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Lodro Rinzler

La stanchezza in amore

11/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

La stanchezza è un fenomeno che mi incuriosisce da sempre. Sembra la cosa più fisiologica del mondo ma non lo è affatto Sei stanco e, improvvisamente, qualcosa ti attrae e ti passa la stanchezza. Oppure sei stanco, vai a correre e dopo non sei più stanco.

Perché le fonti della stanchezza sono tante e non solo fisiche ma anche – e soprattutto – emotive. Così quando entriamo nella stanchezza in amore non è il corpo ad essere stanco ma il cuore. Non crediamo più nella possibilità di investire in quel rapporto. Non crediamo che ci sia ancora uno spazio di possibilità per la crescita di quella relazione e quella stanchezza che ci prende non parla solo della nostra stanchezza ma parla della scarsa vitalità di quella relazione.

Quando siamo stanchi fisicamente ci riposiamo. Come mai il riposo non funziona quando siamo stanchi emotivamente? Perché quello che ci stanca emotivamente è la stagnazione, la mancanza di movimento vitale, di crescita e quindi la stanchezza emotiva non ha bisogno di riposo ma di attività.

La stanchezza in amore ha bisogno di una crescita, ha bisogno di avere qualcosa da rilanciare e, forse, se non lo troviamo, ha bisogno di esplorare il sapore della mancanza. Può darsi che quel cibo non sia più adatto a noi. Può darsi che quello che ci manca non sia qualcosa che può venire dall’altro. Può darsi che stiamo perdendo di vista quello che abbiamo ogni giorno. Inseguendo uno dei tanti miraggi prodotti dalla fame d’amore.

A volte esiliamo delle parti di noi per un amore. Altre volte esiliamo delle parti di noi per stare da soli o da sole, ma prima o poi l’esilio deve finire per tornare quello che siamo. Intere. Nostre. Uniche. Interi, nostri, unici. Cinotti, Nicoletta. Genitori di sé stessi (la pietra filosofale) (Italian Edition) (p.38). Enrico Damiani Editore. Edizione del Kindle.

Pratica di mindfulness: Incontrare la resistenza

© Nicoletta Cinotti 2023 Scrivere storie di guarigione

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La pazienza non è “aspetta e vedrai”

25/11/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Di solito percepiamo la pazienza come un’attitudine che significa, più o meno, “aspetta e vedrai”. Per esempio ci arriva il messaggio in cui il partner ci dice che dobbiamo parlare e allora bisogna pazientare e attendere fino a quando lo incontreremo di persona e potremo discutere. Nel frattempo stiamo lì a domandarci se ci aspettano buone o cattive notizie. Non vediamo l’ora che quell’attesa finisca, di qualunque cosa si tratti.

La pazienza non è un atteggiamento “Aspetta e vedrai” ma, al contrario, è la disponibilità ad essere presenti. Coltivarla è qualcosa che può dare gioia. Quando sei seduto sul cucino di meditazione, può scatenarsi una forte emozione, per esempio, la paura. Cominci a pensare: “E se domani la mia presentazione va a finire male?”. La paura si insinua e aumenta via via che la mente gira vertiginosamente e costruisce scenari basati sulla paura. Applicare la pazienza in quella circostanza significa semplicemente essere presenti all’emozione, lasciando che fluisca e defluisca come la marea, tornando il più possibile al respiro.

La pazienza può anche essere non aspettarsi niente. Pensa alla pazienza come all’atto di essere aperto a qualunque cosa si presenti sulla tua strada. Quando cominci a solidificare le aspettative rimani deluso perchè non si presentano mai nel modo in cui le avevi immaginate.

Quando ti abbandoni a qualunque cosa possa arrivare senza dipingerla con le tue proiezioni, allora non c’è nulla rispetto a cui essere impazienti. Senza nessuna idea fissa di come qualcosa potrebbe presentarsi è difficile farsi bloccare da ciò che non accade nel tempo desiderato. E invece, non fai altro che essere lì, aperto alle possibilità della tua vita. Lodro Rinzler

© www.nicolettacinotti.net Addomesticare pensieri selvatici

Foto di ©silvia07(very busy)

 

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Sbagliando si impara

08/06/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci dicono da sempre che sbagliando si impara. Nessuno ci dice però come si fa ad imparare dai propri errori.Come se l’apprendimento fosse un processo spontaneo e naturale. A volte servono poche indicazioni, nate dall’esperienza di chi ha sbagliato prima di noi, per orientarsi.

Spesso l’errore nasconde un piano segreto: eravamo convinti che le cose si sarebbero svolte diversamente. Così riconoscere il piano segreto – detto anche semplicemente illusione – può essere utile.

Altre volte eravamo convinti che ci fosse una posizione diversa nel nostro interlocutore. Così essere certi di dov’è l’altro davvero – e non tanto di dove lo mettiamo noi – può essere parecchio utile.

Molte volte l’errore nasce dal dare qualcosa, dal fare qualcosa. Dall’aggiungere ingredienti alla realtà. Così domandarsi se quello che stiamo facendo è proprio necessario potrebbe essere una buona idea. Meno azioni, meno confusione.

Infine l’errore declina la legge della vulnerabilità. Mostra la nostra vulnerabilità e, mostrandola, ci permette di crescere. Perché se ci mettessimo in una condizione – ipotetica – di assenza d’errore ci metteremmo anche, senza saperlo, in una condizione di assenza di vitalità.

Non dimentichiamo che la legge dell’evoluzione darwiniana è la legge dell’errore. E che molti atti d’amore sono meravigliosi errori.

Possiamo combattere contro l’idea di fidarsi di nuovo di qualcuno o di qualcosa ma le persone continueranno a cercare di avere una relazione con noi il nostro cuore naturalmente, a dune certo punto di aprirà. Questo non nega il fatto che possiamo essere stati feriti prima ma non significa nemmeno che siamo destinati a fare sempre gli stessi errori. Lodro Rinzler

Pratica di mindfulness: Cullare il cuore

© Nicoletta Cinotti 2017 Verso un’accettazione radicale

 

 

 

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Vorrei che tu fossi felice è un bellissimo augurio

07/06/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Vorrei che tu fossi felice è un bellissimo augurio. Condividere rende la felicità e la gioia più piene. Spesso ad un augurio così seguono anche azioni e gesti che danno sostanza e corpo al nostro augurio.

Un augurio che nasce dal cuore dell’affetto ma non può diventare una prova di amore. Non possiamo valutare se l’altro ci ama sulla base di quanto ci rende felici perchè la felicità è anche un fatto squisitamente personale. Che richiede di essere coltivato personalmente.

Così ogni volta che in una relazione pretendiamo che l’altro si comporti in modo da renderci felici – che faccia o non faccia qualcosa che ha l’effetto di farci felici – intraprendiamo una strada relazionale ricca di delusione e sofferenza. Una strada in cui, molto probabilmente, useremo senso di colpa e svalutazione per controllare il comportamento altrui. Una strada in cui sentiremo il nostro benessere sempre minacciato dal comportamento degli altri. E sentiremo gli altri sempre inadeguati a rispondere alle nostre richieste. E noi sempre più impotenti rispetto al nostro desiderio di felicità.

Siamo noi i responsabili della nostra felicità: se ci mettiamo nella condizione di farla dipendere da una relazione, da una persona, saremo sempre soggetti a sbalzi d’umore e a impreviste rabbie. Forse ci saranno momenti entusiasmanti ma saremo sempre su una giostra di cui non abbiamo il volante. E l’effetto che il nostro bisogno farà all’altro sarà sempre più pesante perchè nessuno può sostenere a lungo le pretese del nostro cuore narcisistico.

Rischieremo così di sentire che nessuno risponde al nostro bisogno senza capire che abbiamo messo troppo fuori da noi la possibilità di rispondere alle nostre necessità. Lasciamo che la felicità sia un augurio che ci fanno le persone che ci amano e che noi amiamo. Lasciamo che sia una sorpresa inaspettata. Non facciamola affondare con il peso delle nostre aspettative. Nessuna relazione è all’altezza dei nostri ideali perchè le relazioni sono materia reale.

Ci sono molti modi di spezzare il cuore. E tutti sembrano ruotare attorno a delle aspettative non realistiche, come quella in cui “una persona” entrerà nella nostra vita e noi vivremo per sempre felici. Lodro Rinzler

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2017 Verso una accettazione radicale Foto di ©Ellison ds

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Tre trucchi per rafforzare la pratica. Ma prima tre cose che la ostacolano.

07/05/2017 by nicoletta cinotti

Meditare può dare tante gioie, ma a volte è semplicemente faticoso. Ci si deve sedere per praticare con il bello e con il cattivo tempo, quando la giornata sembra fantastica e quando davanti a noi si vede solo un mare di m. Quando le cose vanno alla grande può capitare di pensare che non ce ne sia effettivamente bisogno, tanto stiamo bene. Quando vanno male, vanno troppo male per perdere tempo a meditare, è troppo faticoso. Ma il punto della pratica non è quello di trovar la pace a comando, è quello di imparare a stare, con costanza ed equanimità, con le cose che ci circondano, così come sono nel momento. Il punto è imparare a navigare la nostra barca, che il sole splenda nel cielo o che ci sia una burrasca in corso.

Tante volte ho sentito nelle parole dei miei partecipanti – quanto nei pensieri della mia testa – l’affacciarsi della mente prestazionale. Per me funzionava in un modo abbastanza specifico e giudicante “se non mediti almeno un’ora non stare neanche a sederti”. E ci credevo. Se non faccio una meditazione di qualità non ha senso, ovvio.

Sbagliato.

Torniamo al punto di bello e cattivo tempo e riformuliamolo con “buone condizioni e cattive condizioni”. Ci sono condizioni perfette? No. La nostra mente ci prova sempre a rimandare alle future condizioni perfette, lo fa su questo, lo fa su tantissime cose. “Mediterò quando avrò almeno un’ora di tempo”. “Mi metterò a dieta lunedì”. “Domani vado in palestra, oggi non è il caso”.

Le condizioni perfette non le ho mai trovate, il punto è che ci sono delle condizioni, quelle che abbiamo a disposizione proprio in questo momento. Queste le possiamo sfruttare, le altre potrebbero tenerci in attesa anche tutta la vita. Quindi il punto è sempre lo stesso, con buone e cattive condizioni ci si siede e si pratica. Oggi possiamo 10 minuti? Per tutto il mese possiamo solo 10 minuti al giorno? È curioso come abbia usato, nella frase precedente, la parola “solo”. Suona giudicante “Solo? Ma dai”. Bene, prendiamo nota di quello che la mente fa, e continuiamo per la nostra strada. Dieci minuti al giorno siano, se quello è il tempo che possiamo dare. È con intenzione e costanza che si può imparare a stare di più, non ascoltando giudizi in varie forme, reali che sembrino.

Un altro ostacolo

Un altro ostacolo che spesso ho incontrato ha un nome inglese estremamente accattivante: speedy-busyness. Suona come speedy-business, ed è proprio il gioco di suoni che trovo affascinante. Business  sta per commercio, affari, busy invece sta per impegnato, indaffarato. Questo nome indica uno stato della mente piena di affari, impegnata e indaffarata, senza possibilità di frenare. Perché gli affari vanno sbrigati subito, di fretta, non siamo mica qui a perder tempo. Sono sicuro sia una condizione in cui tutti siamo transitati, ma per renderla più chiara farò qualche esempio.

Ci svegliamo al mattino, sappiamo che c’è da sedersi e meditare per il nostro tempo. La prima cosa che facciamo però è aprire facebook, controllare se siamo finiti in qualche tag, già che ci siamo assicurarci non ci si perda qualche contenuto interessante. Poi abbiamo la colazione, prepararci per uscire e rispondere a quelle due mail lavorative. Fatto sta che alla fine non meditiamo, non abbiamo avuto il tempo. Ma lo faremo senz’altro dopo, nella pausa pranzo sappiamo già che avremo i nostri dieci minuti. La mattina si fa più lunga del previsto, magari la pausa pranzo inizia con tre minuti di ritardo, poi con una chiamata e poi una persona fastidiosamente lenta ci blocca dall’ottenere il nostro agognato panino. Vabbè, meno male che la nostra buona intenzione è salda. Quando arriveremo a casa niente potrà distoglierci. La giornata finisce, stanchi rientriamo, ci occupiamo della cena, magari qualche altra mail, convenevoli sociali, e poi non possiamo proprio esimerci da qualche minuto di meritato relax. Toh, si è fatto troppo tardi, ma non è colpa mia, non avevo tempo. Mediterò domani.

Le giustificazioni

Le giustificazioni che popolano questo stato mentale sono così credibili che il grosso delle volte non le chiamiamo neanche “giustificazioni”. Sono proprio delle verità. Ciò non toglie che siano oggetti mentali costruiti ad hoc per non metterci di fronte alla leggera sofferenza data dal “non stai facendo quello che dovresti fare, meditare”. Quindi per non finire al cospetto di quest’ultimo giudizio (un pensiero) ci prostriamo davanti ad una sfilza di giustificazioni credibili (altri pensieri). I pensieri sono una delle nostre droghe preferite, ma l’esperienza è composta da corpo, da emozioni. C’è di più. Possiamo ritornare al punto iniziale “buone condizioni/cattive condizioni”. Quello che in questi casi facciamo è rimandare perché le condizioni non sono buone. Qual è la soluzione? Prestare consapevolezza, notare di essere entrati in un loop mentale, radicarsi nel corpo e prendere atto di quello che c’è. Magari la meditazione della giornata salterà lo stesso, ma non serve massacrarsi di giudizi o fare finta di niente per non massacrarsi di giudizi. Si fa tesoro di quello che è successo, si prende nota e si rinnova l’intenzione di essere consapevoli: si continua, con costanza e pazienza, con il buono e cattivo tempo.

Siamo finalmente arrivati al punto, tre ostacoli sono stati nominati e magari voi avevate aperto questa pagina solo per sentirvi dire i tre trucchi. Ci siamo, scusate lo zelo.

Kalyanamitta

Arriviamo al punto e la prima cosa che si incontra è – magari – una parola sconosciuta. Kalyanamitta è una parola in lingua pali, composta da kalyana (che significa buono/bello) e mitta (che significa amico). “Fare amicizia con il Buono” è una delle traduzioni. Più nello specifico voglio parlare brevemente di amicizia spirituale, amicizia in quest’impresa che è la pratica, supporto in questo viaggio. Cresciamo nella relazione, ci sviluppiamo nel confronto con gli altri. Quando la relazione è stimolante e calda il nostro cervello riceve il cibo della migliore qualità. Quando è invece deprivante e dolorosa, il nostro cervello patisce terribili stenti.

Avere qualcuno con cui condividere la nostra intenzione di praticare, il nostro amore per la meditazione, è una risorsa preziosissima. Meditiamo in silenzio, rivolti all’interno, ma ci sarà capitato di farlo insieme ad altri. Abbiamo probabilmente vissuto su pelle cosa vuol dire farlo insieme a qualcuno, anche se nel silenzio. Potremmo trovare un compagno o una compagna sul posto di lavoro, qualcuno a casa, o un nostro amico o amica. Potremmo frequentare un centro che offre meditazioni di gruppo o una comunità di praticanti che ci aiuta nel sostenere i nostri intenti. La presenza di altri con questa comune e nobile intenzione ci nutre, ci sostiene.

La meditazione del ding

Per questo trucchetto devo ringraziare Lodro Rinzler, scrittore e insegnante di Dharma nella tradizione Shambala. Mettiamoci un timer, una sveglia, qualcosa che suoni ogni tot. Potrebbe essere una volta l’ora, come la nostra campana personalizzata. Niente di drammatico o cacofonico, niente che possa innescarci funesta avversione verso il mondo. Un semplice ding, pulito. Quando suona, quando ce ne accorgiamo, abbiamo l’occasione di tornare al presente, ovunque fossimo finiti. Un minuto di consapevolezza, un secondo di presenza intenzionale e poi si riprende. Un po’ alla volta spostiamo quello che facciamo sul cuscino all’interno delle nostre giornate.

Il richiamo consapevole

Scegliamo qualcosa che spesso facciamo nelle nostre giornate e la usiamo come “scusa” o ancor meglio “richiamo” per tornare consapevoli se già non lo eravamo. Potrebbe trattarsi di essere consapevoli ogni volta in cui ci alziamo o ci sediamo. Potrebbe trattarsi di essere consapevoli ogni volta in cui accendiamo o spegniamo una luce, ogni volta in cui passiamo per una porta, ogni volta in cui indossiamo o ci togliamo qualcosa. Non ci costa nulla e c’è solo di guadagnato. Guadagniamo attimi di consapevolezza per arricchire, anche se di poco, la presenza nelle nostre giornate. Siamo pieni di occasioni come queste.

©Niccolò Gorgoni Foto di ©palladipelo_75

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“Selfie e amore verso sé stessi: imparare a conoscere il malessere”

07/05/2017 by nicoletta cinotti

Nel 1839 il fotografo Robert Cornelius fu in grado di produrre un dagherrotipo di sé stesso, diventando la prima persona a farsi un selfie.

Il termine selfie è entrato nel gergo comune nel 2002, anno in cui i telefoni con fotocamera hanno iniziato ad esser maggiormente diffusi. Oggi, è impossibile andare online senza vedere qualcuno che conosciamo postare una fotografia di sé.

Perché i selfie si sono diffusi così tanto?

Ho una teoria. Non c’è un pulsante “non mi piace” su Facebook. Neanche su Instagram. E se volessimo esprimere un “non mi piace” su Twitter dovremmo rispondere alla persona con un’affermazione negativa.

La strutturazione dei nostri social media è tale che possiamo postare qualcosa al nostro gruppo di amici, come una foto di noi stessi, con l’aspettativa più o meno nascosta di ricevere ondate di feedback positivi sotto forma di likes, commenti, condivisioni e cuoricini.

In questo network basato sul cloud abbiamo costruito una fortezza impenetrabile di rinforzi positivi.

Sono contrario al sentirsi riconosciuti?

Certo che no. Ma le persone che postano foto su foto di loro stessi non sono sempre le più sicure. Vedo qualcuno che lo fa e penso “Oh, si basano davvero sulla validazione esterna.” Dietro a questo c’è (in verità) un pensiero giudicante, “Oh, chissà quanto davvero si amano”.

Nel mio ultimo libro, “Cammina come un Buddha”, dedico un’intera sezione al Buddhismo, l’amore e le relazioni. In questa sezione mi occupo di dieci domande che le persone mi hanno posto nel corso del tempo, spaziando da “Come posso lavorare con la solitudine?” a “Qual è l’approccio Buddhista per gli appuntamenti online?” a “Come curo il mio cuore nel bel mezzo di una rottura amorosa?”. Alla base di queste domande, come della pletora che ricevo dai lettori tutte le settimane, si trova una domanda molto più semplice:

“Come posso essere a mio agio con me stesso, come sono proprio ora?”

Che stiamo cercando l’amore, o stiamo faticando con una relazione a distanza o stiamo tentando di curare un cuore spezzato, c’è una certa dose di malessere. Abbiamo speso anni, ciascuno di noi, per abituarci a gestire questo malessere. Beviamo, usciamo con più persone, facciamo shopping, postiamo selfies. Tutto ciò per farci stare bene con noi stessi.

Da una prospettiva Buddhista, non saremo mai davvero a nostro agio.

Anche trovando un partner meraviglioso, la relazione potrebbe cambiare, finire in una rottura o semplicemente con la morte. Se invece pensiamo di lavorare per avere agio e stabilità, non ne troviamo molta nella situazione economica attuale. Se ci buttiamo sulla tecnologia per lo stesso motivo, ho cattive notizie: ci sarà sempre qualcosa di  più tecnologico che ci farà sentire arretrati.

Le cose cambiano, ragazzi. L’impermanenza è parte della natura della realtà.

È quello che ha insegnato il Buddha, non perché fosse un gran filosofo, ma perché è come stanno le cose e lui fu in grado di vederlo.

Ma tutto questo cosa centra con l’amore verso sé stessi?

Nella mia esperienza, nei momenti di maggior malessere, quei momenti in cui ho perso persone care, ho affrontato terribili rotture, o sono stato molto malato, sono stati i momenti in cui ho dovuto guardare la mia abilità di amare.

Ho dovuto contemplare cosa volesse dire amarmi, anche se non ero quello che avrei voluto essere in quel momento. In queste occasioni, nessun selfie sarebbe stato in grado di salvarmi. Non potevo cercare una validazione esterna. Stando sdraiato sul letto, sopraffatto dalle emozioni, mi sono posto la stessa domanda di prima:

“Come posso essere a mio agio con chi sono, proprio ora?”

Per me c’è stata una sola risposta. Ho meditato.

Mi sono seduto sul cuscino e ho praticato la meditazione del calmo dimorare. Una delle parole per tradurre meditazione in Tibetano è gom, che significa “prendere familiarità con”. Attraverso la pratica di tornare al respiro, più e più volte, ho imparato a notare come funzionasse la mia mente. Ho preso familiarità con la mia mente, e quindi ci sono diventato amico. Il mio insegnante, Sakyong Mipham Rinpoche, ha scritto un’ottima guida al riguardo “Trasformare la mente in un alleato”.

Attraverso la meditazione impariamo a far pace con la nostra mente. Impariamo a non scontrarci più così tanto con chi siamo. Impariamo ad abbracciarci come siamo, nel momento. Questo è il potere della meditazione, è questo che intendo per amore verso sé stessi.

La prossima volta in cui vi sentite a disagio, osservate la vostra mente. Le relazioni e gli appuntamenti danno un’ampia gamma di reazioni emotive. Non scappate da esse. Restate semplicemente con quello che state provando. Dimorate con quello che siete. Praticate l’amore verso voi stessi.

Articolo originale: https://www.elephantjournal.com/2014/02/selfies-self-love-getting-to-know-discomfort/

© Lodro Rinzler Traduzione: Niccolò Gorgoni Foto di ©ZR

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