• Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina
Nicoletta Cinotti
  • Nicoletta
  • I miei libri
  • Blog
  • Contatti
  • Iscriviti
  • Mindfulness
    • Cos’è la Mindfulness
    • Protocollo MBSR
    • Protocollo MBCT
    • Il Protocollo di Mindfulness Interpersonale
    • Il Protocollo di Mindful Self-Compassion
    • Mindful Parenting
    • Mindfulness in azienda
  • Bioenergetica
    • Cos’è la Bioenergetica
    • L’importanza del gruppo
  • Corsi
  • Percorsi suggeriti
  • Centro Studi
  • Nicoletta
  • I miei libri
  • Blog
  • Contatti
  • Iscriviti
AccediCarrello

Mindful Self Compassion

Gratitudine, gratefulness e cambiamento

21/05/2023 by nicoletta cinotti

Sono uscita di casa con animo allegro. Dopo pochi passi mi sono accorta che non avevo al polso l’orologio di mia madre. Un orologio che non si toglieva mai, nemmeno per dormire. Era l’orologio che io e i miei fratelli avevamo regalato a mio padre per il suo cinquantesimo compleanno. Lui non l’aveva amato perché apprezzava la tecnologia più avanzata e non aveva rinunciato al suo orologio digitale, mentre mia madre l’aveva indossato sempre.

Quando è morta ho chiesto ai miei fratelli di poterlo avere io e loro, generosamente, hanno capito le mie ragioni, assolutamente emotive, e me l’hanno lasciato.

Si diventa così animisti per affetto. Non è il valore economico che ci lega ad un oggetto ma il significato affettivo. Il lutto è fatto così, di oggetti che, improvvisamente, acquistano un grande valore. Succede per qualunque lutto. Ho visto partner distruggere reperti della relazione come se avessero trovato la soluzione al loro dolore. Un figlio distrutto perché aveva perso l’ultima lettera di sua madre. Potrei scrivere mille storie sul dolore degli oggetti perduti e sul senso degli oggetti dimenticati. Un paziente molto tempo prima di separarsi (e addirittura molto tempo prima di iniziare a parlare della sua crisi matrimoniale) dimenticò nel mio studio la vera nuziale. Perché nella vita incontriamo molte morti: separazioni, abbandoni e perdite ci allenano. Sono “piccole morti” da cui imparare. Imparare a continuare a vivere sapendo che il cambiamento non è qualcosa che possiamo controllare. C’è un dolore legato al cambiamento e un dolore legato all’invecchiamento, alla morte, alla malattia. Consideriamoli allenamenti per arrivare splendenti. Sembra che Michela Murgia lo stia facendo e ognuno di noi può farlo. Soprattutto se lasciamo andare la scaramanzia che abbiamo rispetto a questa parola e a tutte le parole collegate. Siamo animisti anche nella superstizione e le parole diventano oggetti concreti, tangibili e intoccabili.

La scelta di Michela

Sto leggendo il libro di Michela Murgia, Tre ciotole. L’ho preso perché sapevo che avrebbe parlato della sua malattia. È un libro in cui le parole sono come i sassi che trovi sulla spiaggia di Camogli, alcuni riescono a camminarci sopra con apparente anestesia. Io no, devo sempre mettermi delle ciabatte. Il libro di Michela Murgia declina, attraverso diverse storie, le nostre reazioni alle piccole e grandi morti della vita. È un libro discontinuo, scritto di getto (e si sente) ma ti lega alla lettura perché capisci che dentro c’è un pezzo del cuore della persona che l’ha scritto. Non scherzava con la penna quando scriveva. Ci metteva dentro quello che c’era. Non ha la raffinatezza di Matteo B. Bianchi nel raccontare il lutto e nemmeno la profondità di Joan Didion che estrae il suo lutto e lo trasforma in un succo prelibato e squisito ma ti incatena per la sua autenticità. Perché il punto, dovremmo avere il coraggio di riconoscerlo, è che le cose acquistano valore alla luce della perdita. Come dice Michela in un’intervista “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? Ho chiesto a Vogue di poter fare un viaggio sull’Orient Express. Posso andare alle sfilate di moda, farò un sacco di cose. Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così”. Ecco molto spesso, troppo spesso, diamo valore a quello che “abbiamo” nel momento in cui lo stiamo perdendo. Eppure odiamo il lutto, lo scansiamo, a volte facciamo finta che non ci sia.

L’ Harvard Business Review ha dedicato più di un articolo al tema del lutto perché, se non accettiamo di riconoscere il lutto che viviamo di fronte ai cambiamenti, rimaniamo paralizzati nella nostra creatività ma, soprattutto, rimaniamo bloccati nella nostra vita. Durante e dopo la pandemia globale, è emerso un senso di lutto collettivo. Il lutto è un sentimento multiplo che non possiamo evitare ma è necessario imparare a gestire. Le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione) ci aiutano a vivere e non sono – come molti temono – un preludio della fine ma un preludio per ogni nuovo inizio. L’alternativa al lutto è il ristagnare, aggrapparsi ad un passato che non c’è più e che non è in alcun modo ripetibile.

Passare dalla perdita per essere felici

Come forse saprai ho appena fatto un ritiro monastico. Un ritiro è, in qualche modo, un grande esercizio di perdita. Ci esercitiamo lasciando la solita vita, lasciando il cellulare, lasciando il modo consueto di comunicare, lasciando il contatto con la vita quotidiana. In un ritiro monastico lo facciamo in modo ancora più estremo ma in ogni caso, qualsiasi ritiro ha una quota di rinuncia dell’ordinario. Perché?

Proprio perché accettando di incontrare volutamente qualcosa che ci fa paura ci apriamo ad una nuova e diversa felicità: la felicità essenziale e non quella che proviamo nel momento in cui si realizza qualcosa di desiderato ma quella che è alla base ed è espressione della nostra mente originaria. Per conoscere quella felicità è necessario attraversare il vuoto, trovarsi, almeno per qualche attimo, nel mezzo del niente.

David Steind-Rast ne fa un sunto perfetto nella sua distinzione tra gratitude (gratitudine) e gratefulness (lascio le parole in inglese perché non c’è un corrispettivo in italiano). La gratitudine è un sentimento che sorge nel momento in cui riceviamo qualcosa che ci sorprende e che abbiamo desiderato. La gratefulness è uno stato di base che nasce dal sentirsi grati per qualsiasi cosa, incluso anche per quelle esperienze che potremmo definire di perdita. È una condizione mossa dal riconoscere la bellezza, la speranza, la qualità della nostra vita, la vulnerabilità, l’incertezza e l’impermanenza come condizioni e ragioni per essere grati.

La gratitudine è una cosa fantastica. Quando riceviamo qualcosa che desideriamo, quando le esperienze ci danno piacere o quando la vita va per il verso giusto, è naturale e significativo provare gratitudine (…) Immagina di poter avere una gratitudine incondizionata e duratura. Una gratitudine che non dipende da ciò che accade, ma che viene da dentro di noi. (…) Come tessuto connettivo tra i nostri momenti e le nostre esperienze, la gratitudine ci permette di trovare gratitudine nella “grande pienezza” della vita in tutti i suoi momenti reali di disordine e magnificenza. Kristi Nelson

Confondere l’ansia con il lutto anticipatorio

L’ansia è un’emozione che ci accompagna. Ne ho parlato molto in “Mindfulness ed emozioni”.

Il ruolo dell’ansia è principalmente quello di funzionare come attivatore di fronte alle situazioni nuove o come rilevatore di pericolosità. Per questa ragione può presentarsi in tutti i sistemi emotivi: possiamo provare ansia di fronte a un esame medico (emozione del sistema difensivo), ansia durante la partecipazione a un concorso (emozione del sistema di ricerca delle risorse), ansia prima di incontrare una persona che ci piace molto (ansia del sistema affiliativo). In qualche modo l’ansia è un interruttore dell’intensità emotiva. Quando una situazione è molto intensa diventiamo ansiosi. Se è un’ansia funzionale al compito attiva tutte le nostre risorse, ma può portarci alla paralisi quando è disfunzionale. E spesso confondiamo l’ansia con altre emozioni come la vergogna e il lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è quello che proviamo quando sappiamo che, prima o poi, accadrà un cambiamento non desiderato. È il lutto anticipatorio quello che sta alla base di tutto l’enorme marketing dei cosmetici (tra parentesi la cosa che mi è mancata di più nel ritiro è stata la mia crema viso!) e molte persone provano, nei confronti dei segni dell’invecchiamento, un vero e proprio senso di vergogna. Insomma, per quanto tentiamo di far finta di nulla, sappiamo che la vita è impermanente e che ogni cosa che può accadere, potrebbe succedere anche a noi: “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Non basta lo scudo della disapprovazione per i comportamenti sbagliati e l’arma della prevenzione per evitare che qualcosa accada. La protagonista del libro di Michela Murgia chiede, “cosa ho sbagliato?” nel momento in cui le viene comunicata la diagnosi di cancro come se sapere che è stato un errore rendesse l’evento più comprensibile.

Gli stati mentali

Adesso spero che non sarai arrivato o arrivata troppo depressa leggendo fino a qui perché non c’è una ragione per essere depressi ma, piuttosto, molti buoni motivi per essere consapevoli. Consapevoli di cosa? Forse penserai che ti stia rispondendo del “respiro” e invece ti sorprenderò dicendoti che l’invito, per stare nell’incertezza, nella vulnerabilità, nell’impermanenza è essere consapevoli del nostro stato mentale. Cercare di sperimentare gratefulness oltre che gratitudine, ricordarsi che la nostra tendenza a focalizzare l’attenzione sul pericolo ha bisogno di essere compensata da pari attenzione alla gioia (Trovi qui una pratica di meditazione su Mudita: la gioia). Non ci serve a nulla essere ansiosi su quello che potrebbe succedere. Ci serve, invece, tantissimo, essere aperti per poter contare sulle nostre risorse più che sulle nostre difese. Il lavoro è instabile, il clima è fuori controllo, non abbiamo molto potere sugli eventi importanti della nostra vita. Però possiamo scegliere di guardare con gratefulness al fatto che siamo vivi e gustarcela fino in fondo la nostra unica, preziosa e selvaggia vita.

Tornare indietro

Forse ti domanderai com’è andata a finire la storia dell’orologio. Ho fatto due passi avanti, senza orologio. Mi sono fermata. Mi sentivo nuda. Mi sono girata e ho fatto tre passi indietro, provavo desiderio. Sono rimasta un attimo lì, ferma tra l’andare avanti e tornare indietro. Poi ho deciso: sono tornata a prendere l’orologio. Mi sono concessa il lusso di riconoscere che avevo ancora bisogno di essere animista: non mi sono tolta quell’orologio nemmeno durante il ritiro anche se era stato consigliato di farlo. Non dobbiamo sforzarci di essere radicali ma di sapere dove siamo. Prima o poi lo lascerò.

So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti. Joan Didion

Perdere il lavoro

Ti rivelerò un segreto di Pulcinella: lavoro moltissimo con persone che perdono il lavoro e con persone che devono comunicare ad altre la perdita del lavoro. Il lavoro non è più una garanzia. In nessun settore, nemmeno per noi liberi professionisti. A volte fantastico di poter parlare direttamente alle persone che si devono confrontare con la minaccia della perdita del posto di lavoro e che, lottano, paradossalmente quanto inutilmente, per rimanere aggrappati. E più quel lavoro era ben remunerato – e meno indispensabile rimanere aggrappati – e più lottano. È la paura e la difficoltà a fare i conti con il lutto del cambiamento. Rimandare l’accettazione fa arrivare stanchi al cambiamento. Non farlo. Trasforma la memoria di tutto quello che hai ricevuto in gratitudine. Non lasciare che la memoria diventi una trappola che ti incatena al passato ma trasformala in una quantità di gratitudine che ti permetta di fare un passo avanti. Il passo che non volevi fare.

Inizia da molto vicino, non fare il secondo passo o il terzo, inizia dalla prima cosa, quella più facile, il passo che non vorresti fare. David Whyte

© Nicoletta Cinotti 2023

Eventi correlati

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion/

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion-formula-intensiva-residenziale/

Archiviato in:approfondimenti, esplora, Mindful Self Compassion, mindfulness Contrassegnato con: Bioenergetica e Mindfulness, destinazione mindfulness, felicità, gratefulness, gratitudine, meditazione chiavari, meditazione genova, mindful self-compassion, mindfulness chiavari, mindfulness genova, programma di mindful self-compassion

La compassione

14/05/2023 by master Lascia un commento

La compassione nei confronti di se stessi si realizza attorno a tre elementi essenziali: la gentilezza che trasforma la durezza e la critica giudicante in comprensione; il riconoscimento della nostra umanità condivisa, ossia l’esperienza di connessione con gli altri e con la vita al posto del senso di alienazione ed isolamento; e, infine, la Mindfulness, ossia la capacità di tenere la nostra esperienza in una consapevolezza equilibrata tra interno ed esterno, anziché esagerare o ignorare il nostro dolore o disagio. È necessario combinare questi tre elementi per espandere la nostra capacità di self compassion.

La gentilezza

Nella nostra cultura è posta molta enfasi sulla necessità di essere gentili nei confronti degli altri. Una gentilezza però che rischia di essere più un atto formale che sostanziale. Inoltre siamo quasi totalmente distratti dall’idea di nutrire una gentilezza nei confronti di noi stessi. Anzi, accogliamo i nostri errori con asprezza, vergogna e in qualche modo riteniamo assurda l’idea di confortarci. Eppure lo sviluppo di una matura capacità di regolazione delle nostre emozioni, passa proprio attraverso la crescita della nostra capacità di consolarci. La capacità di confortarci è uno dei segnali di maturità emotiva dei bambini: una abilità che alla nascita è quasi totalmente affidata alla cura dell’ambiente esterno. Da adulti, la nostra incapacità di gentilezza nei confronti di noi stessi, si traduce in una serie di richieste – implicite o esplicite – rivolte agli altri. Ci aspettiamo che l’esternazione del nostro dolore susciti cura, attenzione, comprensione e, infine, gentilezza. Questa aspettativa rimane spesso delusa: perché da adulti pensiamo che ognuno sia capace di confortare se stesso e di non dipendere dall’intervento esterno. Questo non significa che non dobbiamo condividere o aiutare: significa piuttosto che non dobbiamo affidare agli altri quello che non abbiamo nemmeno tentato di fare: ossia non dovremmo affidare alla regolazione interattiva le nostre emozioni, se non dopo che abbiamo visto che esiste una sostanziale incapacità di autoregolazione

La gentilezza e il trauma

Le nostre emozioni sono fonti importanti di informazioni: anziché giudicarle dovremmo guardarle con interesse e curiosità e imparare come confortarci e come attivarci, quando siamo troppo ritirati. In ogni caso le emozioni suscitano risposte anche negli altri e sono suscitate dai nostri scambi relazionali. Anche quello che accade nella relazione con gli altri ha l’effetto di attivarci – positivamente o eccessivamente – o confortarci ma l’aspettativa è che un adulto non dipenda troppo dai processi interattivi per il conforto e l’attivazione e che ci sia un equilibrio dinamico tra quanto contiamo su di noi – autoregolazione – e quanto contiamo sugli altri – regolazione interattiva.

Quando siamo sottoposti ad un trauma, fisico o emotivo, questo equilibrio si rompe e uno degli effetti del trauma è che esageriamo in uno dei due sensi: o diventiamo eccessivamente dipendenti da qualcuno o diventiamo eccessivamente ritirati. Ristabilire l’equilibrio tra apertura relazionale e ritiro è uno degli elementi centrali della cura. Questo processo di ri-equilibrio è fortemente sostenuto dalla gentilezza nei confronti di se stessi. In questo caso la gentilezza riparte dal centro – il proprio Sé – per riportarci ad un livello adeguato di apertura relazionale.
Gentilezza significa smettere di giudicarci per ciò che siamo o che abbiamo fatto per comprendere le nostre fobie e fallimenti. Comprende il vedere chiaramente come e quanto ci facciamo male e comprende un coinvolgimento attivo per confortarci, riconoscendo la difficoltà che stiamo attraversando non come una colpa ma come una offerta di pace dalla guerra interiore a cui ci spinge il perfezionismo.

La regolazione interattiva e il senso della nostro comune umanità

Quando giudichiamo i nostri fallimenti o la nostra inadeguatezza, rinforziamo la sensazione di essere separati e isolati dagli altri. Rinforziamo i nostri confini e lo facciamo sulla base di una sensazione di limite relativo a noi stessi. Chi siamo e chi pensiamo di essere però è strettamente interconnesso con la nostra relazione con gli altri e questo rende il nostro biasimo abbastanza ambiguo.
Se guardiamo ai nostri fallimenti personali spesso possiamo accorgerci che non sono una vera “scelta” ma un insieme connesso alle circostanze esterne. Non abbiamo il controllo completo sulle nostre azioni ma queste sono spesso l’espressione di un insieme di circostanze che si realizzano in un preciso momento. Questa interconnessione tra noi e gli altri e i fatti della vita ci spaventa perché ci spinge a riconoscere che non abbiamo il controllo sulla nostra vita, su ciò che siamo e su come vanno le cose.
Quando riconosciamo che ciò che ci accade è frutto di un insieme infinito di elementi, spesso poco identificabili, non abbiamo bisogno di prenderci “la colpa personale” per come sono andate le cose. Non abbiamo bisogno di biasimare noi stessi o gli altri Da questa comprensione della profonda e misteriosa interconnessione di cause possiamo far sorgere un vero sentimento di comprensione e compassione nei confronti delle nostre inadeguatezze e dei nostri fallimenti.
A questo punto è importante distinguere tra giudizio e discriminazione. La discriminazione ci permette di riconoscere le cose così come sono e di interrompere il ciclo di conflitto e sofferenza legato all’errore. Il giudizio tenta invece di semplificare le cose attraverso delle etichette generali che non colgono la complessità del cambiamento ma fotografano una situazione e la espandono per sempre. La discriminazione ci permette di cogliere la complessità, le cause che hanno prodotto una situazione e anche la loro possibilità di sviluppo futuro.

Il terzo ingrediente: la mindfulness

Il terzo elemento della compassione verso se stessi è la mindfulness: una visione chiara e non giudicante, accettando ciò che è, cos’ì com’è, nel momento presente. La mindfulness è la base perché è un percorso di consapevolezza non reattiva. Quando nella nostra vita arriva un dolore o un fallimento, tendiamo a focalizzarci sull’evento, anziché su cosa l’evento ha provocato nel nostro mondo interno. Nel momento in cui spostiamo la nostra attenzione dall’evento, a cosa l’evento ci ha suscitato, compiamo un atto rivoluzionario: gentile e consapevole insieme. Ci apriamo la possibilità di un nuovo sentimento di comprensione e compassione.

A cura di Nicoletta Cinotti

Archiviato in:approfondimenti, esplora, Mindful Self Compassion Contrassegnato con: consapevolezza, mindful self-compassion, pratica di mindfulness, pratica formale, programma di mindful self-compassion, protocolli mindfulness

Radical self-care

04/12/2022 by nicoletta cinotti

[box]Quando i leader sono sopraffatti dalla stanchezza ed esauriti, iniziano a consumare l’energia delle persone che sono accanto a loro. Andrew Swinand[/box]

 

 

Riconoscere il burn out

Nel tempo ho imparato a riconoscere il mio burn out perché ognuno di noi ha modi personali per entrare in burn out. Il mio è sentire la testa confusa e iniziare le cose senza portarle a termine. Perdo efficienza e divento un po’ inconcludente. A volte me ne accorgo subito, a volte ci metto parecchio tempo per registrare questo segnale. Perché? Perchè veniamo educati da un caregiver (letteralmente qualcuno che si prende cura di noi) e impariamo molto lentamente a prenderci cura di noi emotivamente. Direi che la capacità di prendersi cura di noi emotivamente è quasi completamente lasciata alla libera iniziativa e all’esempio. Impariamo dai nostri genitori come trattare le emozioni difficili e se sono stati capaci di affrontarle bene. Altrimenti ereditiamo le loro difficoltà!

 

L’impegno di curarci

 

Per ristabilire l’equilibrio perduto nello stress  abbiamo bisogno di movimento, consapevolezza dei limiti e meditazione. Già questo breve elenco potrebbe sembrarci piuttosto noioso e qui entriamo nel primo equivoco del prendersi cura di noi: lo troviamo un dovere anzichè un piacere. Riteniamo divertente giocare a tennis ma tutto il divertimento svanisce se pensiamo che lo dobbiamo fare per prenderci cura di noi. Come mai?

Nello stile educativo in cui siamo cresciuti l’altruismo viene come diretta conseguenza di un’educazione in cui sono stati i nostri genitori ad occuparci di noi. Pensare che prenderci cura di noi significhi mettere avanti le proprie necessità sembra un atto paradossale, illogico ed egoistico. Eppure è proprio così: non possiamo dare nulla se siamo scarichi come una pila esausta. E non possiamo sperare che qualcuno si accorga che siamo esauriti e che ci venga in soccorso come sogno d’amore. Non funziona più da quando siamo usciti di casa e, in alcuni casi, avrebbe potuto funzionare poco anche in casa

Ma cos’è che trasforma la cura di sé in un dovere? È la stessa differenza che c’è tra prendersi un bicchiere d’acqua o avere qualcuno che ti porta un bicchiere d’acqua. Se ci limitiamo al gesto preferiamo che ci venga portato ma se in quel gesto che facciamo per noi c’è affetto e cura, se lo facciamo perché sappiamo rispondere ad un nostro bisogno, non diventa più gratificante?

 

Radical self-care

Radical self-care (potremmo tradurlo con “cura di sè radicale) non significa entrare in una spirale egoistica ed auto-centrata. Se siamo esauriti non diamo aiuto a nessuno. È piuttosto un atteggiamento altruista che ci permette di essere pronti e freschi, capaci di dare la nostra piena attenzione agli altri perchè abbiamo pieno accesso alle nostre risorse.

Anche in natura osserviamo ogni giorno atti di radical self-care: perdere le foglie per i sempreverdi, radicarsi più in profondità per ogni albero, lasciare che alcuni rami si secchino e abbandonare i fiori quando non ricevono abbastanza acqua: non è altro che una radical self-care.

Quali sono gli elementi?:

  • prendersi una pausa
  • praticare gratitudine per non entrare nel delirio “faccio tutto da sola/o”
  • anziché rifugiarsi nella distrazione (qualsiasi cosa significhi per te) osservare attentamente quello che ti circonda
  • riprendere i sensi: odori, suoni, sapori, tatto

Le ricerche di Richard Davidson

Richard Davidson è un neuro-scienziato che ha collaborato anche con Jon Kabat-Zinn nelle ricerche sull’efficacia del protocollo MBSR e la sua fama nell’area della regolazione delle emozioni e della mindfulness è ormai internazionalmente riconosciuta.

Le sue ricerche sulla corteccia pre-frontale hanno dimostrato che l’uso estensivo della tecnologia aumenta la frequenza e l’intensità delle reazioni allo stress.  Mediamente tocchiamo i nostri cellulare 2617 volte al giorno. Il nostro corpo però è fisiologicamente conformato per rispondere ad un numero minore di stimoli e come risultato ci ritroviamo a confrontarci con un livello di attivazione molto più alto. La sovra-stimolazione crea un rinforzo alla memoria di eventi negativi. Insomma siamo noi stessi a crearci stress, senza volerlo, solo per il nostro bisogno di controllo e per la nostra paura di perdere qualcosa.

Le ricerche di Richard Davidson suggeriscono che 20 minuti di meditazione tre volte alla settimana sono una “dose”sufficiente per maneggiare lo stress da sovrastimolazione e possono essere accompagnati da piccoli snack di riposo:

  • tre respiri consapevoli tra un’attività e un’altra
  • qualche movimento di stretching
  • una brevissima meditazione camminata

 

 

Avere obiettivi di dimensioni ridotte

Spesso pretendiamo che la nostra meditazione sia perfetta – mente sgombra e stato di pace – oppure che sia lunga – 45 minuti, un’ora almeno. Questa idea è il modo migliore per non meditare affatto. Perché non inserire una pausa tra un’attività e l’altra magari di tre respiri?

Oppure perché non diminuire e tagliare qualche “ramo secco” alla nostra attività? È proprio necessario fare tutto quello che abbiamo in mente di fare?

La stessa cosa vale anche per il movimento. Sono stata torturata per un po’ di tempo dall’idea dei fatidici 10000 passi al giorno. Al massimo riuscivo a farli il sabato e la domenica. Adesso ho capito che è meglio se cerco di camminare ogni volta che posso, come posso: lenta, veloce, allegra, triste…non devo diventare la migliore maratoneta sessantenne del mondo! Cinque minuti di attività fisica sono sempre qualcosa in più di non fare attività fisica.

La capacità di distaccarsi dai risultati

Per tanto tempo ho provato un’enorme quantità di vergogna per i miei risultati sotto standard. Era un dolore quasi fisico che mi rendeva impacciata, goffa e mi spingeva ad impegnarmi di più.

Ho sempre in mente come vorrei essere e non so davvero se riuscirò a fare quello che ho in mente ma ho imparato a fare i conti con l’intenzione. Cerco di avere un’intenzione chiara e di misurare quello che accade non sulla base del risultato ma anche su come quel risultato può arricchire la mia intenzione e renderla più chiara. È una forma di sospensione del giudizio che mi aiuta ad affrontare il mio giudice interiore e tutta la corte di parti di me che si aspettano il meglio. Ho capito che sbaglio da professionista e che vorrei essere una professionista senza sbagli ma non ci riesco.

Per ora faccio un atto di gentilezza con la mia mente distratta. Ogni volta che vaga la riporto a casa senza rimprovero ma più gentilmente possibile. Chi vorrebbe vivere in una casa dove ti maltrattano?

 

Mettere i confini con gentilezza

Una radical self-care a volte richiede anche qualcosa di più relazionale che meditare, fare movimento o tornare ai sensi. Molto spesso richiede anche di pronunciare una piccola parola, apparentemente semplice ma in realtà complessa che è dire no. Possiamo addolcirla con un “No, grazie” ma dire no significa che corriamo il rischio di entrare nel territorio della disapprovazione. Un rischio che vale sempre la pena correre se siamo senza risorse o con il serbatoio in riserva: le ultime energie non vanno sprecate. Metaforicamente non sappiamo quando avremo modo di ricaricarci e quindi è importante saper dire no. Un’attività banale ma che diventa difficile quanto più siamo stressati. Quando siamo stressati infatti le nostre emozioni affiliative diminuiscono e dire di sì, in quelle situazioni, è, in realtà, un modo per “sbarazzarci” della persona oltre che del problema, e si basa sul fatto che ci siamo “sbarazzati” anche di noi, perdendo rispetto e cura della nostra stanchezza.

Allora potremmo domandarci quante risorse abbiamo e quante risorse quella persona ci chiede e rispondere a partire proprio da lì…”ti aiuterei volentieri ma in questo momento sono troppo occupata/occupato…oppure stanco/stanca”o, se siamo davvero coraggiosi potremmo anche dirgli la verità: non posso perchè non ne ho le forze.

La verità non ci fa cadere nel territorio della disapprovazione ma nel territorio della condivisione. E se il nostro interlocutore non sa entrare in quel territorio è una ragione di più per dire di no!

© Nicoletta Cinotti 2022

 Eventi correlati

dal 25 Maggio 2023. Serata di presentazione il 15 Maggio alle 21

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion/

Il programma di Mindful Self-compassion intensivo e residenziale dal 28 Giugno al 2 Luglio. Serata di presentazione il 15 Giugno

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/il-programma-di-mindful-self-compassion-formula-intensiva-residenziale/

 

 

Archiviato in:approfondimenti, esplora, Mindful Self Compassion, mindfulness

La misura dell’appartenenza

14/11/2022 by nicoletta cinotti 3 commenti

In fondo a ciascuno di noi non credo ci sia una paura più grande dell’esclusione. Sentire di non appartenere, di non avere dimora, significava – ai tempi primitivi – essere esposti, essere a rischio della stessa vita.

Oggi riecheggia un dolore e una paura altrettanto profonda. Se qualcuno ci esclude abbiamo subito bisogno di appartenere a qualcosa di diverso. Ma appartenere.

Appartenere non significa essere posseduti: significa essere riconosciuti e compresi da qualcuno. Riconoscersi e comprendere un gruppo di persone o una singola persona.

Così, quando qualcuno si sente riconosciuto, sente che ho visto il suo bisogno di appartenere, accade, ogni volta un piccolo miracolo. Sento il diaframma che si abbassa, un’aria di sollievo che si allarga e nessuno vorrebbe più andarsene via da lì. Da quelle due poltrone una di fronte all’altra. Ma, soprattutto dal luogo dell’appartenenza. Né io, né l’altro. Perchè appartenere è sempre reciproco, a differenza di possedere che, invece, è esclusivo.

Quell’appartenenza mi sembra che restituisca il senso di tutto il mio lavoro. E il suo scopo.

E lascia un meraviglioso sentimento di libertà.

Ecco perché amo la pratica di Metta: perché afferma che, per quanto si possa essere stranieri e lontani apparteniamo ad un comune destino e desideriamo la stessa cosa. Ecco perché amo il Reparenting: perché non voglio lasciare tutto lo spazio al critico interiore, quella parte di noi che ci fa credere che, per appartenere, sia necessario essere perfetti. la perfezione non è la misura dell’appartenenza. è l’impronta della persecuzione.

Possa tu ascoltare il tuo desiderio di libertà. Possano i confini del tuo appartenere essere sufficientemente generosi per i tuoi sogni. Possa tu svegliarti ogni giorno con una voce benevola che sussurra nel tuo cuore. Possa tu trovare armonia tra anima e vita.

Possa il santuario della tua anima non essere mai infestato. Possa tu conoscere l’eterno desiderio che vive nel cuore del tempo. Possa esserci gentilezza nel tuo sguardo quando ti guardi dentro. Possa tu non creare barriere tra la luce e te stesso. Possa tu permettere alla bellezza selvaggia del mondo invisibile di raccoglierti, prendersi cura di te ed abbracciarti nell’appartenere.

John O Donohue

Pratica di mindfulness: La pratica di metta e il critico interiore

 

Il protocollo di Mindful Self-compassion settimanale online

Dal 25 Maggio alle 19

Il protocollo di Mindful Self-compassion Intensivo e residenziale

28 Giugno 2 luglio con Nicoletta Cinotti e Paolo Scocco

© Nicoletta Cinotti

Archiviato in:Mindful Self Compassion, mindfulness continuum Contrassegnato con: Bioenergetica e Mindfulness, Centro Studi, lavorare con le emozioni, meditazione di consapevolezza, pratica formale, pratica informale, protocollo MBCT, protocollo mbsr, regolazione degli affetti

La gentilezza e le relazioni

13/11/2022 by nicoletta cinotti

[box] “Fra le dolcezze delle avversità, e lasciatemi dire che sono state numerose, ho trovato la più dolce, la più preziosa di tutte, è la lezione che ho imparato sul valore della gentilezza. Ogni gentilezza ricevuta, grande o piccola, mi ha convinta che non ce ne sarà mai abbastanza nel nostro mondo. Essere gentili significa rispondere con sensibilità e calore umano alle speranze e ai bisogni del prossimo. Perfino il più piccolo gesto di gentilezza può illuminare un cuore incattivito. La gentilezza può cambiare la vita delle persone.Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace[/box]

 

Portare la gentilezza nella relazione

La citazione che apre questo articolo è forte perché sappiamo che è pronunciata da una donna che ha vissuto la violenza, la limitazione della libertà, in modo persecutorio e difficile. 

Fa sorgere una domanda inevitabile: è possibile portare sempre gentilezza? Quali sono i limiti relazionali oltre i quali la gentilezza deve lasciare il passo alla protezione? Qual è il conflitto sano e tollerabile in una relazione?

Sono domande apparentemente più piccole di quelle suscitate dall’esperienza di Aung eppure sappiamo che la pace nel mondo nasce dalla pace dentro di noi e dalla pace nelle nostre relazioni.

In effetti molto spesso nelle relazioni affettive viviamo situazioni di conflitto, tensione, dolore che possono mettere in dubbio l’opportunità di rimanere presenti

In una relazione spenta, in cui non c’è quasi più traccia dell’intimità e dello slancio iniziale, il conflitto, l’irritazione, la rabbia sono pur sempre sentimenti che possono rinsaldare il legame e creare un punto d’incontro anche se sono emozioni negative.

Ma qual è il limite che dobbiamo riconoscere e rispettare perché la rabbia sia propulsiva della crescita e non portatrice di violenza?

Il conflitto in amore

Per quanto possa sembrare strano, ci sono molti rapporti orientati al conflitto e sono caratterizzati da rabbia, litigi ed emozioni negative, che hanno però la funzione di tenere insieme la coppia senza che subentrino indifferenza e appiattimento. Visto dall’esterno un rapporto di questo tipo può sembrare una tortura e viene spontaneo chiedersi perché alcune persone si infliggano un tale tormento. Una possibile spiegazione è che la rabbia sia un modo per tornare a essere intimi quando ci siamo allontanati troppo. Non solo: è un’emozione che può far parte del sistema motivazionale dell’accudimento.

D’altra parte noi autorizziamo implicitamente la rabbia in amore proprio a partire dai rimproveri che facciamo ai bambini. Impariamo così che una persona può arrabbiarsi con noi anche se ci vuole bene. A volte impariamo così anche che l’amore può accompagnarsi alle percosse. molti bambini vengono ancora picchiati e mettiamo così le basi per una tolleranza insana alla violenza nelle relazioni affettive.

Permetterci e permettere di essere come siamo

Molti conflitti nascono dal desiderio di cambiare l’altro e dalla frustrazione relativa all’impossibilità di farlo. Per questo ogni relazione dovrebbe avere uno spazio di non-intervento in cui scopriamo com’è l’altro davvero a prescindere dai nostri desideri di cambiamento.

Non possiamo sapere chi siamo davvero se non apriamo questo spiraglio di osservazione: guardare ciò che succede e non intervenire perché ciò che accade sia quello che vogliamo. In questo lasciar essere si apre, ogni volta, uno spazio di assoluta novità. Su di noi, sugli altri, sulla vita e sul filo che sembra dipanarsi tra un evento e l’altro.

La calma non è qualcosa che si raggiunge dopo aver superato tutti gli ostacoli. In ogni tornado, in ogni tempesta c’è un punto di calma e questo vale anche per noi: la calma esiste anche dentro la rabbia. Abbiamo solo bisogno di lasciar andare la volontà di aver ragione e cercare l’intenzione di tornare in contatto con l’altro. Lasciar andare la volontà di avere ragione e la volontà di avere esattamente quello che vogliamo riduce tantissimo le nostre occasioni di conflitto. Ma come mai a volte più siamo dipendenti da una persona più ci troviamo invischiati in una spirale di rabbia, violenza, contatto senza trovare un modo civile di stare in relazione?

 

Sette domande utili in caso di conflitto

  1. In quali situazioni si verifica il conflitto?
  2. Che cosa sentiamo nel corpo?
  3. Che emozioni sono presenti? Possiamo notare tutto lo spettro emotivo riconoscendolo e nominandolo oppure c’è una sola emozione che offusca tutto?
  4. Quali sono i pensieri che ci passano per la mente?
  5. Quali impulsi ad agire sono presenti?
  6. Possiamo prenderci una pausa per darci self-compassio riconoscendo che questo è un momento difficile per noi?
  7. Possiamo sospendere la reattività?

Quando non vale la pena insistere

Considerare normale un certo livello di dipendenza in una relazione sentimentale è scontato. In alcuni casi, però, la dipendenza va oltre il limite fisiologico e assume, ben presto, la caratteristica comportamentale che hanno tutte le dipendenze patologiche. Alla base c’è l’impossibilità, il terrore di perdere la persona verso la quale siamo dipendenti con comportamenti di astinenza simili a quelli che si osservano con le sostanze stupefacenti. Quando possiamo parlare di dipendenza affettiva? Quando sono presenti tre o più comportamenti disfunzionali – presentati nella lista seguente – per un tempo prolungato e non episodico.

• Bisogno compulsivo dell’altro e sofferenza anche solo all’idea di tollerarne l’assenza.
• La maggior parte del tempo è occupato dalla relazione o, se non si è fisicamente insieme, dal pensiero della relazione.
• Tutti gli altri aspetti della propria vita rivestono un ruolo secondario anche se collegati ad affetti importanti, come figli, amicizie, famiglia d’origine.
• La relazione è regolata da forme estreme di controllo.
• Malgrado l’intensità del dolore relazionale, è impossibile chiudere la relazione e i tentativi di farlo vengono abortiti.
• C’è una fortissima attrazione fisica iniziale che non corrisponde a una condivisione di interessi.
• Si verifica uno stato mentale confuso che alterna momenti di euforia – quando c’è l’incontro – a momenti di disperazione esagerata, quando qualcosa turba l’incontro.

Siamo abituati a credere che valga la pena soffrire per amore e questa convinzione altera la percezione del dolore tollerabile in una situazione di dipendenza affettiva. La disponibilità e l’accettazione non devono mai varcare la soglia del rispetto dei limiti fisici e psicologici del nostro o della nostra partner. Ogni volta che accettiamo di varcare questo limite accettiamo che la nostra relazione possa essere anche violenta

 

  Diventiamo schiavi del piacere iniziale del rapporto e, come tossicodipendenti, cerchiamo di ricrearlo e ne vogliamo sempre di più, a costo di qualsiasi sacrificio, convinti che, se dimostreremo una disponibilità totale, tutto tornerà bello come al principio, perché l’inizio delle storie di dipendenza affettiva è magico, speciale, straordinario.

È importante comprendere che l’affinità sessuale non è l’unica condizione necessaria per portare avanti una relazione ed è indispensabile considerare che un partner violento non può cambiare senza l’aiuto di un  trattamento, come quelli offerti dai Centri che si occupano di Uomini maltrattanti. Essere innamorati e voler bene non può trasformarci in vittime, come assistiamo quotidianamente nelle storie di molte donne. In questo mese festeggeremo la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne per sensibilizzare su questi temi tutta la popolazione

 

 Curare le relazioni con la gentilezza

La pratica può curare le difficoltà relazionali? I dati di ricerca neuroscientifica sostengono l’efficacia della mindfulness e l’efficacia della pratica di gentilezza amorevole ( Fredrickson, Cohn, Coffey, Pek, & Finkel, 2008) che permette significativi cambiamenti nella qualità delle emozioni positive e nella riduzione delle emozioni negative in persone che partecipano ad un programma di 7 settimane di pratica di Gentilezza amorevole. L’incremento di emozioni come gioia, speranza, gratitudine, divertimento, appagamento risulta significativo e queste emozioni positive producono un incremento delle risorse personali come presenza mentale, motivazione, sostegno sociale, diminuzioni dei sintomi di malattia e riduzione dei sintomi depressivi. Sappiamo che il nostro cervello viene strutturato sulla base delle esperienze che viviamo. Una pratica regolare di gentilezza amorevole attiva e rafforza le aree cerebrali connesse all’intelligenza emotiva e allo sviluppo di risposte empatiche.(Hutcherson, Seppala & Gross, 2014) (Hoffmann, Grossman & Hinton, 2011). Una delle risposte più significative è l’incremento della materia grigia nelle aree cerebrali connesse alla regolazione emotiva (Leung et al 2013); (Lutz et al 2008).
Al di là della mole di dati scientifici che sostengono i benefici effetti della pratica di Gentilezza amorevole che cosa significa praticarla?

La pratica di Gentilezza amorevole inizia con il rivolgere questo tipo di attenzione a noi stessi e per quanto la nostra cultura possa essere considerata esageratamente narcisistica, questo primo passo, spesso è il più difficile. Alcuni insegnanti di meditazione invitano ad iniziare prima dalle persone che amiamo, per poi rivolgere questa stessa attenzione a noi stessi. Te ne parlo proprio oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Gentilezza, nata a Tokio nel 1997. Un evento che compie oggi 25 anni mentre la gentilezza è una delle pratiche più importanti della tradizione vipassana theravada e una delle pratiche fondative della mindfulness. Condivido con te due video per praticare insieme, gentilmente, e coltivare, con questa pratica, la gentilezza nelle nostre relazioni.

© Nicoletta Cinotti 2022

 

Il protocollo di Mindful Self-compassion settimanale online

Dal 25 Maggio alle 19

Il protocollo di Mindful Self-compassion Intensivo e residenziale

28 Giugno 2 luglio con Nicoletta Cinotti e Paolo Scocco

Archiviato in:approfondimenti, esplora, Mindful Self Compassion, reparenting Contrassegnato con: amore, benessere, compassione, depressione, emozioni, felicità, gentilezza, gentilezza amorevole, Giornata internazionale della gentilezza, meditazione, meditazioni, mente, Metta, Nicoletta Cinotti, parole, pratica di metta, presente, rabbia, respiro, ritiro, speranza, stress, trauma

Essere un insegnante mindfulness: una pratica riflessiva e nutriente

05/11/2022 by nicoletta cinotti

Essere un insegnante Mindfulness Based Program ci chiede molto a livello profondamente personale, e un impegno fruttuoso con la pratica riflessiva è fondamentale per il nostro sviluppo. Un’introspezione efficace richiede un elemento di pensiero critico, è una combinazione di analisi e domande all’interno di un approccio riflessivo aperto, che comprende l’impegno con il nostro intero sistema – corpo, emozioni e cognizione.
Lo sviluppo delle capacità riflessive è di per sé un processo di apprendimento. È importante che sia incluso e si intrecci con la nostra pratica personale di mindfulness, con la nostra pratica di insegnamento, con la nostra vita quotidiana, con i valori che abbiamo, con i nostri condizionamenti sociali e così via.
Lo sviluppo delle capacità critiche e riflessive è fondamentale per consentire l’apprendimento in un contesto basa to sulla mindfulness e aiuta a garantire che gli insegnanti  facciano parte di una cultura della pratica introspettiva e autovalutativa che prosegue aldilà del training formale. In questo modo, l’etica e l’integrità vengono mantenute già dalle basi.

Ci sono alcune caratteristiche chiave della riflessione:
Ci incoraggia a guardare i problemi da diverse prospettive, il che ci aiuta a:

  • Comprendere e analizzare i nostri valori, presupposti, pregiudizi e prospettive.
  • Si traduce in apprendimento, attraverso il cambiamento delle idee e della nostra comprensione della situazione, può portare all’abbandono di atteggiamenti, idee o comportamenti obsoleti. La riflessione è quindi parte della nostra evoluzione come persone e insegnanti MBP.
  • È un processo attivo di apprendimento e va oltre il pensiero o l’azione ponderata.
  • Riconosce che l’insegnamento delle MBP non è privo di dilemmi, sfide e problemi.
  • Non si tratta di un processo lineare, ma di un processo ciclico in cui la riflessione porta allo sviluppo di nuove idee che vengono poi utilizzate per pianificare le nostre prossime fasi di apprendimento.

Come insegnanti di Programmi basati sulla mindfulness siamo formati per facilitare l’indagine. Il processo di indagine, con i suoi tre livelli di impegno amichevole e curioso con l’immediatezza dell’esperienza, il nostro rapporto con l’esperienza e le implicazioni più ampie di ciò che stiamo notando, è un sistema di riflessione bello ed efficace (Segal et al., 2013). L’aspirazione che abbiamo per i partecipanti (e per noi stessi) è che questo modo di investigare l’esperienza diventi un modo naturale e predefinito di coinvolgerci con la vita.

Puoi leggere l’articolo completo qui

Materiale protetto da copyright di Rebecca S. Crane, Karunavira e Gemma M. Griffith (2021), Essential Resources for Mindfulness Teachers, Routledge

PS: Martedi 8 Novembre inizia il primo MBITAC italiano con la conduzione di Sophie Samson, dell’Università di Bangor, una delle università inglesi di eccellenza per l’insegnamento della mindfulness. Organizzare questo ciclo di supervisione e formazione è stata una scommessa, per molte ragioni. Una scommessa che non avrei mai potuto portare avanti senza la collaborazione di (in ordine alfabetico) Andrea Bassanini, Francesca Gallini, Niccolò Gorgoni, Daniela Rosadini e Angelo Simone. Oggi sono contenta di poter dire che inizieremo martedì e che le iscrizioni coprono le spese. Questo è il mio piccolo contributo perché la cultura della mindfulness in Italia possa rispettare criteri di aderenza al Programma originario ma anche di flessibilità e autenticità. È l’inizio di un’avventura: non so come andrà ma sono davvero felice di essere arrivata alla partenza. Grazie a chi ha scelto di partecipare. Grazie a Marina Petruzzi che si occuperà della traduzione live mentre tutto il resto del materiale tradotto è stato prodotto dal piccolo gruppo che ho citato sopra. Puoi trovare il materiale sul sito dell’università di Bangor. Grazie a Symphosia che si occuperà dei crediti ecm in FAD, in particolare nella persona di Cinzia Rinaldi e Alice Marino

©www.nicolettacinotti.net per la Rubrica “Addomesticare pensieri selvatici”

Archiviato in:Addomesticare pensieri selvatici, Mindful Self Compassion, mindfulness, Protocollo MBCT, Protocollo MBSR

  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 14
  • Vai alla pagina successiva »

Footer

Sede di Genova
Via XX Settembre 37/9A
Sede di Chiavari
Via Martiri della Liberazione 67/1
Mobile 3482294869
nicoletta.cinotti@gmail.com

Iscrizione Ordine Psicologi
della Liguria n°1003
Polizza N. 500216747, Allianz Spa
P.IVA 03227410101
C.F. CNTNLT59A71H980F

  • Condizioni di vendita
  • Privacy e Cookie Policy
  • FAQ
  • Iscriviti alla Newsletter

Le fotografie di questo sito sono state realizzate da Rossella De Berti e Silvia Gottardi
Concept e design Marzia Bianchi

Impostazioni Cookie

WebSite by Black Studio