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Emozioni: come nascono, come cambiano

16/09/2023 by nicoletta cinotti

Mi capita spesso di sentirmi chiedere la differenza tra emozioni e sentimenti oppure di sentirmi chiedere perché le emozioni sono più importanti dei fatti. Ho pensato quindi che un po’ di chiarezza potesse essere utile.

Intanto proviamo a vedere che cosa produce un’emozione

che cosa produce un'emozioneUn’emozione è frutto di 4 elementi continuamente in interazione tra di loro. Tutti questi elementi possono formare l’innesco all’emozione così come viene percepita.

I pensieri sono quelli che contribuiscono a rendere l’emozione più continuativa nel tempo e la legano alla nostra storia personale e relazionale. Le sensazioni fisiche danno il felt sense ed è quello che attiva o meno il segnale di pericolo. I sentimenti ci parlano invece della nostra storia relazionale e personale e danno un colore e un tono all’umore oltre che alla singola emozione. Gli impulsi sono le nostre tendenze di base, diverse da persona a persona anche se condivise da tutti gli esseri umani.

Il ruolo del corpo

Fino a non molto tempo fa non credevamo che il corpo avesse un ruolo nell’esperienza emotiva. Oggi sappiamo che non è così: ciò che accade nella mente non ha una esistenza autonoma ma è una parte fondamentale del corpo stesso e tra il corpo e la mente c’è un continuo scambio di informazioni reciproche. Molto di ciò che il corpo sente è influenzato dai pensieri e, contemporaneamente, tutto quello che pensiamo è mosso da ciò che accade nel corpo, come ha originalmente illustrato Alexander Lowen.

Johannes Michalak, dell’università della Ruhr, e il suo gruppo di ricerca, ha studiato le differenze di movimento tra un gruppo di persone depresse e un gruppo di controllo, attraverso 40 microsensori posizionati in tutto il corpo. Le persone depresse avevano meno mobilità dalla vita in su e una camminata con oscillazioni laterali, una posizione ingobbita e pendente in avanti. Non solo. Se il gruppo di controllo era invitato a simulare per un certo periodo di tempo questa posizione, pur non essendo depressi, il loro umore cambiava.

Minaccia interna e minaccia esterna

Non consideriamo diversamente una minaccia interna e una minaccia esterna. In presenza di un pericolo, il corpo si prepara a rispondere e la sua risposta muscolare condiziona il profilo di attivazione mentale e le emozioni che possono emergere. In questo modo attiviamo un circolo vizioso tra la mente e il corpo che rende difficile produrre emozioni diverse senza passare dal cambiamento delle tensioni fisiche.

Fortunatamente le emozioni sono variabili e quindi possiamo passare da una all’altra velocemente ma se le nostre tensioni fisiche sono stabili avremo più probabilità di provare sempre le emozioni che le hanno generate. Oppure, quelle stesse emozioni dureranno più a lungo.

Le costellazioni emotive

In superficie sembra che le emozioni siano poco collegate le une alle altre. In realtà le emozioni si muovono in gruppi coerenti di stati emotivi nei quali un singolo elemento dello schema innesca tutto il resto.

Ci capita di rado di provare solo tensione o solo tristezza. Queste finiscono per intrecciarsi con vulnerabilità, rabbia, amarezza, gelosia, dolore: tutti sentimenti che possono essere orientati verso gli altri o verso noi stessi.

Nel corso della nostra vita queste costellazioni possono combinarsi strettamente con determinati pensieri, sensazioni fisiche, comportamenti e così il passato comincia ad avere un effetto pervasivo sulle esperienze emotive del presente.

Il problema del perché

Una delle caratteristiche della mente umana è quella di cercare spiegazioni per quello che prova. Non ci basta sentire una emozione: abbiamo bisogno di sapere perché proviamo quella specifica emozione. La domanda “perché” è forse una delle domande più importanti nella storia dell’umanità. Ci ha permesso una crescita culturale e scientifica che ha disegnato la nostra possibilità di progresso. Non sempre però questa domanda ci aiuta. Soprattutto è una domanda che non ci permette di comprendere tutto e che rischia, invece, di diventare un chiodo fisso.

Quando siamo infelici è naturale cercare di scoprire perché ci sentiamo così e di trovare una maniera di risolvere il problema che ha causato la nostra infelicità. Solo che le emozioni non possono essere risolte: possono solo essere provate. Una volta che ne hai riconosciuto l’esistenza e hai lasciato andare la tendenza a spiegarle o a sbarazzartene, è molto più probabile che svaniscano da sole.

Quando si cerca di risolvere il problema dell’infelicità (o di qualunque altra emozione negativa) si mette in uso uno degli strumenti più potenti della mente: il pensiero razionale critico. Funziona così: ci si vede in un posto (infelici) e si sa dove si vorrebbe essere invece (felici). A quel punto la mente analizza la distanza fra le due alternative e cerca di elaborare il modo migliore per collegarle fra loro. Allo scopo utilizza la sua modalità del fare, detta così perché riesce bene a risolvere i problemi e a portare a compimento le azioni. Penman, Williams

La modalità del fare

La modalità del fare opera riducendo progressivamente la distanza che c’è tra il punto in cui siamo e quello in cui vorremmo essere. Lo facciamo frammentando il problema in parti più piccole, cercando di risolvere ognuna di queste parti per avvicinarsi all’obiettivo del benessere che andiamo cercando.

Rispetto alla  nostra vita emotiva questa modalità è controproducente: non possiamo costringerci a provare emozioni diverse da quelle che proviamo e la regolazione cognitiva non ha efficacia sulle emozioni. Rischiamo che questa modalità ci porti a farci domande senza soluzione: “Cosa c’è in me che non va?” Perché ho sbagliato?” Perché continuo a fare sempre questi errori?”. In questo modo entriamo in una modalità rimuginativa che non permette la fisiologia del cambiamento emotivo.

Le persone sono sinceramente convinte che se si preoccuperanno a sufficienza della propria infelicità finiranno per trovare una soluzione, che basterà solo fare un ultimo sforzo, ragionare ancora un po’ sul problema… La ricerca invece mostra il contrario: di fatto rimuginare riduce la nostra capacità di risolvere i problemi. Ed è assolutamente inutile per gestire difficoltà emotive. È evidente: rimuginare è il problema, non la soluzione.

© Nicoletta Cinotti 2023 Mindfulness ed emozioni

Ultimi giorni per iscriversi al Protocollo MBCT, Mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive

Il Protocollo MBCT: Protocollo per la prevenzione delle ricadute depressive

 

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Un sangha di scrittura

07/09/2023 by nicoletta cinotti

Qualche anno fa – nel 2015 – ho dato vita ad un progetto di scrittura collaborativa che si svolgeva durante le 8 settimane di un protocollo mindfulness. Ogni settimana mandavo un capitolo ad un gruppo, in crescita costante, di lettori e contributors, che mi rispondevano su quel tema con qualcosa scritto da loro oppure poesie e citazioni. Settimana dopo settimana abbiamo messo a fuoco le 8 qualità della mindfulness che andiamo a coltivare con un protocollo. Quel progetto è diventato un libro in self-publishing e un i.book “Destinazione mindfulness: 56 giorni per la felicità”.

Qualche tempo dopo ho scoperto la Amherst Writers & Artists fondata da Pat Schneider: una comunità che sostiene il processo della scrittura in gruppo. O, se volete, è un vero e proprio sangha di scrittura.

AWA e il sangha di scrittura

Scrivere è un lavoro solitario. Eppure, una volta scritto, il desiderio di essere letti e apprezzati anche da altri è forte. È un desiderio forte e complicato perché su quel foglio non ci sono solo le nostre parole: c’è anche un pezzetto di noi. Meglio ancora, un pezzetto della nostra parte più vulnerabile, quella che non esponiamo mai. In realtà il segreto è proprio la chiave della scrittura. Le cose migliori che scriviamo – e che leggiamo – sono quelle che rivelano un lato nascosto, solo intravisto fino a che le parole non lo svelano. Siamo abituati a proteggere la nostra vulnerabilità lasciandola intima ma questo toglie un po’ di spessore al nostro Sè. Il nostro Sé ha bisogno di luce e di esposizione e sentire che parti di noi devono rimanere segrete gli toglie un po’ di vita.

Senza l’accesso al linguaggio, senza il diritto di esprimere ciò che uno deve esprimere, il Sé scompare. L’accesso alla parola è essenziale tanto per la libertà politica che per la realtà interiore della persona. Deena Metzger

Quando lavoriamo con la scrittura però abbiamo bisogno di preservare questo processo. Esporlo troppo presto lo mette a rischio: il rischio di non sostenere i feedback. Non esporlo affatto rende meno forte la nostra motivazione nei confronti dell’espressione creativa. È per l’insieme di queste ragioni che, ad un certo punto, Pat Schneider “costruisce” dei laboratori di scrittura con lo scopo di coltivare e nutrire una comunità di scrittori. La comunità AWA,  l’acronimo di Amherst Writers & Artists. 

Come nella tradizione buddista – dove il sangha, la comunità di pratica – sostiene la possibilità di meditare, così i laboratori di scrittura del suo metodo sostengono gli scrittori attraverso un lavoro di scrittura condivisa.

Come ci aiuta un gruppo di scrittura?

Ci sono alcuni aspetti che, in una scrittura di gruppo, sono facilitati. Proviamo a farne un elenco:

  • si impara dall’esperienza nostra e da quella degli altri
  • si esprime un parere da pari, senza presumere di essere gerarchicamente più bravi o migliori dei nostri compagni di corso
  • ci si addestra a correre dei rischi: esporre i propri scritti alla lettura degli altri è un rischio ma può essere fruttuoso se vogliamo correre anche il rischio di venir pubblicati
  • normalizza i rifiuti a cui ogni scrittore va incontro, anche se in forme diverse
  • scrivere con gli altri può aiutarti a credere nella tua arte. Lo so, forse pensi che gli artisti sono pochi. Direi che gli artisti emersi sono pochi ma, alla nascita, ognuno di noi è un artista. Come diceva Pablo Picasso, “Ci vuole una vita per imparare a dipingere come un bambino”. Ci vuole una vita per dare voce e spazio alla nostra parte creativa. E se proprio non vogliamo dargli spazio, almeno diamogli voce!
  • Scrivere aiuta a guarire fisicamente, come affermano James Pennebaker e Chip Sann, la scrittura espressiva – dare espressione scritta dei propri pensieri ed emozioni rispetto a situazioni dolorose o traumatiche – facilita uno stato di benessere personale. 
  • aiuta a superare lo stato di inibizione che si associa allo stress e alla paura.

Cos’è lo stato di inibizione?

L’inibizione è legata alla percezione che parti di noi non siano desiderabili o apprezzate dagli altri. Questo conduce a comportamenti di autocritica e autocensura. È un sentimento veicolato dalla vergogna per la nostra condizione e rivolge l’aggressività contro di noi. Tutti sperimentiamo condizioni di inibizione. Sia Alexander Lowen che Wilhelm Reich ritenevano che qualsiasi condizione di blocco muscolare porti ad una situazione di inibizione e di perdita della spontaneità. La formazione dell’inibizione è sempre la stessa, anche se diverse possono essere le condizioni che portano all’inibizione. Si ha la sensazione che ciò che proviamo non sia accettabile o apprezzato e iniziamo a prendere la distanza da quello che proviamo. Spesso attraverso il controllo, altrettanto spesso attraverso il biasimo o la riprovazione. Queste parti però continuano ad esistere e, periodicamente, si esprimono, a volte mettendoci in difficoltà.

Uno degli autori che più si è occupato della relazione tra scrittura e inibizione è James Pennebaker, uno psicologo americano che ha lungamente utilizzato i report dei risultati medici delle persone che venivano sottoposte alla macchina della verità. Come saprai questi dati comportano la registrazione delle variazioni a livello di battito cardiaco, pressione sanguigna, conduzione elettrica del palmo della mano. Il rilievo che però colpì Pennebaker durante le sue ricerche non fu l’emergere di queste alterazioni quanto il fatto che, quando la persona arriva a dire la verità, questi parametri fisiologici tornano nella norma anche se questo, in alcuni casi, vuol dire essere condannati al carcere. Da qui Pennebaker costruisce la sua ipotesi sulla relazione tra inibizione, disagio fisico ed emotivo/ espressione/miglioramento del benessere fisico ed emotivo.

Viviamo tempi eccezionali

Viviamo tempi eccezionali. Tempi in cui chiunque può condividere e pubblicare qualunque cosa e “contagiare” con le proprie emozioni il vicino di FB, o la propria rete di contatti. Come mai le nostre condivisioni possono essere così crude? Sicuramente questo è dovuto alla perdita di valore empatico che registriamo in situazioni digitali ma, d’altra parte, abbiamo anche il bisogno di esprimerci e di “buttare fuori” contenuti difficili o dolorosi.

Era necessario scrivere senza un perchè, senza per chi. Parole emesse da un pensiero  a guisa di tavola del naufrago. Alejandra Pizarnik

Quello che non devi scrivere

Deena Metzger racconta di un amico poeta che da anni non riusciva più a scrivere. La sua ispirazione era inaridita. Andò da lei a chiedere soccorso e Deena gli chiese una delle cose che anch’io faccio fare nella mia “grammatica esperenziale” di “Scrivere la mente”. Scrivi partendo dai sensi – gli disse. Come se fossi cieco ma avessi un udito incredibile. Come se fossi sordo m avessi un tatto sensibilissimo. Come se fosse il tuo corpo a scrivere e a gustare il mondo attraverso il palato. In ognuno di noi c’è una grammatica sensoriale, esperenziale che aspetta di vedere la luce. Ci muove dentro, come un’onda di inquietudine e di emozioni che trovano pace solo quando trovano parola. L’amico poeta era riluttante a seguire il suggerimento di Deena Metzger, aveva paura e non gli sembrava che emergessero contenuti utili. Forse era così ma Deena insistette e gli dette un bellissimo esercizio che riporto qui, per te:

Fai un elenco di quello che non devi scrivere. Elenca ciò che non devi scrivere perché:

  • non è abbastanza importante
  • è troppo privato
  • ti imbarazzerebbe parlarne
  • metterebbe in imbarazzo la tua famiglia o i tuoi amici
  • è un tabù
  • offenderebbe un ipotetico lettore

Inutile dire che il sistema funzionò e nel giro di qualche mese il poeta riprese a scrivere con ispirazione rinnovata ma, soprattutto, era cresciuta la sua comprensione nei confronti della propria vita: la poesia nutriva la vita e la sua vita nutriva la poesia mentre prima la sua poesia aveva impoverito la sua vita rendendola arida e desertica.

Il coraggio di creare

Ci vuole coraggio e pazzia a creare qualcosa. Eppure abbiamo bisogno tutti di quel coraggio e di quella pazzia. Abbiamo bisogno di rompere le condizioni dell’esilio da noi stessi. A volte scriviamo per riportare a casa parti esiliate di noi. A volte per dare voce a demoni che non ci fanno dormire. A volte perché, come il gallo, vogliamo cantare in ogni alba che viviamo. Non importa le ragioni per cui abbiamo questa spinta a creare. Sono tutte ragioni valide e importanti. A volte abbiamo bisogno del permesso di parlare. A volte del permesso di tacere e la creatività può offrirci quel silenzio da cui nascono le nostre parole.

© Nicoletta Cinotti 2023 Scrivere storie di guarigione. Seminario residenziale dal 29 Settembre al 1 Ottobre, Casa Cares, Reggello, (FI)

Scrivere storie di guarigione

 

 

 

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Mindfulness: Andare con il flusso

03/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

 Andare con il flusso

“La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non cercare di resistere a questi cambiamenti. Resistere crea solo dolore. Lascia che la realtà sia la realtà e che le cose prendano il loro corso naturale.” – Lao-Tzu

Come mai andare con il flusso, che sembra un’apparente contraddizione rispetto all’essere presenti, è, invece collegato con l’esperienza della mindfulness? Mi occupo da moltissimo tempo di depressione: un disturbo diffuso, endemico, sottile e tendente alla cronicizzazione. La depressione è stata, forse, una delle ragioni per cui mi sono appassionata alla bioenergetica e, successivamente, alla mindfulness. C’è un legame tra mindfulness e bioenergetica legato proprio alla depressione: ci deprimiamo  perchè ci illudiamo.

Costruiamo delle illusioni che – una volta illuminate dalla realtà – rivelano tutta la loro incapacità di renderci felici. Ci fanno sentire ancora di più in trappola. Il problema è che le nostre illusioni costruiscono concetti solidi della vita e ci lasciano immobili sulla riva della nostra esistenza. Quindi imparare qualcosa di più sul flusso ha una funzione primaria rispetto al superamento degli aspetti depressivi, perché nella depressione rimaniamo ancorati proprio a quello che ci fa soffrire.

C’è una storia che racconta bene questa condizione. È la storia di una capra che era legata con una corda ad un albero e poteva mangiare solo l’erba che cresceva sotto l’albero. Ad un certo punto capì che se avesse rosicchiato la corda sarebbe potuta andare anche molto più lontano e trovare molta erba nuova. Si mise d’impegno e rosicchiò la corda fino a romperla ma quando fu libera dalla corda ebbe paura di allontanarsi troppo e si accontentò di stare solo un po’ più distante dall’albero a cui era stata legata. Noi assomigliamo a quella capra. Ci ribelliamo al nostro star male ma ce ne allontaniamo con cautela.

Pema Chodron, una insegnante di meditazione molto nota, usa una metafora per esprimere questa paura della libertà che ci fa rimanere  arroccati nelle nostre posizioni. La vita è come un fiume, dice Pema. La nostra ricerca di sicurezza ci lascia sulla riva mentre la vita vera è il fiume. Tanto più riusciamo a vincere la paura, tanto più siamo in grado di stare nel flusso della nostra vita.

Il problema è che noi costruiamo, nel corso della nostra vita, moltissime “strutture”. Il nostro lavoro ha una struttura, così come le nostre relazioni, il nostro giro di frequentazioni, e le nostre modalità di stare in relazione. La struttura è necessaria ma nello stesso tempo può ancorarci troppo sulla riva e spingerci a provare rabbia, frustrazione e stress rispetto a ciò che sfugge dal nostro controllo. Le nostre strutture sono come le corde al collo della capra. Se siamo fortunati la corda è lunga. Se siamo sfortunati è una corda che ci permette a malapena di girare attorno all’albero. Queste strutture sono spesso tenute in vita dalla mente di povertà che ci fa temere la libertà e ci fa continuamente misurare con quello che manca anziché con quello che siamo davvero.

 

Come possiamo coltivare la nostra mente di abbondanza? Ma, soprattutto, siamo disponibili ad impegnarci o vorremmo solo soluzioni magiche che non richiedano il nostro impegno?
 

La soluzione semplice: imparare ad andare con il flusso.

“Sorridi, respira e vai lentamente.” – Thich Nhat Hanh

In questo senso cosa significa andare con il flusso? Significa accettare le cose che arrivano senza entrare in una modalità reattiva. Prendere la vita per quello che offre piuttosto che cercare di modificarla in modo che ti dia esattamente quello che desideri.

“Scorri con ciò che accade e lascia che la tua mente sia libera. Rimani centrato e accetta qualsiasi cosa tu stia facendo. Questo è la massima realizzazione.” – Chuang Tzu

Credo che, teoricamente, possiamo comprendere la bontà di questa affermazione. Realizzarla però è tutt’altro che semplice.

Ecco alcuni suggerimenti pratici:

Non possiamo controllare tutto.

Abbiamo certamente una sfera di influenza in cui possiamo determinare cosa accadrà ma la parte che sfugge al nostro controllo è davvero ampia. Non possiamo controllare come gli altri accoglieranno le nostre azioni, la nostra presenza, le nostre scelte. Possiamo fare molto per stare bene ma non possiamo evitare di ammalarci, di sbagliare, di essere aggrediti da qualcuno o da qualcosa. Tutto questo accade e non è una nostra responsabilità o un nostro fallimento. Come spesso invece tendiamo a pensare. La prima cosa che accade quando arriva un imprevisto, molto spesso è domandarsi dove abbiamo sbagliato. Innescando così una spirale depressiva o deprimente.

Avere una prospettiva.

Quando accade un imprevisto spesso perdiamo la prospettiva, intendendo per prospettiva quella distanza necessaria per rimanere in contatto con l’insieme delle cose e non con l’unico fatto che ci è caduto sui piedi. Insomma a volte cadiamo nel fiume, senza volerlo, e nuotiamo per tornare a riva senza domandarci se è davvero la cosa migliore da fare. A volte domandarci “Come vedrò questa cosa tra un giorno, una settimana, il prossimo anno?” può essere sufficiente per ristabilire una prospettiva più adeguata.

Figure of man with brain and red heart. Love and intelligence.

Il respiro.

La consapevolezza non esiste senza la possibilità di radicarsi nel respiro. Per molte buone ragioni che forse già conosci. Ne aggiungo una: la consapevolezza del respiro innesca il passaggio dall’attività simpatica all’attività parasimpatica del Sistema Nervoso Autonomo e questo permette un rallentamento che aumenta i processi di consapevolezza. Il respiro inoltre è un’ottima metafora del lasciar andare e dell’essere consapevoli. Infatti è un atto involontario – non possiamo decidere di non respirare – ma che può essere volontariamente modificato. E’ una pratica che, nella sua semplicità, ha una importanza centrale in moltissime tradizioni spirituali e in tutto il lavoro corporeo sulla consapevolezza.

Diventare consapevoli.

La consapevolezza è ormai un oggetto di attenzione primaria perché non esiste nessuna possibilità di cambiamento nei confronti di ciò di cui non siamo consapevoli. La consapevolezza ci restituisce un pò di lavoro da fare. Ci chiede, infatti, di portare l’attenzione all’interno e di osservare qual è il nostro modo di stare di fronte alle cose del mondo. Possiamo farlo in molti modi diversi. Certamente la consapevolezza richiede la capacità di percepire senza andare nella proliferazione mentale. Richiede di espandere il tempo della percezione e di osservare i processi – emotivi e mentali – che la percezione innesca. Su questo, nel sito, è possibile trovare moltissimo materiale. Non solo con le meditazioni ma anche con il lavoro corporeo.

I primi passi.

Se prendiamo un boccone troppo grosso rischiamo di soffocare. Se facciamo il passo più lungo della gamba, rischiamo di cadere. Ecco perché abbiamo bisogno della consapevolezza del respiro e della consapevolezza in generale: per fare passi che abbiano la dimensione del momento in cui ci troviamo. Questo rimanda anche al nostro amore per la velocità e alla nostra resistenza alla lentezza. In ogni caso la nostra vita durerà quello che durerà. La velocità e la lentezza non modificheranno la sua durata. Iniziamo con quello che ci sembra più accessibile e poi procediamo con le cose più difficili. Questo semplice atto di compassione verso se stessi renderà il cammino più gentile.

Tenere un diario.

Scrivere è un modo per coltivare un atteggiamento di distanza partecipata. Cosa vuol dire “distanza partecipata”? Vuol dire che non siamo tanto coinvolti da non poter riflettere. Siamo però abbastanza consapevoli da poter imparare qualcosa. Per molte persone scrivere è quasi peggio che tornare sui banchi di scuola. La buona notizia è che nessuno, a meno che non glielo permettiamo, questa volta leggerà quello che abbiamo scritto. Stavolta scriviamo solo per noi. Bastano poche note ogni giorno. Il nostro bisogno di espressione ne gioverà. Le parole, quando nascono dall’esperienza, sono una funzione della coscienza. E sono parte integrante della guarigione di ogni ferita.

La pratica.

Nessuno di noi impara qualcosa senza pratica. Certamente conosciamo la “fortuna del principiante” quella che fa sì che vinciamo la prima volta che giochiamo a dadi o a carte, anche giocatori molto più esperti di noi. Ma la fortuna del principiante dura una volta. Se vogliamo imparare davvero, abbiamo bisogno di insistere e ripetere. Impariamo così ad approfondire e coglierne le sfumatura, a padroneggiarla e poi a giocarla come se fossimo dei principianti. La pratica richiede anche di sviluppare pazienza per la nostra interessante propensione all’errore. Richiede di non scoraggiarsi e di non esaltarsi. Insomma la pratica è – in se stessa – già una esperienza di apprendimento. Se rinunciamo a praticare possiamo imparare a galleggiare ma non ad andare in profondità. E, anche questo va detto, la profondità spaventa e affascina insieme. Spesso la paura della profondità è una delle ragioni della resistenza alla pratica.

Riderci sopra.

Qualunque cosa ha un aspetto comico. A volte è difficile da trovare, altre volte è spontaneo coglierlo. Possiamo ridere della nostra incompetenza, della nostra depressione, dei nostri films, dell’assurdità della situazione. Fare questo richiede una certa quota di distacco e di prospettiva. Per questo arriva solo al settimo passo! E anche qui la pratica aiuta!

Meditare.

In fondo meditare è come tenere un diario. Ogni giorno, diamo un’occhiata a cosa sta nella nostra mente. Apriamo la finestra, diamo un pò d’aria ad una stanza che rimane, spesso, troppo chiusa. Guardiamo le cose da una prospettiva diversa e, al minimo, prendiamo una pausa e ci diamo un respiro consapevole. In alcuni casi può essere un modo diverso di guardare e stare in contatto con le proprie emozioni. Anche in questo caso ci sono molte meditazioni che puoi trovare nel libro Mindfulness ed emozioni. che possono essere accompagnate da un inquadramento teorico che funziona come una mappa.

Non possiamo controllare gli altri.

Questo passo è una variante, più difficile, del primo punto. In realtà è incredibile quanti sacrifici siamo disposti a fare per controllare le persone che amiamo e anche quelle che non amiamo. Molte volte infatti modifichiamo noi stessi, le nostre risposte, i nostri comportamenti, al fine di ottenere qualcosa di specifico da parte di qualcuno. In realtà non posso nemmeno dire che questo non funzioni mai. A volte funziona, a volte no. Ma ha un prezzo altissimo in termini di rispetto di noi e degli altri. Rinunciare a controllare gli altri è alla base della linea guida “Ascoltare profondamente – Dire la verità” del protocollo di Mindfulness Interpersonale. Un atto davvero rivoluzionario.

Accettare il cambiamento e l’imperfezione.

Tutti noi conosciamo il morso – acuto – del perfezionismo. Un morso che lascia segni profondi nella nostra anima. E’ il perfezionismo che ci intrappola nel dubbio. E’ il rifiuto del cambiamento che ci intrappola nel senso di colpa. Il fatto che tutto è in continuo cambiamento e in trasformazione è difficile da accettare e anche da vedere. Sappiamo che tutto è in trasformazione ma i nostri sensi non riescono a percepirlo. Ci alziamo e la nostra stanza, la nostra faccia, il nostro ufficio ci sembrano esattamente uguali al giorno prima. Non è così ma non riusciamo a vederlo e, quindi, a crederlo. E’ una percezione che sfugge ai nostri sensi e che possiamo recuperare solo se ci apriamo alla consapevolezza, momento per momento, senza giudicare. In questo modo, osservando le infinite sfumature del respiro, la diversità di ogni singolo respiro, di ogni singolo passo, possiamo riacquistare questa consapevolezza. Una consapevolezza che abbiamo molto più presente nell’infanzia perchè la memoria contribuisce a renderci distratti rispetto al cambiamento. In questo senso perdere un pò della nostra memoria non è un gran guaio. Forse, a volte mi domando, è per questo che invecchiando perdiamo la memoria? Per ritornare alla nostra mente del principiante e gustare di più ogni singolo momento delle nostre giornate?

Godersi la vita come flusso, gioia e bellezza.

Spesso giudichiamo la nostra esperienza sulla base di quanto aderisce o differisce dal nostro ideale. Maggiore è la discrepanza, più la guardiamo con sospetto. Le cose hanno una loro bellezza e noi – dobbiamo rassegnarci – non siamo i creatori del mondo, anche se lo vorremmo. Anche se avremmo un sacco di buone idee su come migliolarlo, è saggio prenderlo per come è, scoprirne la sua bellezza e la gioia che è nascosta in ogni singolo passo. La vita non è statica, è caotica e confusa per il nostro sguardo. La bellezza però è in ogni respiro e in ogni passo. Anche in quello che stiamo facendo proprio ora.

“Io accetto il caos, non sono sicuro se lui accetta me” – Bob Dylan

© Nicoletta Cinotti 2023

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Uscire dall’imbuto

27/08/2023 by nicoletta cinotti

La nostra mente di povertà funziona come un imbuto. Ci fa andare avanti in una direzione via via sempre più stretta. Siamo convinti che la direzione, la via d’uscita, sia davanti a noi. Man mano che procediamo tutto diventa più oppressivo ma noi andiamo avanti fino alla fine. A quel punto rimaniamo incastrati perché l’uscita è troppo piccola. Questa descrizione ti ricorda qualcosa? A me sì, ricorda la sensazione di oppressione che a volte provo nell’andare avanti a testa bassa. Allora qual è la via d’uscita? Finire tutto il lavoro che ho in programma di fare? Vedere il risultato di qualche nuovo progetto? No, in realtà questo non fa che aggiungere stress allo stress. La via d’uscita è girarsi indietro, fare retromarcia, uscire dalla mente di povertà per entrare, finalmente, nella mente di abbondanza.

La mente di povertà e la mente di abbondanza

La nostra mente di povertà ha tre braccia: la wanting mind, la wandering mind e la comparing mind che hanno un unico grande effetto: ci sintonizzazno su quello che manca e sul desiderio di ottenerlo ma funzionano come la carota messa davanti all’asino per farlo camminare. La carota penzola di fronte a lui ma è legata ad un bastone e, per quanto cammini, rimane sempre alla stessa distanza. E così funziona la nostra mente di povertà. Ci fa credere che se andiamo avanti a testa bassa – e soprattutto con determinazione – raggiungeremo quello che ci manca. Ma non arriviamo mai e rimaniamo incastrati in questo disegno ostile che ci fa vedere solo la mancanza.

Se ci giriamo indietro possiamo iniziare a fare esattamente l’opposto: possiamo incominciare a mettere a fuoco tutto quello che abbiamo. È come se volessiomo cucinare un piatto con gli ingredienti che non abbiamo comprato, avendo la dispensa piena di ingredienti che già abbiamo. È un cambiamento di prospettiva piccolo ma significativo: incominciare a ragionare in base alle risorse che possidiamo, come recita la poesia di oggi, la famosa, Poesia dei doni di Jorge Luis Borges.

Non dare nulla per scontato

La nostra mente di povertà dà per scontato tutto quello che abbiamo che acquista valore solo quando abbiamo paura di perderlo. Ci rendiamo conto di quanto amiamo qualcuno quando temiamo che la relazione finisca. Oppure ci accorgiamo di quanto è preziosa la salute ogni volta che ci ammaliamo. Questo succede perché perdita e mancanza non sono la stessa cosa. La mancanza la avvertiamo sulla base della nostra wanting mind, la mente che desidera e che ci rende ostaggi di quello che non abbiamo realizzato. È una sofferenza che raramente percepiamo con chiarezza, quella che viene dalla sensazione di non essere interi, dalla sensazione, spesso sottile e sconosciuta, che qualcosa manchi. A noi o alla nostra vita.Non la sentiamo perché viene coperta subito da qualcosa. Un acquisto, una sigaretta, un boccone di cibo. Qualsiasi cosa che, in quel momento, ci da l’idea che sarà in grado di farci sentire più felici.Quando affidiamo la nostra felicità e il nostro senso di interezza a qualcosa di esterno iniziamo a percorrere una strada che ci condurrà presto alla delusione. Non c’è nulla che il mondo possa darci per questa sottile sensazione di mancanza o di perdita.

Tradiamo noi stessi se pensiamo che avere quel pezzetto in più ci renderà felici. Vogliamo quello che non abbiamo, spinti dalla nostra wanting mind a cercare all’esterno anziché dentro. E quindi paragoniamo la nostra vita a quella altrui, la nostra storia a quella altrui, confondendo la felicità che vediamo negli altri con il possesso e rendendoci così ostaggio di quello che non abbiamo ancora realizzato.

Perché non rendere onore invece a quello che abbiamo già realizzato? Quando lo facciamo pratichiamo una goccia di gratitudine che distende il cuore e la mente.

 

Prova a riflettere su questi tre aspetti:

  • ho bisogno di qualcosa in più per essere grato o felice, un’atteggiamento che alimenta il senso di scarsità
  • non devo niente a nessuno, un atteggiamento che alimenta un fallace senso di invulnerabilità
  • mi merito di più (o non mi meritavo questo) come se per qualche misterioso fattore ci meritassimo solo cose belle e invece i guai fossero riservati solo agli altri

Adesso prova a fare il movimento opposto, a voltarti indietro, a camminare verso l’imboccatura larga dell’imbuto invece che dalla chiusura stretta:

  • di cosa potresti essere grato o grata adesso?
  • chi ti ha aiutato nei momenti difficili? Quali sono stati gli incontri, diretti o indiretti, che ti hanno aiutato ad essere come sei adesso? Includi i libri, i viaggi, le persone incontrate per caso e le amicizie durevoli
  • guarda quali sono stati i regali inaspettati i che la vita ti ha fatto. Quello che hai ricevuto senza aver fatto qualcosa di specifico per meritarlo. Se sposti lo sguardo a ciò che già hai puoi dire, onestamente, che nulla è stato un regalo e che tutto è stato meritato?

Coltivare la mente di abbondanza

Come mai la mente di abbondanza va coltivata e la mente di povertà sembra, invece, spontanea o naturale? La ragione è che la sopravvivenza è il nostro primo istinto, la gratitudine, la  sensazione di abbondanza invece richiedono un’attenzione intenzionale perchè siano percepite. Ecco perché la pratica di mindfulness è importante: perché ci aiuta a coltivare l’intenzionalità che non è la volontà di raggiungere quello che ci manca: è l’intenzionalità di coltivare stati mentali salutari perchè il vero danno della mente di povertà è che porta emozioni afflittive.

Cos’è che guida la nostra generosità, un’emozione tipica della nostra mente di abbondanza? Cos’è che ci permette di condividere con gli altri ciò che abbiamo?

Spesso mi faccio questa domanda e cerco di mettere in relazione i miei bisogni e il desiderio di condividere quello che posso condividere.

La chiave mi sembra che stia proprio nella percezione del bisogno. Nell’attimo in cui condividiamo con un’altra persona qualcosa che ci appartiene, in senso materiale o immateriale, in quel preciso momento il rumore del nostro bisogno è attenuato mentre è aumentato il volume della fiducia e del senso di comune umanità condivisa. Essere generosi è l’espressione della nostra mente dell’abbondanza, la percezione che possiamo dare perché ci sentiamo in una situazione di prosperità: è questo che ci rende generosi. Se, invece, la nostra mente di povertà è attiva – la mente che ci fa vedere solo quello che manca – il nostro bisogno, vero o presunto che sia, ci sembrerà sempre più grande del piacere di condividere.

La cosa interessante è che la generosità ha un doppio ritorno: condividendo nutriamo la percezione di abbondanza e abbassiamo la paura di perdere, di non avere, di non  essere abbastanza. Sembra una magia ma non è così: finiamo per assomigliare a quello che facciamo.

Il vero trucco, se di trucco possiamo parlare, è non scambiare la generosità per lusinga: non possiamo comprare nessuno con la nostra generosità. Né usare la generosità per lustrare la nostra immagine. Sarebbe una visione condizionata e condizionante di noi stessi che ci renderebbe ancora più vittime della mente di povertà. Essere generosi è il movimento che guida la nostra vita e la porta fuori dalla stagnazione. Ci sono infiniti atti di generosità nel nostro corpo: la generosità dell’incessante lavoro del cuore, dei polmoni, della pelle. Basta seguire il loro esempio per restituire alla nostra vita quel fluire di cui abbiamo bisogno per crescere. In fondo cos’è più generoso di una finestra?

© Nicoletta Cinotti 2023

 

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Lasciar andare la mente di povertà

17/08/2023 by nicoletta cinotti

Anche se le evidenze sono molte tendiamo a dimenticare che siamo animali, presumibilmente una forma evoluta di scimpanzè, con i quali condividiamo il 98-99% dei geni. Questo non significa che uno scimpanzè è al 98% un umano perché gli stessi geni funzionano diversamente a seconda di come sono organizzati ma che la nostra evoluzione è frutto di diversi compromessi, biologici, funzionali, culturali e mentali.

Forse ti domanderai in che modo questo è collegato alla nostra mente di povertà. Se osserviamo il modo di funzionare del nostro cervello dobbiamo riconoscere che si è evoluto in forme straordinariamente complesse ed efficaci ma, a volte, non del tutto adeguate alle necessità contemporanee. Per questa ragione possiamo trovare motivazioni contrastanti ed emozioni e desideri che non si integrano tra di loro. Il risultato è uno stato di ansia che ci può far sentire in pericolo anche quando non c’è niente di reale che ci minaccia.

Non diversamente dai nostri progenitori abbiamo motivazioni che ci spingono a cercare riparo, cibo, partner sessuali e che ci spingono ad avere un buon posto nella gerarchia del nostro gruppo di riferimento. Queste motivazioni sono primarie, appartengono alla nostra natura animale, contribuiscono a dare significato alle nostre scelte e possono promuovere stati di profondo benessere e di altrettanto profondo malessere se sentiamo che non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo fissati, come se da questo dipendesse, in senso letterale, la nostra sopravvivenza.

La mente che vaga o wandering mind

Pensa come sarà stato utile, per i nostri progenitori, avere una mente capace di cogliere i segnali di pericolo, sempre attiva a vagare per riconoscere nell’ambiente circostante opportunità di caccia o di riposo ma anche per cogliere tempestivamente i segnali di pericolo. Certo questo avrà messo anche loro in uno stato d’allerta ma, nella giungla un po’ d’allerta non fa mai male. Il punto è che la nostra wandering mind è ancora con noi e attiva il Default Mode Nwork, una parte del nostro cervello che “ci tiene sulle spine”, costantemente alla ricerca di ciò di cui dovremmo preoccuparci. Cose che richiedono azioni e che percepiamo come minacciose ma che non sono davvero presenti. Sono piuttosto frutto della nostra capacità di pensare, di prevedere il pericolo e di pianificare. Entra in funzione indipendentemente dalla nostra volontà quando la nostra attenzione non è ancorata a qualcosa di definito e tonifica costantemente diversi circuiti cerebrali. Può risvegliare il sistema difensivo oppure quello di ricerca delle risorse. Una cosa è certa: porta l’attenzione a quello che manca e non a quello che c’è. Come fare per spegnerla, visto che si accende quando siamo distratti? Basta riportare l’attenzione a qualcosa di specifico e definito. Questo permette alla mente di calmarsi e smettere di stimolare circuiti che possono farci sentire minacciati. La concentrazione può avere un effetto calmante proprio perché disattiva le emozioni ansiose del sistema difensivo e del sistema di ricerca delle risorse.

Quando la nostra attenzione si aggancia ad uno stimolo in nostro Default Mode Network si sposta su quello stimolo e cessano i pensieri rimuginativi e le preoccupazioni. In questo modo il rumore emotivo si abbassa. Se hai tanti pensieri però può essere difficile fermare l’attenzione su qualcosa e allora può essere una buona idea aumentare il “volume del corpo” con una attività fisica che già conosci e che ti impegni un po’ per la sua difficoltà. Alzando il volume del corpo abbassi quello della mente ed eserciti l’attenzione selettiva: stai attento ai movimenti e al loro corretto svolgimento. A quel punto, avrai un maggiore rilassamento e un maggior senso di apertura, ossia sarai disponibile, in modo naturale, per una consapevolezza aperta

La storia della scimmia, la banana e la wanting mind

Sappiamo tutti che le scimmie adorano le banane e che il loro saltare da un ramo all’altro, in eterno movimento, assomiglia al vagare della nostra mente che cerca di trovare qualcosa di buono o, almeno qualcosa di sicuro. Le scimmie sono astute, veloci e golose, così per catturarle viene usata una trappola particolare. La trappola consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato. La noce di cocco contiene una banana, che la scimmia può prendere infilando la mano nel buco. A quel punto la scimmia non può togliere la mano se non rinunciando a prendere la banana. Quella banana ha il costo della sua libertà e del suo desiderio. Se rimane incastrata può venir catturata, se lascia la banana rinuncia a qualcosa che desidera.
Quando la nostra wanting mind è attiva si comporta come quella scimmia. Ci fa andare con determinazione verso qualcosa che desideriamo e sottovaluta quale può essere il prezzo che paghiamo per realizzare quel desiderio perché rimaniamo incastrati nel desiderio e ci fa credere che rinunciare sarebbe un disastro. Possiamo desiderare che la nostra vita sia diversa, oppure che il nostro aspetto fisico o il nostro lavoro siano diversi, non ritenendoli sufficienti per portarci appagamento. Questo senso di povertà interiore e di mancanza è una delle manifestazioni della wanting mind che ci illude di aiutarci a realizzare una vita migliore e ci porta invece sempre più vicini ad un senso di mancanza e povertà.
I desideri alimentano la nostra abitudine alla distrazione, collegando la wandering mind con la wanting mind. La prima ci fa desiderare qualcosa – magari proprio mentre meditiamo – e la seconda inizia a cercare il modo per realizzarli. La nostra wanting mind è continuamente stimolata dalla pubblicità, dai social che alimentano i nostri desideri

La mente che paragona: l’ultimo aiutante della mente di povertà

La nostra mente di povertà è nutrita dalle emozioni del sistema difensivo, come rabbia e paura, e da alcune emozioni del sistema di ricerca delle risorse, come l’invidia e la gelosia. Invidia e gelosia sono emozioni ubiquitarie: possiamo provarle anche nei confronti di qualcuno che amiamo e la vicinanza affettiva è proprio una delle caratteristiche più specifiche di queste due emozioni difficili. Non proviamo gelosia o invidia per qualcuno che sentiamo molto lontano da noi e con una vita molto diversa dalla nostra. Le proviamo nei confronti del nostro vicino di casa che abita un appartamento simile al nostro o nei confronti dei nostri fratelli e sorelle o del nostro partner.
È difficile ammettere di provarle e per questa ragione spesso si accompagnano con vergogna e senso di colpa: non solo ci fanno sentire poveri ma addirittura miseri. L’invidia poi è considerata il sentimento opposto alla gratitudine: più proviamo invidia e meno ci sarà facile accedere a quella grande risorsa promotrice di cambiamento che è la gratitudine.
La gelosia e invidia, sono una miscela complicata di desiderio, risentimento, infelicità e apprensione, sono difficili anche da definire. La gelosia nasce dalla paura ci venga sottratto qualcuno o qualcosa che riteniamo che ci appartenga, mentre l’invidia ci fa desiderare qualcosa che appartiene ad un’altra persona. Sia invidia che gelosia sono emozioni del sistema di ricerca delle risorse e per questa
ragione se la nostra wanting mind è molto attiva, è probabile che prima o poi compaiano anche queste due emozioni nel nostro panorama interiore. Si accompagnano con le affermazioni più tipiche della nostra mente di povertà come, “lei o lui hanno questo e quest’altro e io non ho niente”; sappiamo che non è vero ma nel momento in cui lo pensiamo lo “sentiamo” aderente alla nostra realtà.
Il confronto, e quindi la comparing mind, potrebbe anche essere utile se ci spinge ad agire per conto nostro per migliorarci ma l’invidia è per sua natura ostile. La parola deriva dal latino invidere, considerare con cattiveria, rancore. A differenza della sua cugina, l’avidità, che è un’emozione tipica della wanting mind, l’invidia non si limita a desiderare l’oggetto del suo desiderio, ma macchia l’intero progetto, negando agli altri ciò che hanno e, quando tutto il resto fallisce, svalutando o distruggendo l’oggetto desiderato. È tra i sette peccati capitali ed è l’unica, tra queste, che non porta piacere a chi la prova tanto è considerata uno stato mentale non salutare.

Riconoscere la mente di povertà

A questo punto può sembrare inevitabile fare qualcosa per uscire dalla nostra mente di povertà. Nelle prossime settimane te ne parlerò ancora ma per adesso perché non riconoscere quando entra in funzione la nostra mente di povertà e guardarla con curiosità e interesse? Se ci rendiamo conto di come funziona per noi la wandering mind, la wanting mind e la comparing mind incominciamo ad avere qualche idea in più su come la nostra mente costruisce quel senso di infelicità senza ragione che tanto colpisce la nostra vita.

Tutta la pratica di mindfulness, nei diversi programmi e protocolli, ha questo nobile intento: aiutare a riconoscere, nominare, esplorare quello che succede senza identificarsi. Il vero cambiamento nasce quando, avendo compreso, visto, ascoltato nominato, facciamo anche l’ultimo passo: non ci identifichiamo e ci rendiamo conto che, tutto questo, è solo un gioco della nostra mente che è old fashion anche se è piena di upgrade!

Nicoletta Cinotti 2023

Corsi

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