Sono uscita di casa con animo allegro. Dopo pochi passi mi sono accorta che non avevo al polso l’orologio di mia madre. Un orologio che non si toglieva mai, nemmeno per dormire. Era l’orologio che io e i miei fratelli avevamo regalato a mio padre per il suo cinquantesimo compleanno. Lui non l’aveva amato perché apprezzava la tecnologia più avanzata e non aveva rinunciato al suo orologio digitale, mentre mia madre l’aveva indossato sempre.
Quando è morta ho chiesto ai miei fratelli di poterlo avere io e loro, generosamente, hanno capito le mie ragioni, assolutamente emotive, e me l’hanno lasciato.
Si diventa così animisti per affetto. Non è il valore economico che ci lega ad un oggetto ma il significato affettivo. Il lutto è fatto così, di oggetti che, improvvisamente, acquistano un grande valore. Succede per qualunque lutto. Ho visto partner distruggere reperti della relazione come se avessero trovato la soluzione al loro dolore. Un figlio distrutto perché aveva perso l’ultima lettera di sua madre. Potrei scrivere mille storie sul dolore degli oggetti perduti e sul senso degli oggetti dimenticati. Un paziente molto tempo prima di separarsi (e addirittura molto tempo prima di iniziare a parlare della sua crisi matrimoniale) dimenticò nel mio studio la vera nuziale. Perché nella vita incontriamo molte morti: separazioni, abbandoni e perdite ci allenano. Sono “piccole morti” da cui imparare. Imparare a continuare a vivere sapendo che il cambiamento non è qualcosa che possiamo controllare. C’è un dolore legato al cambiamento e un dolore legato all’invecchiamento, alla morte, alla malattia. Consideriamoli allenamenti per arrivare splendenti. Sembra che Michela Murgia lo stia facendo e ognuno di noi può farlo. Soprattutto se lasciamo andare la scaramanzia che abbiamo rispetto a questa parola e a tutte le parole collegate. Siamo animisti anche nella superstizione e le parole diventano oggetti concreti, tangibili e intoccabili.
La scelta di Michela
Sto leggendo il libro di Michela Murgia, Tre ciotole. L’ho preso perché sapevo che avrebbe parlato della sua malattia. È un libro in cui le parole sono come i sassi che trovi sulla spiaggia di Camogli, alcuni riescono a camminarci sopra con apparente anestesia. Io no, devo sempre mettermi delle ciabatte. Il libro di Michela Murgia declina, attraverso diverse storie, le nostre reazioni alle piccole e grandi morti della vita. È un libro discontinuo, scritto di getto (e si sente) ma ti lega alla lettura perché capisci che dentro c’è un pezzo del cuore della persona che l’ha scritto. Non scherzava con la penna quando scriveva. Ci metteva dentro quello che c’era. Non ha la raffinatezza di Matteo B. Bianchi nel raccontare il lutto e nemmeno la profondità di Joan Didion che estrae il suo lutto e lo trasforma in un succo prelibato e squisito ma ti incatena per la sua autenticità. Perché il punto, dovremmo avere il coraggio di riconoscerlo, è che le cose acquistano valore alla luce della perdita. Come dice Michela in un’intervista “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? Ho chiesto a Vogue di poter fare un viaggio sull’Orient Express. Posso andare alle sfilate di moda, farò un sacco di cose. Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così”. Ecco molto spesso, troppo spesso, diamo valore a quello che “abbiamo” nel momento in cui lo stiamo perdendo. Eppure odiamo il lutto, lo scansiamo, a volte facciamo finta che non ci sia.
L’ Harvard Business Review ha dedicato più di un articolo al tema del lutto perché, se non accettiamo di riconoscere il lutto che viviamo di fronte ai cambiamenti, rimaniamo paralizzati nella nostra creatività ma, soprattutto, rimaniamo bloccati nella nostra vita. Durante e dopo la pandemia globale, è emerso un senso di lutto collettivo. Il lutto è un sentimento multiplo che non possiamo evitare ma è necessario imparare a gestire. Le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione) ci aiutano a vivere e non sono – come molti temono – un preludio della fine ma un preludio per ogni nuovo inizio. L’alternativa al lutto è il ristagnare, aggrapparsi ad un passato che non c’è più e che non è in alcun modo ripetibile.
Passare dalla perdita per essere felici
Come forse saprai ho appena fatto un ritiro monastico. Un ritiro è, in qualche modo, un grande esercizio di perdita. Ci esercitiamo lasciando la solita vita, lasciando il cellulare, lasciando il modo consueto di comunicare, lasciando il contatto con la vita quotidiana. In un ritiro monastico lo facciamo in modo ancora più estremo ma in ogni caso, qualsiasi ritiro ha una quota di rinuncia dell’ordinario. Perché?
Proprio perché accettando di incontrare volutamente qualcosa che ci fa paura ci apriamo ad una nuova e diversa felicità: la felicità essenziale e non quella che proviamo nel momento in cui si realizza qualcosa di desiderato ma quella che è alla base ed è espressione della nostra mente originaria. Per conoscere quella felicità è necessario attraversare il vuoto, trovarsi, almeno per qualche attimo, nel mezzo del niente.
David Steind-Rast ne fa un sunto perfetto nella sua distinzione tra gratitude (gratitudine) e gratefulness (lascio le parole in inglese perché non c’è un corrispettivo in italiano). La gratitudine è un sentimento che sorge nel momento in cui riceviamo qualcosa che ci sorprende e che abbiamo desiderato. La gratefulness è uno stato di base che nasce dal sentirsi grati per qualsiasi cosa, incluso anche per quelle esperienze che potremmo definire di perdita. È una condizione mossa dal riconoscere la bellezza, la speranza, la qualità della nostra vita, la vulnerabilità, l’incertezza e l’impermanenza come condizioni e ragioni per essere grati.
La gratitudine è una cosa fantastica. Quando riceviamo qualcosa che desideriamo, quando le esperienze ci danno piacere o quando la vita va per il verso giusto, è naturale e significativo provare gratitudine (…) Immagina di poter avere una gratitudine incondizionata e duratura. Una gratitudine che non dipende da ciò che accade, ma che viene da dentro di noi. (…) Come tessuto connettivo tra i nostri momenti e le nostre esperienze, la gratitudine ci permette di trovare gratitudine nella “grande pienezza” della vita in tutti i suoi momenti reali di disordine e magnificenza. Kristi Nelson
Confondere l’ansia con il lutto anticipatorio
L’ansia è un’emozione che ci accompagna. Ne ho parlato molto in “Mindfulness ed emozioni”.
Il ruolo dell’ansia è principalmente quello di funzionare come attivatore di fronte alle situazioni nuove o come rilevatore di pericolosità. Per questa ragione può presentarsi in tutti i sistemi emotivi: possiamo provare ansia di fronte a un esame medico (emozione del sistema difensivo), ansia durante la partecipazione a un concorso (emozione del sistema di ricerca delle risorse), ansia prima di incontrare una persona che ci piace molto (ansia del sistema affiliativo). In qualche modo l’ansia è un interruttore dell’intensità emotiva. Quando una situazione è molto intensa diventiamo ansiosi. Se è un’ansia funzionale al compito attiva tutte le nostre risorse, ma può portarci alla paralisi quando è disfunzionale. E spesso confondiamo l’ansia con altre emozioni come la vergogna e il lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è quello che proviamo quando sappiamo che, prima o poi, accadrà un cambiamento non desiderato. È il lutto anticipatorio quello che sta alla base di tutto l’enorme marketing dei cosmetici (tra parentesi la cosa che mi è mancata di più nel ritiro è stata la mia crema viso!) e molte persone provano, nei confronti dei segni dell’invecchiamento, un vero e proprio senso di vergogna. Insomma, per quanto tentiamo di far finta di nulla, sappiamo che la vita è impermanente e che ogni cosa che può accadere, potrebbe succedere anche a noi: “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Non basta lo scudo della disapprovazione per i comportamenti sbagliati e l’arma della prevenzione per evitare che qualcosa accada. La protagonista del libro di Michela Murgia chiede, “cosa ho sbagliato?” nel momento in cui le viene comunicata la diagnosi di cancro come se sapere che è stato un errore rendesse l’evento più comprensibile.
Gli stati mentali
Adesso spero che non sarai arrivato o arrivata troppo depressa leggendo fino a qui perché non c’è una ragione per essere depressi ma, piuttosto, molti buoni motivi per essere consapevoli. Consapevoli di cosa? Forse penserai che ti stia rispondendo del “respiro” e invece ti sorprenderò dicendoti che l’invito, per stare nell’incertezza, nella vulnerabilità, nell’impermanenza è essere consapevoli del nostro stato mentale. Cercare di sperimentare gratefulness oltre che gratitudine, ricordarsi che la nostra tendenza a focalizzare l’attenzione sul pericolo ha bisogno di essere compensata da pari attenzione alla gioia (Trovi qui una pratica di meditazione su Mudita: la gioia). Non ci serve a nulla essere ansiosi su quello che potrebbe succedere. Ci serve, invece, tantissimo, essere aperti per poter contare sulle nostre risorse più che sulle nostre difese. Il lavoro è instabile, il clima è fuori controllo, non abbiamo molto potere sugli eventi importanti della nostra vita. Però possiamo scegliere di guardare con gratefulness al fatto che siamo vivi e gustarcela fino in fondo la nostra unica, preziosa e selvaggia vita.
Tornare indietro
Forse ti domanderai com’è andata a finire la storia dell’orologio. Ho fatto due passi avanti, senza orologio. Mi sono fermata. Mi sentivo nuda. Mi sono girata e ho fatto tre passi indietro, provavo desiderio. Sono rimasta un attimo lì, ferma tra l’andare avanti e tornare indietro. Poi ho deciso: sono tornata a prendere l’orologio. Mi sono concessa il lusso di riconoscere che avevo ancora bisogno di essere animista: non mi sono tolta quell’orologio nemmeno durante il ritiro anche se era stato consigliato di farlo. Non dobbiamo sforzarci di essere radicali ma di sapere dove siamo. Prima o poi lo lascerò.
So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti. Joan Didion
Perdere il lavoro
Ti rivelerò un segreto di Pulcinella: lavoro moltissimo con persone che perdono il lavoro e con persone che devono comunicare ad altre la perdita del lavoro. Il lavoro non è più una garanzia. In nessun settore, nemmeno per noi liberi professionisti. A volte fantastico di poter parlare direttamente alle persone che si devono confrontare con la minaccia della perdita del posto di lavoro e che, lottano, paradossalmente quanto inutilmente, per rimanere aggrappati. E più quel lavoro era ben remunerato – e meno indispensabile rimanere aggrappati – e più lottano. È la paura e la difficoltà a fare i conti con il lutto del cambiamento. Rimandare l’accettazione fa arrivare stanchi al cambiamento. Non farlo. Trasforma la memoria di tutto quello che hai ricevuto in gratitudine. Non lasciare che la memoria diventi una trappola che ti incatena al passato ma trasformala in una quantità di gratitudine che ti permetta di fare un passo avanti. Il passo che non volevi fare.
Inizia da molto vicino, non fare il secondo passo o il terzo, inizia dalla prima cosa, quella più facile, il passo che non vorresti fare. David Whyte
© Nicoletta Cinotti 2023
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