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ritiro

Una cura circolare

18/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando parliamo di muscoli contratti in genere abbiamo una visione unitaria: qualcosa di teso e rigido magari dolorante. In realtà il muscolo ha molte espressioni e ognuna di queste espressioni corrisponde ad una diversa posizione emotiva e tutte hanno una relazione con la forza perchè la contrazione genera una forza in seno al muscolo.

La più tipica è quella del muscolo che, essendo contratto, si ritira. Corrisponde al nostro tirarci indietro dall’intimità con gli altri. Ci mette in una posizione difensiva che a volte arriva all’arroccamento. Ci sono poi contrazioni da allungamento: sono quelle che ci portano ad andare al massimo delle nostre possibilità. A volte anche oltre le nostre possibilità perchè sfruttano la forza che abbiamo immagazzinato nella fase di accorciamento. Così non è insolito che una persona molto ritirata abbia una apertura improvvisa e inaspettata. Oppure una esplosione improvvisa e inaspettata. Poi ci sono le contrazioni circolari, quelle di cui si occupa prevalentemente la bioenergetica: quelle che fanno perdere la percezione di una parte del corpo pur mantenendone la funzionalità. Quelle che ci rendono meccanici e privi di sentire nel nostro muoverci nel mondo. Quelle che, per usare una immagine poetica, essendo circolari, hanno bisogno di una cura circolare come l’affetto. Ne hanno bisogno perchè ogni contrazione muscolare esprime una emozione e ne nasconde un’altra.

L’affetto è una cura circolare perchè – in qualsiasi modo si manifesti – scioglie e apre. Non possiamo curare e curarci senza amare. Non possiamo sottovalutare l’effetto che lo sguardo, al momento dell’incontro, ha su di noi. Alla sua possibilità di ridurre il nostro ritiro. Alla fine, qualsiasi contrazione, ha un’unica cura che si chiama intimità e contatto. Intimità declinata con tutte le sfumature che appartengono a questa parola. Contatto con quel misto di presenza e attenzione affettuosa che ci fa riconoscere a quale distanza stare per dare contatto. Perchè contatto non significa necessariamente toccare con le mani: significa essere toccati da ciò che l’altro fa per noi.

La tensione muscolare cronica è l’espressione fisica del senso di colpa perchè rappresenta l’ingiunzione dell’ego contro certi sentimenti e certe azioni. Alexander Lowen

Pratica di mindfulness: Cullare il cuore

© Nicoletta Cinotti 2023 Selfcompassion: emozioni & relazioni

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Eroi, supereroi o umani?

12/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono tanti tipi di stanchezza: molti sono benefici perché ci ricordano quali sono i nostri limiti. Alcuni richiedono riposo, altri, paradossalmente richiedono attività. Quando si è stanchi di testa, per esempio, fare un po’ di attività fisica è piacevole, oltre che salutare.

Poi c’è una stanchezza speciale: quella che proviamo dopo aver fatto qualcosa di eroico. La stanchezza dopo il parto, la stanchezza dopo un viaggio importante, la stanchezza dopo un lavoro particolarmente impegnativo, la stanchezza dopo un ritiro. È una stanchezza che ricorda che abbiamo consumato le nostre risorse, che ci siamo spinti al limite delle nostre possibilità. Io la chiamo “il riposo del guerriero”.

Però dobbiamo fare una distinzione perché ci sono persone che, per combattere la loro sensazione di inadeguatezza, devono sempre fare atti eroici. Devono sempre spingersi al limite duro delle loro possibilità. Rischiare di farsi male. Oppure farsi male e, nonostante tutto combattere fino alla fine. Sono persone per le quali non sono sufficienti gli atti eroici che la vita quotidiana richiede a tutti. Hanno bisogno di aggiungere altri eroismi, per combattere la più grande paura: quella di essere vulnerabili. Sono supereroi, super-umani. Poi, a volte, come per miracolo, conoscono la resa, Entrano in dialogo con la grande stanchezza che comporta essere super-eroi. Finalmente sentono il lamento del corpo, il lamento dell’anima e del cuore. Se ne spaventano e cercano subito qualcosa per correre ai ripari, per tornare supereroi: temono la kriptonite come la morte. Invece è proprio lì, nel momento in cui sono stanchi, nel momento in cui sono solo i nostri eroi quotidiani, che possiamo davvero amarli, raggiungerli. E sussurrare al loro cuore “va bene così, puoi aprirti anche con questa esperienza”.

Chi corre veloce, corre da solo. Proverbio africano

Pratica di mindfulness: Be water

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online Ultimo giorno per l’iscrizione con riduzione di prezzo sia al protocollo MBSR che al protocollo MBCT.

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Differenti tipi di sensibilità

07/09/2023 by nicoletta cinotti 4 commenti

Essere sensibili significa sentire ciò che accade a noi e agli altri senza bisogno che sia ad alto volume. È una qualità, perché essere sensibili ci permette di vedere più facilmente la prospettiva altrui, permette di accorgerci di più elementi del panorama interno ed esterno. Per questa ragione la sensibilità potrebbe coincidere con la consapevolezza. Per essere consapevoli dobbiamo, infatti, aver sentito. E quindi più siamo sensibili e più siamo consapevoli di quello che accade.

Ci sono delle situazioni in cui la sensibilità diventa eccessiva e tutto ciò che accade ci tocca o ci ferisce in maniera troppo intensa. A quel punto la sensibilità diventa un’arma a doppio taglio: perché sentire aumenta il doversi difendere dal dolore di aver sentito. È come se fossimo senza pelle. In quel caso parliamo di ipersensibilità.

Così, se la sensibilità è preziosa, l’ipersensibilità è dannosa perché rende i rapporti tra noi e il mondo più complessi.  Il rischio in questi casi è sempre lo stesso: trasformare la difesa in punizione. Punire gli altri con la nostra assenza, con il nostro ritiro, con la nostra distanza. Lo facciamo perché abbiamo sentito male nel rapporto con loro. Questo non servirà a metterci al sicuro – come crediamo – ci renderà sempre più solitari e sempre più vulnerabili alle ferite che nascono dall’imprevedibilità dell’incontro. Perché è l’imprevedibilità che, alla fine, è la causa della nostra ferita. È accaduto qualcosa che non ci aspettavamo, qualcosa che ci fa sentire impreparati. Ma non è stato fatto contro di noi. È avvenuto perché la vita è più grande dei nostri programmi.

Non possiamo allora che aumentare la nostra capacità di consolarci, di calmare le nostre reazioni, sapendo che, spesso, non sono gli altri che ci fanno male, ma è la nostra stessa sensibilità che ci ferisce. Non possiamo che ricordarci, ancora e ancora, che ogni giorno nasce nuovo. Come noi.

Rinnovati completamente ogni giorno; fallo ancora e ancora, per sempre ancora. Iscrizione cinese

Pratica di self-compassion. Addolcire, confortare, aprire.

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online. Ultimi giorni per l’iscrizione in early bird

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Andare lontano e tornare

01/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

In questi ultimi mesi sono andata lontano. Ho sperimentato quell’essere fuori dal consueto che è proprio del viaggiare in paesi molto diversi dal tuo. Non è una questione di distanza geografica.È’ proprio una questione di lontananza di abitudini, sapori, colori. Di prospettive diverse, di paesaggio e di vita. Questo essere lontano però – con sorpresa – non coincide con la sensazione di essere fuori.

Essere fuori è qualcosa che ha a che vedere con il senso di appartenenza: possiamo essere fuori dal coro, fuori dal gruppo, anche quando siamo nel centro della nostra realtà. È una condizione spesso scomoda perché si accompagna all’aver perso la radice dell’appartenenza. Forse è perché hai sperimentato l’essere fuori dagli schemi che poi può essere più semplice andare lontano. Ma le due cose non è detto che coincidano. Puoi andare lontano e non essere mai fuori dalle tue abitudini oppure, viceversa, essere  a casa e sentirti totalmente fuori.

Il centro, alla fine, lo offre la definizione di cosa significa essere a casa o tornare a casa. A quella dimensione dove nessuno è straniero o sbagliato perchè è una dimensione interiore che non ha bisogno di confini geografici, di passaporti, di appartenenza. Tutti abbiamo pieno diritto a tornare a casa, ad essere a casa in qualsiasi luogo del mondo siamo. E questa affermazione non è solo il segno del nostro appartenere alla vita: è anche la matrice della nostra comune umanità che non ci rende diversi ma uniti. Al di là di quelle che possono sembrare enormi diseguaglianze. E tutti, in questa condivisione, abbiamo bisogno solo di due cose per sentirci a casa: gentilezza e compassione.

Possa tu ascoltare il tuo desiderio di libertà. Possano i confini del tuo appartenere essere sufficientemente generosi per i tuoi sogni. Possa tu svegliarti ogni giorno con una voce benevola che sussurra nel tuo cuore. Possa tu trovare armonia tra anima e vita. John O’ Donohue

Pratica del giorno: Il filo del respiro: la pratica del lunedì

La pratica del lunedì riprende, alle 8 su Zoom, il 4 settembre. Il link per iscriversi qui

© Nicoletta Cinotti 2023

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La granularità del mondo

29/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

C’é un gioco che viene fatto spesso durante il protocollo MBSR. Si chiama 9 dots. Si tratta di unire dei punti. La cosa difficile è che quei punti sembrano formare un quadrato e quindi vengono in mente soluzioni che stanno nella logica del quadrato e non di altre forme. La nostra percezione è così: ci inganna perché ci fa vedere forme chiuse dove non ci sono. Lo facciamoper attribuire un senso, un significato. È più semplice pensare ad un quadrato che a 9 punti separati. Se anche solo uno di quei punti non fosse allineato ci renderemmo conto che non esiste nessun quadrato ma solo 9 punti separati. Questa legge di causa effetto ci fa mettere in fila eventi della nostra vita che si assomigliano e per questo gli attribuiamo lo stesso significato. Ma non hanno lo stesso significato, quello glielo attribuiamo noi.

La cosa interessante di quel gioco é l’invito a uscire dagli schemi, l’invito a dare un’altra forma a quei 9 punti, ci invita a considerare nello stesso modo gli eventi della nostra vita. Tendiamo a dare un significato preciso, disegnato dalla forma che ci viene subito in mente, e spesso rimaniamo intrappolati in quel disegno, in quel significato. Se invece pensiamo che possano esserci altre forme, altri disegni, altri percorsi di significato, alcuni eventi della nostra vita assumono un senso completamente diverso. Per cogliere questi diversi significati é importante la spaziosità. Se tutto é denso, se tutto é una linea continua e ininterrotta, ogni cosa apparirà conseguenza della precedente.

Se mettiamo spazio tra un evento e l’altro, il mondo ci sembrerà più sfumato e complesso ma in quel l’incertezza potremo trovare una nuova forma di sicurezza: quella che nasce dalla saggezza di lasciar aperte più strade, più prospettive. Quella che permette di cogliere che ogni momento é un punto di svolta.

Quando interrompiamo il nostro consueto modo di nominare le cose e di rassicurarci dando nomi già conosciuti, facciamo qualcosa di estremamente coraggioso. Lentamente ci muoviamo verso una maggiore apertura, ma, a onor del vero, ci muoviamo anche verso un luogo senza appigli fisici o mentali. Pema Chodron

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

@ Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online. Serata di presentazione martedì 12 settembre alle 21

 

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