. Antoine de Saint-Exupéry

© Nicoletta Cinotti 2023

Il Protocollo di Mindfulness interpersonale: un modo per imparare a dire la verità a sé stessi e non vergognarsi di dirla agli altri

Il Protocollo di Mindfulness Interpersonale

Archiviato in:approfondimenti, esplora, mindfulness interpersonale

Ordine o disordine?

26/11/2023 by nicoletta cinotti

Alcuni di noi sono precisi e ordinati fino all’ossessione. Altri disordinati fino all’esagerazione.

Superficialmente possiamo pensare che si tratti di problemi opposti: non è così e oggi possiamo dire di avere più chiaro perché funzioniamo in questo modo. Un comportamento – l’ordine eccessivo – è legato alla compulsione, l’altro – il disordine – è legato alla dipendenza. In fondo molti disordinati sperano che qualcuno sistemi magicamente per loro il disordine.

Spesso sono comportamenti che nascono nell’infanzia. In risposta all’imprevedibilità del mondo circostante, possiamo decidere di tenere sotto controllo almeno una piccola parte della nostra vita attraverso l’ordine. In altri casi invece, possiamo essere così sopraffatti dall’intensità degli stimoli da decidere di accumulare e rimandare il momento in cui entreremo in azione, anche per un tempo molto lungo. Gli accumulatori disordinati, in fondo, collezionano speranza. La speranza, un giorno, di fare qualcosa di tutto quello che stanno conservando in un angolo della propria vita.

Tenere i sogni nel regno della possibilità, dà l’impressione di poter moderare l ‘ansia che si prova. Un’ansia che, invece, aumenta, nel momento in cui ci rendiamo conto di quanto abbiamo accumulato e di come, anziché avere esperienze, abbiamo pezzetti di sogni non realizzati.

Compulsione e dipendenza

Torniamo alla considerazione iniziale: potremmo dire che la situazione di chi è ordinato e di chi è accumulatore e disordinato sia molto diversa? Se ci pensiamo bene, anche linguisticamente, spesso ci diciamo ” Marco acquista compulsivamente nuova tecnologia” ma anche “Marco è dipendente dagli acquisti tecnologici”

Perché li consideriamo sullo stesso piano?

La dipendenza porta piacere ma con il passare del tempo costruisce una soglia di tolleranza che richiede maggiori stimoli perché si raggiunga una soglia di piacere equivalente.

Il piacere che proviamo nel fare qualcosa inizia come un flash di eccitazione misto ad una punta di paura: la paura che proviamo quando facciamo qualcosa leggermente oltre la nostra possibilità. Il ripetere l’esperienza aggiunge piacere (e rischio). Ripetiamo proprio per aggiungere questi due ingredienti che, nel tempo, richiedono però un incremento perché ci sia la stessa qualità di piacere. Alla fine siamo spinti compulsivamente a questa ripetizione e la dipendenza iniziale si è trasformata in una compulsione.

Torniamo all’ordine e al disordine. All’inizio mettere ordine può essere stato un modo per evitare un disagio (e quindi provare un piacere): il piacere di rendere prevedibile un piccolo pezzo del nostro mondo. Poi, per evitare il disagio del disordine abbiamo avuto bisogno di allargare il pezzetto di mondo che tenevamo in ordine…e poi di allargarlo ancora un po’ fino a che siamo diventati compulsivamente coinvolti nel mettere in ordine tutto quello che troviamo (magari prima di uscire, in ritardo, da casa).

Stessa cosa per il disordine: all’inizio lasciare qualcosa in sospeso era tenere attiva la speranza che l’avremmo sistemato poi e crederci. Questo ci ha dato piacere ed eccitazione ma abbiamo avuto bisogno di aggiungere qualcosa in più, nella nostra sospensione, fino a che la nostra casa non è diventata un magazzino di speranze di cose che avremmo il desiderio di fare.

Nella dipendenza ci aggrappiamo alle sensazioni piacevoli (questa cosa è così bella che ne voglio ancora di più), nella compulsione, per contrasto, cerchiamo di evitare il più possibile lo spiacevole (metto a posto perché questo mi evita l’ansia del disordine) ma il risultato non è diverso. Siamo, in entrambi i casi coinvolti in comportamenti ripetitivi che servono per alleviare ansia e angoscia. (Se non controllo whatsapp potrei perdere qualche messaggio importante….se non tengo tutto in ordine potrei disorientarmi).

Alla radice della compulsione sta l’attivazione del circuito cerebrale che rileva le minacce e l’impulso iniziale non è la ricerca del piacere ma evitare il dolore. Alla radice della dipendenza sta il sistema di ricerca del piacere che, quando non trova risposta, percepisce il mondo come una minaccia. Siamo quindi nella stessa zona: evitare il dolore e cercare il piacere si toccano sempre.

La dipendenza dal piacere

La dipendenza nasce dalla ricerca del piacere e, come sappiamo, la ricerca del piacere è connessa con la sensazione di ansia, uno dei disturbi più diffusi ( statisticamente il doppio delle diagnosi di depressione). Anche questa ricerca conduce a comportamenti ripetitivi e, compulsivi, cioè comportamenti che non possiamo frenare o scegliere di non agire.

Certamente tutti cerchiamo il piacere e tutti vogliamo evitare il dolore. Come possiamo fare però perché questo non diventi una dipendenza o una compulsione, visto che sono eventi inevitabili della vita? Come al solito la consapevolezza ci dà una risposta.

Entrambi questi comportamenti hanno un punto di partenza che sta nella fase iniziale dell’esperienza. Sia se siamo troppo ordinati che troppo disordinati, sia se siamo evitanti che aggrappati è il momento di inizio quello più delicato.

Portare l’attenzione a cosa succede quando dobbiamo iniziare qualcosa – e a cosa succede quando dobbiamo finire qualcosa – è il modo migliore per aiutarci ad scegliere se entrare nella ripetizione, nel pilota automatico – o fare davvero qualcosa di nuovo.

Ecco perché scegliere vuol dire tante cose. Vuol dire fare qualcosa per le proprie difficoltà. Vuol dire smettere di immagazzinare speranze e trasformarle in piccole azioni quotidiane. Vuol dire portare della novità autentica nella propria vita.

© Nicoletta Cinotti 2023

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La scelta della tenerezza

25/11/2023 by nicoletta cinotti

Se dovessi dire qual è la difficoltà più frequente rispetto al lasciar andare direi che è la sensazione di non essere pronti. Che le cose debbano essere ancora concluse, ancora migliorate. È una considerazione singolare perchè può portare a tenere in vita il desiderio per una relazione già finita, può spingerci a fantasticare su qualcosa che ormai è immodificabile, come se il nostro pensiero, tenendolo in vita, potesse permetterci di cambiare qualcosa che non è andato nella direzione giusta.

Dietro a questi tentativi – a volte disperati a volte comici – c’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa, che se avessimo fatto, detto o agito diversamente, il risultato sarebbe stato profondamente diverso.

Questo pensiero, questa sensazione, questa spinta, questo impulso, questo dolore, questa paura, questa rabbia, questo dubbio, questa tensione non dovrebbero essere qui. Questa è la voce che sta dietro alla nostra sofferenza. Jeff Foster

Giudicare sulla base del risultato

Giudicare sulla base del risultato è una grossa tentazione. Il risultato ci sembra la destinazione finale che svela il senso di quello che è avvenuto. Al risultato concorrono tante variabili, molte delle quali totalmente fuori controllo. Eppure continuiamo a considerare che quel risultato sia solo nostro e quindi il segno personale della nostra riuscita e sconfitta. È per questo che non può bastare la diagnosi psicologica che non tenga conto del contesto culturale e sociale in cui viviamo. Il punto non è migliorarci o migliorare fino a che non si raggiunga la qualità desiderata. Il punto è considerare che oltre a noi ci possono essere in gioco altre forze, interne alla persona con la quale siamo in una relazione, e forze culturali, di gruppo, di appartenenza ad una schema di pensiero. Peccato che a volte ci impegniamo a prescindere dalle circostanze e a prescindere dalla volontà e collaborazione delle altre persone coinvolte. È così che un partner diventa uno stalker: non accetta il risultato finale. Vuole avere ancora una possibilità di cambiare le cose o, almeno, di cancellare il fallimento, cancellando la persona che lo rappresenta. Giudicare sulla base del risultato è sempre un atto egoico: è un nostro merito o una nostra colpa.

Lascia andare quella voce interna dura e appuntita. È un eco del passato, Che non afferma nessuna verità su questo momento. Lascia andare il giudizio su di te, il vecchio e abituale modo di rimproverarti per ogni inadeguatezza immaginata. Permetti che il dialogo interno cresca amichevole e tranquillo. Spostati dalla critica interiore e la vita ti sembrerà improvvisamente molto diversa.Danna Faulds

Come sarebbe se considerassimo anche il ruolo dell’ambiente, delle circostanze, della volontà delle altre persone coinvolte? in che cosa si trasformerebbe la nostra determinazione? Come sarebbe se procedessimo a partire dalla nostra intenzione, mettendola in dialogo con la realtà? Come sarebbe se accettassimo le cose così come sono, così come sono andate, senza cercare di evitare il dolore del fallimento, il dolore della fine?

Quando cerchiamo di sfuggire il dolore, inizia la sofferenza: ci dividiamo in due. Una parte soffre e un’altra parte vuole essere fuori della sofferenza. Così ci frammentiamo: siamo metà dentro e metà fuori, rifiutando chi siamo e desiderando di essere altrove, proprio dove non riusciamo ad essere: questa è la vera sofferenza della nostra vita. Il vero problema è che coltiviamo l’idea, la falsa credenza che in noi ci sia qualcosa di sbagliato e così ogni fallimento, ogni evento che non risponde alle nostre aspettative non solo ci ferisce ma anche lo temiamo. Temiamo che dimostri – una volta per tutte – una sorta di difetto di base che cerchiamo costantemente di migliorare.

Lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso

Siamo cresciuti nell’ottica positivista del miglioramento e così ci siamo dimenticati che, mentre affermiamo la nostra intenzione di migliorarci, affermiamo anche la nostra idea di essere inadeguati. Inoltre il perfezionamento richiede grinta, determinazione, sforzo. Richiede di non mollare fino a che non si arriva a destinazione, a prescindere dal senso del limite. Anzi, varcando il senso del limite per andare oltre a ogni costo. In gioco c’è la nostra autostima: per questo non siamo tanto disponibili a lasciar andare.

Perchè lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso: entriamo in quello che c’è. Non significa rinunciare al cambiamento, al dinamismo, allo scorrere. Lo facciamo a partire da questo ingresso, radicale, nel presente. In fondo lasciar andare è una dichiarazione di non reattività: assaporo tutto fino in fondo, certo che da quel luogo nasca la spinta per il passo successivo. Non lotto ma accolgo e poi lascio che la forza di quello che accade mi porti in una direzione creativa. In una direzione in cui la mia creatività non è contro alla creatività della vita ma ne è parte.

Nell’ Aikido c’è un movimento in cui rispondiamo all’avversario trasformandolo in un alleato e usando la forza del suo attacco come spinta per andare avanti. Lasciamo andare la difesa ed entriamo nell’energia dell’evento. Cosi lasciar andare diventa essere nella forza della marea, come dice Danna Faulds

Lascia andare i modi in cui pensavi che si sarebbe svolta la tua vita: l’attaccamento ai piani, ai sogni o alle aspettative – lascia andare tutto. Conserva le forze per nuotare con la marea. La scelta di combattere ciò che hai ora di fronte avrà come risultato solo fatica, paura e tentativi disperati di fuggire da quella stessa energia che tanto desideri. Lascia andare. Danna Faulds

Aggrapparsi nel corpo e nella mente

Spesso pensiamo che quello che accade nel corpo e quello che accade nella mente non abbiano nessuna relazione. E’ un pensiero che nasce dalla nostra separazione tra corpo e mente. Se ristabiliamo l’originario senso di unità possiamo accorgerci che i movimenti sono speculari a ciò che proviamo mentalmente. Nutrono e sostengono le nostre idee e i nostri pensieri.

Aggrapparsi è uno dei movimenti che è più facile cogliere nella sua connessione corpo-mente ed è uno dei movimenti antagonisti al lasciar andare. Lasciar andare è praticare l’instabilità: aggrapparsi è cercare di bloccare il flusso

Quando non possiamo avere ciò che desideriamo, la tensione dell’insoddisfazione perdura. Questo aggrapparsi accade sia per qualcosa che ci piace che per qualcosa che non ci piace. Se ci piace non vorremmo che finisse, se non ci piace non accettiamo che sia andata così e ci aggrappiamo all’idea di modificarlo. Ci aggrappiamo internamente ed esternamente e non solo come risultato del momento che viviamo, piacevole o spiacevole. E’ il risultato anche di tutti i momenti passati di piacere e dispiacere. Impariamo ad aggrapparci come estensione del nostro desiderio di sicurezza e l’alimentiamo con la nostra determinazione e volontà, con la fatica che abbiamo ad accettare che le cose siano come sono.

Nutriamo l’illusione che insistendo, aggrappandoci al nostro desiderio di ottenere un risultato, ci sarà possibile cambiare l’esito delle cose.

Il disarmo della tenerezza

La tenerezza ci permette di tornare principianti, ci rende dis-armati. Non solo perchè abbiamo lasciato andare, non solo perchè ci siamo permessi di sciogliere e fluire. È proprio perchè non sappiamo prima quello che succederà dopo che può emergere un senso di tenerezza rispetto a quello che accade.

Chi è tenero non vuole farcela a tutti i costi, vuole sentire come sta e sentire come stanno gli altri, è sorella e fratello, non è genitore, non è maestro. La tenerezza sa stare alla pari, fianco a fianco, non è frontale. Chandra Livia Candiani

E se, alla fine, non fosse proprio la tenerezza quella che perdiamo quando non lasciamo andare?

© Nicoletta Cinotti 2023

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Gratitudine e cambiamento

 

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Dare voce al corpo

19/11/2023 by nicoletta cinotti

Spesso, troppo spesso, diamo attenzione al corpo attraverso la voce del rimprovero o dell’estetica. Lo rimproveriamo se non funziona bene, alimenta i nostri incubi ipocondriaci, somatizza le nostre tensioni, racconta i nostri desideri estetici ma è davvero raro che possa essere ascoltato senza giudizio. Lo imbrigliamo attraverso la tensione, lo intrappoliamo attraverso le somatizzazioni.

Uno dei nuclei principali del lavoro bioenergetico è lo scioglimento dei blocchi e delle tensioni croniche. Lavoriamo per sciogliere il corpo perchè queste tensioni – espressione delle nostre difese – mantengono vivo il nostro radicamento nella situazione traumatica del passato.

Gli schemi di reazione allo stress sono strutturati nel corpo e fanno parte di un atteggiamento del carattere dell’individuo. Alexander Lowen

Per quanto possa apparire paradossale noi costruiamo le nostre difese dopo che si è verificato l’evento critico e, quindi, ogni difesa ha un carattere anacronistico: è chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Di fatto la difesa compie anche un’altra funzione: permette un ritiro che dovrebbe essere riparativo. Il problema è che se non manteniamo flessibilità e vitalità non riusciamo ad uscire da questo ritiro riparativo, lo consolidiamo e rimaniamo per un tempo esageratamente lungo nelle difese corporee. La bioenergetica si colloca qui: nel lavoro di scioglimento dei blocchi e delle tensioni che mantengono ancorati al passato e che non hanno una funzione riparativa.

La coscienza si schiude come il bocciolo di un fiore, in modo così graduale che non è possibile percepire il cambiamento. Eppure la nostra coscienza può distinguere degli stadi, che possiamo descrivere per il gusto dell’analisi. La memoria ha un ruolo importante nella funzione della coscienza. Alexander Lowen

Che cosa significa sciogliere le tensioni?

Le tensioni e contrazioni difensive hanno una struttura particolare: sono tensioni circolari che non impediscono la funzione muscolare ma limitano la consapevolezza corporea. I movimenti che le allentano sono essenzialmente di due tipi: movimenti di allungamento e movimenti rotatori. I movimenti di allungamento facilitano, in modo diretto e indiretto, la lunghezza dell’atto respiratorio. Quelli rotatori allentano l’anello di tensione vero e proprio. Per facilitare il processo di scioglimento in bioenergetica usiamo il suono: le vocalizzazioni che sono connesse all’emozione che è rimasta “impigliata” nell’esperienza. Ripristinare l’equilibrio tra la consapevolezza corporea e l’atto espressivo è un passo squisito della bioenergetica. Moltissime persone hanno sperimentato come non basta essere consapevoli per stare meglio. Abbiamo bisogno che la nostra consapevolezza realizzi anche espressivamente una differenza nella nostra vita. Così, passando attraverso l’espressione primitiva del suono diamo voce all’aspetto non verbale delle nostre emozioni. È questo passaggio che ci restituirà la declinazione verbale.

 L’impiego delle parole giuste è una funzione energetica perchè è una funzione della coscienza. È la consapevolezza dell’esatta corrispondenza fra una parola (o una frase) e una sensazione, fra un’idea e un sentimento. Quando le parole sono connesse o combaciano con le sensazioni, il flusso energetico che ne risulta fa aumentare lo stato di eccitazione della mente e del corpo elevando il livello di consapevolezza e la messa a fuoco. Alexander Lowen

Andare in profondità

Questo è il primo livello di lavoro che facciamo per sciogliere le tensioni. Il lavoro però non si ferma qui: andiamo più in profondità ossia andiamo ad esplorare due aspetti dell’atteggiamento difensivo e della corrispondente tensione: l’accettazione e la reattività.

La base della risposta difensiva è un aspetto avversativo. È successo qualcosa che non volevamo e che non vogliamo si ripeta. Ci poniamo quindi in una posizione oppositiva rispetto alla realtà. Questa lotta – come accade in tutte le opposizioni – lascia ingabbiati nella situazione. Lottando contro non abbiamo più le energie a disposizione per andare avanti. Rimaniamo fissati, in opposizione, al nostro nemico e impegniamo tutte le nostre energie in questa lotta. Anche in questo caso abbiamo una modalità di risposta muscolare: blocchiamo un movimento spontaneo opponendo una forza muscolare contraria.

Nutriamo così la non accettazione che si manifesta, dal punto di vista comportamentale, con la reattività. Di fronte a stimoli che ci ricordano il trauma originario diamo adito ad una schema di risposta automatico e reattivo che può essere scambiato per spontaneità ma è tutt’altro. In questo punto molto spesso il processo di cambiamento e trasformazione si arresta. Ci sembra che la parola accettazione sia scandalosa mentre la parola opposizione diventa magica, come se avesse la forza di cancellare quello che è successo. Non è così. Accettazione non significa invocare il dolore: significa riconoscere la presenza di quell’evento nella nostra vita e riconoscere il danno che ha portato alla fiducia e all’apertura del cuore.

La reattività

Possiamo scambiare la reattività per spontaneità. E spesso i comportamenti reattivi – che comportano una scarica emotiva e fisica – possono dare un sollievo momentaneo. Ma non è difficile distinguerli dalla spontaneità: sono ripetitivi e non portano davvero avanti ma lasciano la persona sempre nello stesso posto.

Nel comportamento reattivo c’è un aspetto che è solo apparentemente spontaneo, in quanto è condizionato e predeterminato dalle esperienze precedenti. Chi va su tutte le furie ogni volta che viene frustrato può dare una espressione di spontaneità ma la qualità esplosiva della reazione lo smentisce. L’esplosione deriva dal blocco degli impulsi, dietro a cui si crea un accumulo di energia che una lieve provocazione basta a scatenare. Il comportamento reattivo deriva da una interferenza con il fluire degli impulsi ed è espressione di una situazione di blocco all’interno dell’organismo. Alexander Lowen

Quindi, quando lavoriamo sulle tensioni, possiamo dire che superficialmente lavoriamo sull’aspetto muscolare ma in profondità lavoriamo per ampliare la capacità di accettare per diminuire l’aspetto di reattività.

Il ruolo dell’attenzione

L’aspetto di movimento della bioenergetica, prodotto dagli specifici esercizi, non sarebbe sufficiente se non utilizzassimo una qualità cognitiva: l’attenzione. Tutti gli esercizi, perché siano efficaci, vanno compiuti in modo non meccanico, portando l’attenzione al corpo. L’attenzione è un passaggio fondamentale perchè aumenti la carica e si arrivi allo scioglimento. C’è una relazione positiva tra consapevolezza e attenzione che fa sì che l’una aumenti l’altra. E insieme collaborino per quello scioglimento che integra consapevolezza, padronanza di sé e capacità espressiva.

Diamo voce

È arrivati a questo punto che possiamo dare voce a chi siamo davvero. È arrivati a questo punto che le nostre parole sono davvero espressive della nostra consapevolezza. Vanno al di là delle narrazioni schematiche che abbiamo imparato sull’argomento della nostra vita. È arrivati a questo punto che possiamo dire cos’è – davvero – la nostra esperienza. E possiamo – davvero – declinarla al tempo presente in modo pacifico anche se raccoglie lampi di conflitto. La pace è disegnata dallo scioglimento e dall’accettazione e non dall’assenza di tensione o di confltto. Non possiamo essere in pace solo quando non c’è conflitto. Vogliamo la pace anche quando attraversiamo tempeste che non dipendono dalla nostra volontà e che non possiamo controllare.

Le parole svolgono a livello individuale la stessa funzione che svolgono per la società. La storia viva di una persona è registrata nel corpo ma la storia cosciente lo è nelle parole. Se manca la memoria delle esperienze mancano anche le parole per descriverle. Alexander Lowen

Ecco perchè le meditazioni narrative sono impprtanti: portano pace attraverso le parole e accarezzano le tensioni del corpo, come potresti aver sperimentato con le pratiche dedicate alla pace della scorsa settimana (sono le ultime pratiche che trovi sul Canale YouTube)

A sostegno delle pratiche narrative il lavoro proposto dal protocollo di mindfulness interpersonale ci aiuta a portare consapevolezza nell’area delle relazioni e della comunicazione

Le citazioni di Alexander Lowen sono tratte da Bioenergetica

Se vuoi approfondire il processo della mindfulness interpersonale ti suggerisco Mindfulness relazionale di Gregory Kramer

© Nicoletta Cinotti 2023

Attività correlate

Il protocollo di Mindfulness interpersonale compie 10 anni. Festeggerò questo compleanno con la diretta di Sabato 2 Dicembre 2023 sul mio profilo Instagram alle 9

 

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Come costruiamo un nemico?

12/11/2023 by nicoletta cinotti

Abbiamo due guerre molto vicine e man mano che passa il tempo il nostro coinvolgimento emotivo cambia come se potessimo abituarci al suo orrore giorno dopo giorno.
In realtà per molte persone non è così ma si sentono profondamente coinvolte dalla guerra e dalle sue orribili conseguenze. Purtroppo viviamo in un mondo in cui tendiamo a dicotomizzare in categorie opposte. La nostra mente è organizzata così e possiamo finire facilmente per giudicare una posizione giusta e l’altra sbagliata, senza quasi renderci conto che questo comporta la creazione di una categoria “nemica” e una “amica”, una posizione giusta e una sbagliata.Come se creare un nemico fosse più facile che creare un amico.

Come creiamo un nemico

Gli studi sui pregiudizi hanno mostrato che la familiarità diminuisce l’ostilità sociale e può arrestare il processo di costruzione di una inimicizia, permettendo alla fiducia di diffondersi. Si chiama effetto del contatto esteso. Jonathan Haidt ha chiamato questo processo “spegnere l’interruttore dell’Io e accendere l’interruttore del Noi”. Un processo che possiamo coltivare attraverso un. semplice esercizio proposto dai due insegnanti buddisti Sharon Salzberg e Robert Thurman.

Lavorare con il nemico esterno

  1. Prova a pensare a qualcuno che ti sta antipatico qualunque sia la ragione di questa antipatia. Potrebbe farti paura, ti potrebbe sembrare un rivale o potrebbe averti ferito in qualche modo. Cerca di metterlo a fuoco chiaramente ed entra in contatto con le emozioni che provi per questa persona.
  2. Adesso immagina di essere questa persona che sta seduta di fronte a te e ti guarda. Prova a osservarti dalla prospettiva del tuo nemico o della tua nemica. Potresti trovare gelosia, un senso di superiorità o inferiorità, invidia o competitività.
  3. Immergiti in queste emozioni negative che provi per questa persona e che questa persona prova per te.
  4. Poi prova a immaginare come le persone che gli o le vogliono bene possono percepirla e diventa consapevole dello stress che i sentimenti negativi sperimentati prima portano con sé a differenza dell’apertura che producono i sentimenti di affetto.
  5. Adesso cerca di mettere a fuoco una caratteristica positiva di questa persona. Se non ti viene in mente nulla immagina che questa persona vinca una competizione o riceva una cospicua somma di denaro in regalo, qualcosa che lo fa stare bene e che cambia il modo con cui si relaziona a te.
  6. Immagina che la sua felicità ti raggiunga e che sia così felice da non aver più nessuna motivazione di conflitto con te. Guarda come ti senti e se e come cambiano le tue emozioni riguardo a questa persona.

A volte con questo esercizio ci rendiamo conto che molti nemici esterni sono tali perché proiettiamo su di loro sentimenti negativi che viviamo dentro di noi. A volte ci potremmo anche rendere conto che il nostro nemico esterno somiglia molto ad uno dei nostri nemici interni, quella parte di noi sempre pronta ad attaccarci e criticarci.

Lavorare con il nemico interno

 

I nostri nemici interni abitano tutti nello stesso condominio: quello della critica e sono ben organizzati. Hanno ragioni e motivazioni che possono sembrarci inoppugnabili. Per questo ti propongo un nuovo esercizio, questa volta per il “nemico interno”

1.Inizia assumendo una posizione comoda ma attenta, e porta un’attenzione affettuosa sul respiro.
2. Riporta alla mente una situazione difficile. Forse stavi male fisicamente o vivevi un conflitto relazionale o altro ancora. Entra in contatto con il flusso di pensieri e sentimenti autocritici.
3. Ora immagina di poter vedere quella parte critica di fronte a te. Ti assomiglia? Osserva le emozioni che ha verso di te. Potrebbe esserci rabbia, delusione o emozioni più complesse come il disprezzo.

4. Mantieni un atteggiamento amichevole e prova a vedere cosa c’è dietro i pensieri accusatori. Cos’è che spaventa veramente il sé critico? Ti ricorda qualcuno? Chiediti: “Il mio sé critico ha davvero a cuore i miei migliori interessi? Vuole vedermi prosperare, essere felice e in pace? Mi incoraggia quando sono in difficoltà?”.
5. Se non è così, se non ti è d’aiuto vuoi lasciarlo guidare la tua vita? Guarda se puoi contenere il sé critico con gentilezza, riconoscendo che è provocato dalle minacce o dalle ferite del passato. Cerca di essere paziente con la paura che si nasconde dietro alle ferite del passato. Non andare più veloce o più in profondità se non ti senti a tuo agio.

6. Prova a fare queste domande al tuo sé critico:

  • di cosa hai bisogno?
  • se lo avessi come ti sentiresti?

7: puoi dare al tuo sé critico quello di cui ha bisogno? puoi farlo come augurio e/o intenzione se non riesci a farlo materialmente? Puoi avere l’intenzione di portare pace dentro di te?

Coltivare il coraggio

Quando parliamo di nemici abbiamo bisogno di alcune qualità: pazienza e coraggio sono alla base. È un coraggio particolare perché include il coraggio di resistere alle nostre tendenze abituali e alla loro seduttività. È il coraggio di mettere dei limiti, e, a volte, è il coraggio di perdonare. Tutte abilità che abbiamo e che, nello stesso tempo, abbiamo bisogno di coltivare.

È per questo che nel mese di Novembre, il mese dedicato alla gentilezza, ho scelto di fare una settimana di pratiche gratuite per lavorare sui nemici interni, nella speranza che questo porti pace anche ai nemici esterni e alle guerre che si combattono in varie parti del mondo.

Oltre alla consueta pratica del lunedì mattina da lunedì 13 a sabato 18 ci saranno delle pratiche dedicate alla pace, al perdono e al coraggio.

Trovi qui il programma delle pratiche gratuite

  • Lunedì 13. Compassione per il Sé arrabbiato
  • Martedì 14 Compassione per il Sè ansioso
  • Mercoledì 15 Compassione per il Sé critico
  • Giovedì 16 Pratica sul coraggio
  • Venerdì 17 Pratica sul Perdono
  • Sabato 18 Pratica di Metta

Tutte le sessioni saranno alle 8 su Zoom e verranno registrate e caricate sul mio Canale YouTube

ID Riunione 824 7396 1147

Passcode 052197

© Nicoletta Cinotti 2023 Il programma di Mindful Selfcompassion

 

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Il presente e la memoria del futuro

04/11/2023 by nicoletta cinotti

Tre tempi

Qualche anno fa – durante un periodo in cui ho avuto un problema di salute – ho realizzato per la prima volta che si può perdere la memoria del futuro. Non la memoria degli eventi passati, che sappiamo essere soggetta a decadimento. Ma quella che, in termine tecnico, si chiama proprio memoria del futuro.

La memoria del futuro è connessa alle nostre abilità di pianificazione, progettazione e immaginazione. Ci proiettiamo nel futuro a partire dalle nostre motivazioni presenti. Ne abbiamo bisogno per organizzare e dare una forma alle nostre azioni. Agisce sia su scala temporale brevissima che più ampia. Per andare in ufficio devo sapere quanto tempo mi occorre e che strada fare e che il fatto che andrò in ufficio significa che non sarò in giardino e quindi che quello che avevo in mente di fare in giardino deve essere spostato al fine settimana. Giusto per fare un esempio, ovviamente. Quando abbiamo subito un trauma la nostra memoria del futuro si sospende. Abbiamo bisogno di avere tutte le enenrgie sul presente e quindi mettiamo tra virgolette quello che riguarda il futuro

Ci muoviamo continuamente su questi tre tempi: presente, passato e futuro. E dall’equilibrio tra lo spazio che occupa ciascuno di questi tempi possiamo comprendere come stiamo emotivamente e fisicamente. Molte persone durante una malattia fisica riducono la memoria del futuro. Lo stesso può accadere in certe situazioni emotive: non sappiamo più con chiarezza che direzione vogliamo prendere e quindi viviamo giorno per giorno, senza “allungarci” oltre.

Le emozioni connesse a questi tre tempi

Ovviamente le nostre emozioni sono connesse a quello che realmente viviamo ma la nostra possibilità di spostarci nel passato e nel futuro fa sì che ci siano emozioni specificatamente legate al passato – nostalgia, rimorso, rammarico, senso di colpa, piacere, divertimento, per citarne alcune tra le più frequenti – e altre connesse al futuro – speranza, fiducia, ansia, aspettativa, paura e così via.

Quanto tempo dimoriamo nel passato e nel futuro ci dice qualcosa su quella che è la nostra tendenza prevalente: se stiamo molto nel passato potremmo avere un mood depressivo; se siamo troppo nel futuro un mood ansioso (il mood è lo stato d’animo). Non a caso ho usato la parola dimorare: in genere i pensieri che ci portano da una parte (passato) all’altra (futuro) hanno una certa durata temporale e possono anche astrarci dalla realtà presente. In ogni caso il passare del tempo influenza l’intensità della sensazione emotiva, modificandola.

Mettere in equilibrio

Credo che inizi ad essere chiaro che non possiamo rinunciare a nessuno di questi tre tempi ma, anche, che è necessario che ci sia tra di loro, un saggio equilibrio, adeguato alle circostanze in cui ci troviamo. Possono esserci molte attività in cui abbiamo bisogno di navigare nel passato o nel futuro ma questo non deve diminuire la nostra capacità di stare nel presente. Capacità che, invece, può andare in sofferenza se siamo troppo proiettati dall’una o dall’altra parte.

Perchè soffriamo la perdita di equilibrio

Ci colleghiamo al passato e al futuro prevalentemente attraverso i pensieri. Il passato può essere più facilmente richiamato da esperienze percettive ma, una volta che il ricordo si è attivato, i pensieri hanno una parte dominante che sostiene il ri- emergere di vecchie emozioni e ne produce di nuove. Sono i pensieri che ci proiettano nel futuro – a volte con immagini, che consideriamo sempre forme di attività mentale – a volte con programmi, progetti e liste di cose da fare. Questo prevalere dei pensieri connessi alla memoria del futuro e del passato è pericoloso perchè sono i nostri pensieri che attivano stati emotivi e modalità disfunzionali di ripetizione. In qualche modo – senza esserne consapevoli – rischiamo di duplicare nel futuro il nostro passato. Il che può essere una fortuna se il nostro passato è andato bene ma non sempre è così. Oltre al fatto che la realtà cambia abbastanza velocemente e questo cambiamento rischia di rendere fallimentare la ripetizione e la traslazione del passato su futuro.

Abbiamo quindi bisogno di alcuni elementi

Abbiamo quindi bisogno di avere un solido ancoraggio al presente perchè la nostra memoria del passato e quella del futuro non facciano danni ma siano a nostro sostegno. Anche per il presente parliamo, stranamente, di memoria. Come dice Kabat Zinn abbiamo continuamente bisogno di ricordarci di essere presenti. Più siamo in contatto percettivo con il mondo e più questo è facile perchè la percezione, la consapevolezza corporea, forniscono ancoraggi al presente.

Detto così però dimorare nel presente sembra essere una buona intenzione senza strumenti. Gli strumenti invece ci sono. Eccoli qua:

  • molte delle nostre tensioni fisiche sono storiche, ossia sono espressione di contrazioni muscolari sviluppate a partire da emozioni avversative. Il permanere di queste tensioni ri-attualizza le emozioni che le hanno prodotte. Lavorare sul corpo quindi permette di sciogliere le tensioni e di lasciar andare una memoria del passato disfunzionale;
  • l’attenzione è un elemento fondamentale per l’ancoraggio al presente. La realtà ci offre continui stimoli: abbiamo bisogno di essere consapevoli di quello che stiamo facendo nel momento in cui lo stiamo facendo. In una parola di essere concentrati su una cosa per volta. Niente multitasking per dimorare nel presente. Anzi il multitasking produce quella sensazione di mente dispersa, quella sgradevole confusione nell’attenzione che si verifica quando facciamo una cosa e pensiamo a quelle che è necessario fare dopo;
  • essere attenti può non essere sufficiente se non riusciamo a dare significato a quello che stiamo facendo. Per questa ragione abbiamo bisogno di trovare momenti in cui possiamo comprendere cos’è il nostro presente. Momenti contemplativi oppure momenti riflessivi;
  • riconoscere le emozioni ci àncora al presente, mentre se facciamo fatica ad essere in contatto emotivo possiamo facilmente scivolare in fantasie o azioni inconsapevoli;
  • imparare: niente di meglio che avere l’intenzione di imparare qualcosa per rimanere concentrati su ciò che facciamo. Molto spesso però agiamo perchè lo “Dobbiamo fare” e lasciamo andare la situazione di apprendimento. Possiamo imparare qualcosa di nuovo sempre, anche ripetendo la stessa identica azione.

Intuizione e apprendimento

Associamo l’apprendimento allo studio. E quindi all’imparare qualcosa già conosciuto da altri. Siamo troppo poco stimolati all’apprendere dall’esperienza. Questo però è un elemento cardine dello stare nel presente: non si tratta di ingoiare più informazioni possibili per riprodurle ad un esame. Si tratta piuttosto di un apprendimento che passa attraverso intuizioni. E non c’è niente di più gratificante dell’intuizione per imparare dal presente. Avere una intuizione è così stimolante che motiva a rimanere radicati e attenti e suscita emozioni piacevoli anche se l’intuizione riguarda una parte di noi difficile.

Come fare allora ad avere una intuizione, un insight come dicono gli anglofoni (preferisco la parola insight perchè rende immediatamente chiaro che si tratta di visione (sight) interna (in))? Prima di arrivare al come è necessario ricordare le precondizioni precedenti: 1) attenzione non divisa; 2) percezione del corpo; 3) intenzione di imparare. Se vogliamo possiamo considerare queste come condizioni limitative perchè non sono sempre presenti. Però sono condizioni che aumentano il potenziale delle nostre capacità. Per usare una metafora, se apriamo tutti i rubinetti di casa e facciamo funzionare contemporaneamente lavatrice e lavastoviglie la pressione dell’acqua potrebbe essere insufficiente. Se apriamo solo un rubinetto non avremo problemi di pressione! Questa attenzione non divisa può essere creata anche partecipando ad attività dedicate a noi: tutte le attività di cura creano un ambiente favorevole alle precedenti condizioni.

Intuizioni, insight e novità

Un insight o intuizione è un nuovo segnale, un nuovo pensiero, un nuovo modo di mettere le informazioni insieme. Il punto però è che queste informazioni non usano la modalità consueta ed è questo che le rende rare e preziose. Quello che vediamo ordinariamente percorre le strade consuete ma per facilitare un insight abbiamo bisogno di condizioni che ci permettano di percorrere strade inconsuete. Ecco le condizioni fondamentali: 1) una mente ricettiva ossia non attraversata da opposti stimoli o in situazione conflittuale. Una qualità di mente che sperimentiamo quando abbiamo fatto lavoro corporeo bioenergetico, ossia quando non abbiamo permesso alla tensione di oscurare i dettagli della nostra esperienza. 2) L’attenzione rivolta all’interno e anche lo sguardo rivolto all’interno, perchè molte intuizioni compaiono come immagini, immagini che però non sono processate dalla corteccia visiva. Coltivare quindi uno sguardo interiore – quello che sperimentiamo con la mindfulness – facilita il processo di insight e riduce le distrazioni dovute agli stimoli che arrivano dall’esterno.3) Avere un umore leggermente positivo: più l’umore è positivo più vediamo connessioni diverse. L’umore negativo tende a farci ripetere gli stessi passi e restringe la prospettiva con la quale guardiamo alle cose. Mentre le emozioni positive allargano la stessa prospettiva. E quindi permettono alle nuove idee di varcare la soglia della nostra critica. 4) Infine, l’ultimo elemento, paradossale ma vero: non pensare attivamente alla soluzione facilità l’emergere di buone intuizioni!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

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