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accettazione

Rigidi o troppo flessibili?

15/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Spesso quando proviamo avversione per qualcosa che sta avvenendo finiamo per assumere una posizione rigida: contraiamo la mandibola o stringiamo le mani o tratteniamo il respiro. Lottiamo contro l’espressione dell’avversione ma siamo consapevoli che proviamo avversione. Più o meno consapevoli che c’è una tensione nel corpo. Un conflitto tra quello che sentiamo e quello che riteniamo opportuno esprimere. Perché, molte volte, non abbiamo dubbi sull’opportunità della nostra sensazione ma abbiamo dubbi sulla possibilità di esprimere la nostra sensazione. Così tratteniamo, irrigidendolo, il corpo. E se proprio non riusciamo a trattenere diciamo quello che pensiamo, senza preoccuparci troppo dell’effetto sull’altro. Siamo tanto arrabbiati che sentiamo solo noi stessi.

Non sempre però trattiamo così la nostra avversione. Se amiamo molto la persona che produce la situazione che rifiutiamo, possiamo, quasi impercettibilmente, coprire la nostra avversione con una accondiscendenza gentile. Una iperflessibilità all’adattamento. Perché la cosa più importante è non perdere l’amore di quella persona, anche se ci propone cose che non vogliamo. Anche se siamo costretti ad subire condizioni che non accetteremmo. Sostituiamo la protesta con la resa. Tutto pur di essere vicini. Tutto purché l’altro sia fiero di noi. E noi fieri di riflesso.

Dal punto di vista relazionale l’accondiscendenza è una posizione meno sfidante: si tratta di chinare la testa, di guardare le cose con pazienza, di cercare, velocemente, molto velocemente, il positivo della situazione. Ma l’avversione rimane. Sta nascosta dentro di noi e ci confonde. Non capiamo più cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Prendiamo l’abitudine a rispondere sì ma quel sì non è accettazione. È un piegare, con lacrime senza suono, la testa. Un dire e dirsi che l’amore che proviamo per l’altro è più importante dell’amore che possiamo avere per noi. Senza condizioni. Siamo tanto spaventati che sentiamo solo le ragioni di chi amiamo.

In mezzo, tra la rigidità e l’iper-flessibilità, sta l’ascolto. E il coraggio e la fiducia di scegliere se dire sì o no.

Felicità non è altro che contentezza del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque questo stato sia. Giacomo Leopardi

Pratica del giorno: Esplorare l’accettazione nel corpo

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

 

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Le difese

30/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Le nostre bene amate difese non offrono solo dei vantaggi. Per usare una analogia, cosa penseremmo di un governo che continua ad investire in armamenti nei periodi di pace trascurando le spese sociali e sanitarie? Molto probabilmente la riterremmo una follia. Se poi quel paese rispondesse con il fuoco ad ogni minima minaccia non so se saremmo tanto soddisfatti. Però con noi stessi funzioniamo abbastanza così. Attiviamo velocemente le difese (gli armamenti), ci occupiamo poco del conforto (spese sociali e sanitarie) e, per far prima, utilizziamo schemi ripetitivi di risposta, le nostre altrettanto amate strategie con utilizzo di significati già pronti: sono più rapidi, seguono binari conosciuti, nascono dalla nostra esperienza e tendiamo a credergli fino in fondo.

Così quando vogliamo essere consapevoli è importante riconoscere i segnali di attivazione delle difese. È importante e semplice, più semplice di quello che crediamo. Perché, in fondo, gli schemi sono sempre semplificazioni della realtà e quindi abbiamo solo bisogno di trovare gli interruttori, e la polvere da sparo ha un odore inconfondibile!

Riconoscere che c’è uno schema difensivo attivo ci permette di sciogliere la riduzione di consapevolezza che produce. Non abbiamo bisogno di risolvere ma solo di riconoscere. Le difese vengono attivate da tre aree: la sicurezza/insicurezza; la soddisfazione/insoddisfazione; essere in relazione/sentirsi isolati. Abbiamo bisogno di sentirci al sicuro, soddisfatti e in relazione. Bel tris direte voi! Si, bel tris che, quando si realizza – e non siamo esigenti nella realizzazione (molto spesso ci bastano condizioni basilari) – siamo una situazione in cui essere consapevoli è facile.

Così, viceversa, quando ci sentiamo inquieti possiamo chiederci in quale di queste tre aree si colloca la nostra inquietudine. Ci sentiamo in pericolo? Siamo insoddisfatti per qualcosa? C’è una tensione relazionale?

Basta esplorare la risposta a queste domande e il gioco è fatto. Nel momento in cui esploriamo disattiviamo il segnale di pericolo che si era acceso, riduciamo lo stress e apriamo la possibilità di prestare soccorso alla nostra paura. L’importante è che l’esplorazione non passi dalla teoria – dai pensieri – ma dalla pratica. Ossia da come percepiamo le sensazioni fisiche ed emotive rispetto a questi tre temi. In questo modo ogni momento è un’occasione di pratica. Perché ogni momento è una occasione di esplorazione.

Qualsiasi cosa sorga, non importa quanto negativa sembri, può essere usata per sentire la comunanza con gli altri che soffrono dello stesso genere di aggressività o di brama e che, proprio come noi, restano agganciati da speranza e paura. Così arriviamo ad apprezzare il fatto che siamo tutti sulla stessa barca. Abbiamo tutti un disperato bisogno di maggior comprensione profonda di ciò che porta felicità e di ciò che porta sofferenza. Pema Chodron

Pratica di mindfulness: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2023

Ti ricordo che ogni lunedì mattina, a partire dal 4 settembre, faccio una pratica live su Zoom alle 8. Ti aspetto! Qui il link per partecipare. Dopo la trovi registrata sul Canale Youtube o Vimeo

 

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Le illusioni dell’affetto

28/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Le illusioni sono strane: le costruiamo noi eppure ci fanno male come se fossero inganni fatti da altri. Di tutte le illusioni le più dolorose sono quelle legate alle persone che amiamo. Ci siamo illusi che l’altro fosse come volevamo, ci siamo illusi che le cose sarebbero andate come volevamo. Ci siamo illusi che l’altro fosse dove l’avevamo messo.

Magari abbiamo passato anni a insegnargli che sarebbe dovuto stare proprio lì, dove noi avevamo bisogno che fosse. E invece lo trovavamo sempre da un’altra parte. Quella dove voleva stare lui o lei. Lottiamo molto prima di abbandonare le nostre illusioni amorose e poi facciamo pagare i conti a quello o quella che viene dopo. Che passava di lì per caso e che si è innamorata/o davvero. Ma noi siamo ancora feriti per prima. Poco importa se le persone sono diverse: dobbiamo pareggiare i conti e così la confusione prosegue all’infinito. Le illusioni sono contagiose come il morbillo solo che, in questo caso, non c’è vaccinazione che tenga.

Perché la vaccinazione che avremmo bisogno di fare sarebbe quella di guardare le cose così come sono, la nostra vita così com’è. Dovremmo guardare la persona che amiamo per dov’è davvero e non per dove vorremmo che fosse. Dovremmo sentire che effetto ci fa quella verità – quella cosa nuda e cruda che ti gira dentro – e dove ci porta.

Spesso poi le illusioni d’affetto non iniziano con la nostra storia d’amore attuale. No, sarebbe troppo facile. Mettono radice nel nido antico. Quello in cui abbiamo creduto che i nostri genitori sarebbero stati perfetti. Che prima o poi la loro perfezione e il loro amore perfetto si sarebbe rivelato e saremmo stati tutti felici. Un nido antico. Un nido fatto per spiccare il volo.

Tornare nel nido dell’illusioni ci rimpicciolisce .

E rende più acuto il dolore dell’illusione e più folle continuare a crederci. Perché la pazzia nasce dal dolore per cose davvero accadute ma la follia è la pretesa che la realtà sia come vorremmo noi.

L’idea di Amor fati espressa da Nietzche significa riconoscere e accettare le condizioni della tua vita esattamente come sono, in qualsiasi modo siano, perché sono ciò che hai. Questo non significa che il fato sia immodificabile. Significa che proprio questo momento è il tuo fato. Ogni momento della tua vita ti offre l’opportunità per una risposta più creativa, più intelligente del momento precedente. Così amare la vita che hai, abbracciarla pienamente, può diventare una esperienza naturale giorno dopo giorno. Roger Housden

Pratica di mindfulness: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2023 Reparenting ourselves. Diventare genitori di sé stessi

 

 

 

 

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Il sentimento dell’amore e lo stare in relazione

24/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

In genere pensiamo che se si ama qualcuno poi tutto venga di conseguenza: decisioni giuste, comportamenti sincronici, sintonia, armonia ( e chi ha più ideali aggiungerebbe ancora altro…).

I sentimenti però non li proviamo in uno spazio vuoto ma li sentiamo nel pieno del nostro carattere ( e anche del nostro brutto carattere). E, soprattutto, il sentimento dell’amore lo proviamo dentro il nostro modo di stare in relazione. A volte, per quanto sia grande l’amore che proviamo per una persona, la forza dell’attrazione, e il desiderio che ci suscitano non sono in grado di fare nulla rispetto al nostro modo di stare in  relazione. Perché l’abbiamo imparato a memoria dalle prime relazioni d’amore che sono – ahimè – quelle con i nostri genitori. Dico ahimè non perché i genitori sbaglino sempre qualcosa. Dico ahimè perchè spesso chiediamo all’amore cose che non abbiamo avuto dai nostri genitori. Mettiamo così una prima ipoteca sul nostro amore: quello che ci permetta di pagare i conti in sospeso del passato.

La seconda ipoteca è che noi abbiamo appreso uno stile di attaccamento ( cioè uno stile di relazione) e tendiamo a metterlo in atto nelle nostre relazioni d’amore significative. Così io posso anche amarti intensamente ma se il mio stile d’attaccamento è ambivalente avrò un modo ambivalente di stare in relazione (per esempio ti dirò che ti amo tantissimo ma starò con te pochissimo). Oppure se ho uno stile d’attaccamento insicuro mi domanderò spesso se quello che provo è un sentimento autentico oppure se l’altro prova un sentimento autentico. Questa seconda ipoteca è certo più dannosa della prima e ha un tasso d’interesse altissimo: cerchiamo prove in continuazione anziché rilassarci e gustarci quello che abbiamo.

Forse potremmo iniziare – dentro di noi – a portare la luce della consapevolezza sul fatto che i sentimenti sono una cosa e il modo di stare in relazione può essere qualcosa di completamente diverso. Forse potremmo riconoscere che, anche se amiamo tantissimo, a volte siamo pestiferi. Invece attribuiamo alle qualità dell’amore i difetti del modo di stare in relazione e così lasciamo persone che ci hanno amato tantissimo perchè stavano malissimo in relazione con noi e stiamo con persone che amiamo poco perché stanno benissimo in relazione con noi. E siamo sempre scontenti per qualcosa.

Esplorare com’è il nostro modo di stare in relazione è davvero interessante. Molto più interessante che fare ipotesi fantascientifiche sul perchè l’altro si comporta così. L’amore cambia il carattere ma non quello dell’altro: il nostro. Soprattutto se togliamo le ipoteche sullo stare in relazione.

Perché esiste l’attesa? L’attesa di cosa? Se mamma non viene tu l’aspetti? Certo! Se manca la luce aspettiamo che torni? Non riesco a seguirti ma non fa niente. Sì, aspettiamo che torni. Per ogni cosa che fa tardi e bisogna aspettare noi siamo sempre in attesa?…Papà, se io non voglio stare in attesa e voglio stare senza attesa, posso?…Se tu sarai capace di stare senza attesa vedrai cose che altri non vedono. Erri De Luca

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2023 Mindful self-compassion: Emozioni e relazioni

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Ti amo (soprattutto da lontano)

23/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Continuo a girare intorno alla parola lontananza. Che ha una sfumatura di fondamentale diversità rispetto alla parola distanza. Ci è lontano qualcosa di caro e di amato. Qualcosa di cui proviamo nostalgia. E questa lontananza non affievolisce i sentimenti ma, anzi, li rende più intensi. Quindi se la distanza ci fa guardare da una prospettiva più ampia le cose, la lontananza ci fa sentire tutto il desiderio che l’altro sia di nuovo con noi. E molto spesso ci è più facile amare le persone da lontano – al telefono per esempio – che quando le incontriamo di persona.

Al telefono ci permettiamo tenerezza, sensibilità, apprensione, cura. Poi ci incontriamo. E il primo momento è bellissimo. Avete visto gli arrivi negli aeroporti o nelle stazioni? Gli abbracci e il sollievo di re-incontrarsi? Credo di essermi innamorata di mio marito perché viveva lontano e mi piaceva incontrarlo – dopo giorni di assenza – in qualche stazione o aeroporto.

Poi torniamo a casa e piano piano quell’intensità scolorisce. Succede con i figli come con i partner. Mi sono sempre chiesta come mai succede. Forse perché quando non vediamo l’altro possiamo sentire l’intensità del nostro amore e quando lo vediamo, invece, incontriamo le cose che, dell’altro, ci danno fastidio? Oppure perché da lontano il nostro amore è ideale e da vicino diventa reale?

Forse, semplicemente, la lontananza ci mette in contatto con quello che vorremmo fosse il nostro amore: tornare a casa. Tornare alle qualità originarie ed essenziali dell’amore. A quel senso di unità che non prevede conflitto.

Alcune persone rimangono sposate per cinquant’anni solo a colpi di civiltà. Sotto la superficie c’è un cimitero con un sacco di ossa che scricchiolano. Beck, Charlotte Joko. Meraviglia quotidiana (Italian Edition) (p.190). Ubiliber. Edizione del Kindle.

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2023 Scrivere storie di guarigione

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