Sono psicoterapeuta da molto tempo, e detto così potrebbe non sembrare una notizia entusiasmante. In realtà credo di aver vissuto un tempo molto fertile nella mia professione: gli ultimi trent’anni sono stati davvero ricchi di novità cliniche, di nuove modalità di approccio e di nuove patologie!
Nel tempo infatti non è cambiato solo il mio modo di lavorare ma sono cambiate tantissimo le richieste che i pazienti portano in studio e le modalità di relazione. Il primo grande cambiamento è l’aumento di disagi esistenziali collegati alla sensazione di non realizzazione, professionale o affettiva. L’idea che la nostra vita sia una semplice vita – un’idea che forse poteva essere ritenuta una fortuna anche solo 50 anni fa – può gettare nella più cupa disperazione. Le depressioni primarie diminuiscono, la depressione perfezionistica cresce in modo esponenziale ed è, molto spesso, proprio strettamente connessa con il nostro desiderio di realizzazione
Cos’è la depressione perfezionistica
Forse sarebbe meglio partire da che cos’è la depressione. In forma abbreviata potremmo dire che è un insieme di disagi fisici ed emotivi connessi ad una esperienza di mancanza, di perdita, che, con il tempo si cronicizza e tende a ripetersi in forma acuta periodicamente. La depressione primaria è una esperienza di perdita più o meno grave che lascia una propensione a cogliere la perdita come evento traumatico e che si riattiva in situazioni in cui si sperimenta una nuova perdita.
Anche la depressione perfezionistica si costruisce attorno ad un senso di mancanza, solo che è la mancanza di ciò che non si è realizzato. Non è qualcosa che si è perso. È il dolore per qualcosa che non si è mai avuto. Com’è possibile soffrire per qualcosa che non abbiamo avuto? Sembra strano ma non è così strano, basti pensare al dolore per non essere riusciti ad avere figli. Al dolore per non aver completato un progetto importante. Al dolore per non aver raggiunto un obiettivo significativo. Il problema è che, queste “mancanze” allargano la loro sfera di significato al Sè. Non soffriamo più perchè qualcosa non si è realizzato: il fatto che non si sia realizzato sembra diventare una sorta di conferma della nostra inadeguatezza. Si innesca così un circolo vizioso in cui ci sforziamo di raggiungere l’obiettivo, ci esauriamo nel tentativo di farlo, ci critichiamo per provare ancora a ripetere l’esperienza e, non riuscendoci, rinforziamo l’attacco contro di noi. Credo che la descrizione renda abbastanza l’idea di come può sentirsi una persona in questa situazione (francamente credo che quasi tutti abbiano sperimentato questa situazione). Più difficile capire come uscirne.
Il trattamento farmacologico
Il trattamento farmacologico è un’ottima strada nel trattamento delle depressioni primarie, soprattutto di quelle recidivanti. Ci sono molte molecole, di solito ben tollerate, e non siamo più costretti alla dipendenza fisica da benzodiazepine. Nella depressione perfezionistica però funzionano meno o non funzionano affatto. Perché? Perché, molto spesso, la persona non ha carenza di serotonina ma carenza di self compassion. E, per quella carenza, non ci sono molecole che funzionino: serve un’attenzione affettuosa verso se stessi.
Il trucco dei pensieri
Tutti i disagi emotivi – che siano o meno di natura depressiva – sono mantenuti da schemi disfunzionali di risposta sostenuti dai nostri pensieri. L’idea che i pensieri giochino un ruolo importante nel protrarsi del disturbo emotivo è relativamente recente e si deve, non credo di sbagliare, a Aron Beck e a quella che viene definita la terza onda della teoria cognitivista. Lasciamo perdere però le definizioni – anche se terza onda è piuttosto suggestivo – e vediamo in che cosa consiste. Noi (psicoterapeuti) siamo stati educati a lavorare sui contenuti. C’è chi ha imparato a farlo in maniera simbolica, interpretativa, chi l’ha fatto in maniera esperenziale. Questa convinzione che il contenuto sia il nucleo della faccenda su cui è necessario lavorare passa attraverso una sopravvalutazione dei processi di pensiero. Comprendo qualcosa? Bene, allora basta questo per cambiare! In realtà non funziona. Non funziona proprio. Spesso comprendiamo benissimo tutto e continuiamo a fare esattamente la stessa cosa. E qui arriva la rivoluzione mindfulness. In particolare la rivoluzione MBCT.
Smettiamo di guardare al contenuto e cambiamo relazione con i pensieri
Di che rivoluzione si tratta? Semplice: anziché guardare al contenuto di quello che pensiamo cambiamo relazione con i pensieri. Non cerchiamo di cambiare il contenuto, non cerchiamo di scacciarli. Cerchiamo solo di prendere contatto con una verità semplice ed essenziale: i pensieri non sono fatti. Sono eventi mentali. La mente è fatta per produrre pensieri così come i polmoni permettono di respirare, l’apparato digerente di nutrirci ed evacuare. E, anche la mente, così come i polmoni e i reni e l’intestino, lascia andare prodotti di scarto sotto forma di pensieri. No, scherzavo. Detta così è troppo forte ma il senso è che noi prendiamo per veri, per buoni, i nostri pensieri e sottovalutiamo il fatto che, molto spesso, sono condizionati dal nostro umore e dal nostro stato di salute fisico.
A questo punto interviene la domanda: come cambio la relazione con i pensieri?
Passi di cambiamento
La base dalla quale partiamo è sempre l’esperienza mindfulness, per dare radicamento al corpo, alla percezione e aprire lo schema d’esperienza. Forse sarà capitato anche a te di accorgerti che, quando pensiamo, finiamo per rimanere assorbiti e ridurre la qualità della sensazione fisica, della percezione sensoriale. La mindfulness ci aiuta ad invertire questa tendenza e a tornare presenti – non solo con la mente ma anche con il corpo.
Questo è il primo passo: necessario ma non sufficiente.
Gli altri due passi sono: non identificarsi e distanziarsi e, infine, consolarsi
Tendiamo a dare valore di verità a ciò che pensiamo e, invece, è solo un pensiero, spesso determinato dall’umore. Nei protocolli MBCT impariamo modi specifici per guardare diversamente ai nostri pensieri, per considerarli eventi mentali, ipotesi sulla realtà e non la realtà stessa. Ci sono pratiche di consapevolezza, meditazioni ed esercizi che ci aiutano a farlo e a continuare a farlo, attraverso un autonomo lavoro a casa.
Se guardiamo ai nostri pensieri come ad eventi mentali, possiamo vedere il panorama complessivo, la sua apertura, l’intrecciarsi di aspetti emotivi e fisici in ciò che pensiamo. Ma non è solo questo il lavoro che facciamo: ci ricordiamo di consolarci.
Ci siamo dimenticati la consolazione
La nostra fiducia nella “razionalità” e nei processi di pensiero non sempre ci è stata d’aiuto: molto spesso ha prodotto uno strano dislivello tra la nostra intelligenza, la nostra cultura e la nostra felicità. Abbiamo pensato che bastasse capire il perché qualcosa accadeva affinché cambiasse. Abbiamo dato un potere magico ai pensieri e non ci siamo accorti che i nostri pensieri, che tendiamo a considerare razionali – non sono affatto pensieri. Sono, piuttosto emozioni travestite da pensieri. Sono modi cognitivi per dare voce a quello che sentiamo senza provarne la sensazione emotiva. Perché delle emozioni abbiamo paura e dei pensieri no! Pessima posizione visto che le emozioni sono legate alle situazioni contingenti ma con i pensieri possiamo far tornare a galla qualsiasi emozione in qualsiasi momento anche se ormai è passato tanto tempo dall’evento che l’ha scatenata.
Alla fine i pensieri ri-attualizzazno il trauma, non ci consolano e aumentano il nostro senso di inadeguatezza. Infatti un’altra delle caratteristiche della depressione perfezionistica è quella di ritenersi responsabili di ciò che non riusciamo a realizzare, anche se è, evidentemente, una missione impossibile.
Ci siamo dimenticati che qualsiasi dolore – legato a qualcosa accaduto o a qualcosa che non si è realizzato – necessita, come prima cosa, della consolazione. Del conforto che viene da una comprensione emotiva. Possiamo soffrire per ragioni molto irrazionali ma la consolazione può arrivare in ogni piega. Non la consolazione degli altri – che pure desideriamo – ma la nostra consolazione. Quella che rimandiamo lungamente di darci. Quella di cui abbiamo bisogno per essere felici
© Nicoletta Cinotti 2023
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