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psicoterapia

Eroi, supereroi o umani?

12/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono tanti tipi di stanchezza: molti sono benefici perché ci ricordano quali sono i nostri limiti. Alcuni richiedono riposo, altri, paradossalmente richiedono attività. Quando si è stanchi di testa, per esempio, fare un po’ di attività fisica è piacevole, oltre che salutare.

Poi c’è una stanchezza speciale: quella che proviamo dopo aver fatto qualcosa di eroico. La stanchezza dopo il parto, la stanchezza dopo un viaggio importante, la stanchezza dopo un lavoro particolarmente impegnativo, la stanchezza dopo un ritiro. È una stanchezza che ricorda che abbiamo consumato le nostre risorse, che ci siamo spinti al limite delle nostre possibilità. Io la chiamo “il riposo del guerriero”.

Però dobbiamo fare una distinzione perché ci sono persone che, per combattere la loro sensazione di inadeguatezza, devono sempre fare atti eroici. Devono sempre spingersi al limite duro delle loro possibilità. Rischiare di farsi male. Oppure farsi male e, nonostante tutto combattere fino alla fine. Sono persone per le quali non sono sufficienti gli atti eroici che la vita quotidiana richiede a tutti. Hanno bisogno di aggiungere altri eroismi, per combattere la più grande paura: quella di essere vulnerabili. Sono supereroi, super-umani. Poi, a volte, come per miracolo, conoscono la resa, Entrano in dialogo con la grande stanchezza che comporta essere super-eroi. Finalmente sentono il lamento del corpo, il lamento dell’anima e del cuore. Se ne spaventano e cercano subito qualcosa per correre ai ripari, per tornare supereroi: temono la kriptonite come la morte. Invece è proprio lì, nel momento in cui sono stanchi, nel momento in cui sono solo i nostri eroi quotidiani, che possiamo davvero amarli, raggiungerli. E sussurrare al loro cuore “va bene così, puoi aprirti anche con questa esperienza”.

Chi corre veloce, corre da solo. Proverbio africano

Pratica di mindfulness: Be water

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L’antidoto alla proliferazione mentale

10/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se c’è una cosa davvero originale dell’analisi bioenergetica è che Lowen  – per primo – ha portato il movimento nella stanza della psicoterapia.

Noi viviamo in movimento eppure, fino ad allora, la psicoterapia si consumava nell’immobilità. Due persone sedute in poltrona oppure una sul lettino e l’altra dietro, nascosta alla visuale. Una situazione totalmente irreale rispetto a quello che accade ordinariamente.

Portare il movimento in psicoterapia ha significato non solo lasciare spazio al linguaggio del corpo ma rendere reale la psicoterapia in modi che sono autentici e spontanei. Perché il nostro movimento, per quanto consapevole, dice sempre qualcosa in più delle nostre parole. E nasce prima delle parole.

Così essere consapevoli dei nostri movimenti significa dare, alla consapevolezza, quella profondità che le è necessaria perché non sia un’idea. Rimanere consapevoli, momento per momento, man mano che ci muoviamo nel mondo è il miglior antidoto al proliferare dei pensieri che sia mai stato inventato.  Ed è sempre a nostra portata.

Il sé non può essere disgiunto dal corpo e la coscienza di sé non può essere separata dalla consapevolezza del corpo. Per me, almeno, la via della crescita è quella del contatto con il mio corpo e della comprensione del suo linguaggio. Alexander Lowen

Pratica del giorno: Bioenergetica (una parte del corso di Bioenergetica e yoga)

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Le domande secche

26/07/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando accade qualcosa di doloroso ci coglie lo stupore. Un attimo più o meno lungo di sospensione, seguito da una catena di domande secche, senza risposta. Che lasciano il respiro sospeso, in cerca di un luogo dove atterrare.

Il dolore apre le liste: le liste di quello che abbiamo fatto e di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, distratti, incuranti o inconsapevoli. La lista delle domande che vorremmo avessero una risposta certa. Certa perché abbiamo bisogno di capire quello che è successo con la speranza che questa comprensione ci restituisca serenità.

In realtà questo proliferare di domande è un modo per trasformare le emozioni in pensieri. Sono domande secche perchè non hanno una risposta. Ci lasciano asciutti, Producono dubbi e paranoie. Rinforzano la fiducia nella ragione, anche se sappiamo benissimo che non sempre trova una risposta e che, molto spesso, quando trova una risposta è più frutto delle nostre ansie che della verità. È qui che arriviamo a dirci, “ma io sono razionale”, “ho bisogno di capire prima di andare avanti”, “Ho bisogno di capire prima di fare qualcosa”. Come se non sapessimo che quello che possiamo capire, sapere, conoscere è una frazione limitata della realtà.

Le cose accadono. E prima di sapere perché e per come accadono, sarebbe utile occuparsi di noi. Confortarsi, se siamo addolorati, come faremmo con il dolore di un bambino: senza spiegazioni. A bassa voce perchè il cuore non ha bisogno di un volume alto. Ha bisogno di tenerezza, di contatto, di vicinanza. E quando invece ci facciamo travolgere dal fiume delle domande ci isoliamo nei nostri pensieri e nelle nostre paranoie, rendendo a noi stessi e agli altri molto difficile la consolazione. Con – solus – la radice di consolazione, sottolinea l’interezza della persona. Perchè la vera consolazione è sapere che, malgrado tutto, siamo interi e apparteniamo alla vita. Anche se non la capiamo, la nostra vita, ne facciamo parte.

Allora tutte le nostre domande, tutti i nostri rovelli interiori, il nostro incessante rimuginare che scambiamo per razionalità si rivela per quello che è: solo un flusso di emozioni travestite da pensieri.  Emozioni, vi prego, tornate ad essere quello che siete: sabbia che scivola tra le dita.

I pensieri negativi arrivano spesso sotto forma di domande secche, che danno il tormento, logorano l’anima ed esigono una risposta immediata:”Perchè sono infelice? Cosa mi succede quest’oggi? Dov’è che ho sbagliato? Quando finirà tutto questo? Penman, Williams

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

 

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La depressione perfezionistica e il protocollo MBCT

31/03/2023 by nicoletta cinotti

Sono psicoterapeuta da molto tempo, e detto così potrebbe non sembrare una notizia entusiasmante. In realtà credo di aver vissuto un tempo molto fertile nella mia professione: gli ultimi trent’anni sono stati davvero ricchi di novità cliniche, di nuove modalità di approccio e di nuove patologie!

Nel tempo infatti non è cambiato solo il mio modo di lavorare ma sono cambiate tantissimo le richieste che i pazienti portano in studio e le modalità di relazione. Il primo grande cambiamento è l’aumento di disagi esistenziali collegati alla sensazione di non realizzazione, professionale o affettiva. L’idea che la nostra vita sia una semplice vita – un’idea che forse poteva essere ritenuta una fortuna anche solo 50 anni fa – può gettare nella più cupa disperazione. Le depressioni primarie diminuiscono, la depressione perfezionistica cresce in modo esponenziale ed è, molto spesso, proprio strettamente connessa con il nostro desiderio di realizzazione

Cos’è la depressione perfezionistica

Forse sarebbe meglio partire da che cos’è la depressione. In forma abbreviata potremmo dire che è un insieme di disagi fisici ed emotivi connessi ad una esperienza di mancanza, di perdita, che, con il tempo si cronicizza e tende a ripetersi in forma acuta periodicamente. La depressione primaria è una esperienza di perdita più o meno grave che lascia una propensione a cogliere la perdita come evento traumatico e che si riattiva in situazioni in cui si sperimenta una nuova perdita.

Anche la depressione perfezionistica si costruisce attorno ad un senso di mancanza, solo che è la mancanza di ciò che non si è realizzato. Non è qualcosa che si è perso. È il dolore per qualcosa che non si è mai avuto. Com’è possibile soffrire per qualcosa che non abbiamo avuto? Sembra strano ma non è così strano, basti pensare al dolore per non essere riusciti ad avere figli. Al dolore per non aver completato un progetto importante. Al dolore per non aver raggiunto un obiettivo significativo. Il problema è che, queste “mancanze” allargano la loro sfera di significato al Sè. Non soffriamo più perchè qualcosa non si è realizzato: il fatto che non si sia realizzato sembra diventare una sorta di conferma della nostra inadeguatezza. Si innesca così un circolo vizioso in cui ci sforziamo di raggiungere l’obiettivo, ci esauriamo nel tentativo di farlo, ci critichiamo per provare ancora a ripetere l’esperienza e, non riuscendoci, rinforziamo l’attacco contro di noi. Credo che la descrizione renda abbastanza l’idea di come può sentirsi una persona in questa situazione (francamente credo che quasi tutti abbiano sperimentato questa situazione). Più difficile capire come uscirne.

Il trattamento farmacologico

Il trattamento farmacologico è un’ottima strada nel trattamento delle depressioni primarie, soprattutto di quelle recidivanti. Ci sono molte molecole, di solito ben tollerate, e non siamo più costretti alla dipendenza fisica da benzodiazepine. Nella depressione perfezionistica però funzionano meno o non funzionano affatto. Perché? Perché, molto spesso, la persona non ha carenza di serotonina ma carenza di self compassion. E, per quella carenza, non ci sono molecole che funzionino: serve un’attenzione affettuosa verso se stessi.

Il trucco dei pensieri

Tutti i disagi emotivi – che siano o meno di natura depressiva – sono mantenuti da schemi disfunzionali di risposta sostenuti dai nostri pensieri. L’idea che i pensieri giochino un ruolo importante nel protrarsi del disturbo emotivo è relativamente recente e si deve, non credo di sbagliare, a Aron Beck e a quella che viene definita la terza onda della teoria cognitivista. Lasciamo perdere però le definizioni – anche se terza onda è piuttosto suggestivo – e vediamo in che cosa consiste. Noi (psicoterapeuti) siamo stati educati a lavorare sui contenuti. C’è chi ha imparato a farlo in maniera simbolica, interpretativa, chi l’ha fatto in maniera esperenziale. Questa convinzione che il contenuto sia il nucleo della faccenda su cui è necessario lavorare passa attraverso una sopravvalutazione dei processi di pensiero. Comprendo qualcosa? Bene, allora basta questo per cambiare! In realtà non funziona. Non funziona proprio. Spesso comprendiamo benissimo tutto e continuiamo a fare esattamente la stessa cosa. E qui arriva la rivoluzione mindfulness. In particolare la rivoluzione MBCT.

Smettiamo di guardare al contenuto e cambiamo relazione con i pensieri

Di che rivoluzione si tratta? Semplice: anziché guardare al contenuto di quello che pensiamo cambiamo relazione con i pensieri. Non cerchiamo di cambiare il contenuto, non cerchiamo di scacciarli. Cerchiamo solo di prendere contatto con una verità semplice ed essenziale: i pensieri non sono fatti. Sono eventi mentali. La mente è fatta per produrre pensieri così come i polmoni permettono di respirare, l’apparato digerente di nutrirci ed evacuare. E, anche la mente, così come i polmoni e i reni e l’intestino, lascia andare prodotti di scarto sotto forma di pensieri. No, scherzavo. Detta così è troppo forte ma il senso è che noi prendiamo per veri, per buoni, i nostri pensieri e sottovalutiamo il fatto che, molto spesso, sono condizionati dal nostro umore e dal nostro stato di salute fisico.

A questo punto interviene la domanda: come cambio la relazione con i pensieri?

Passi di cambiamento

La base dalla quale partiamo è sempre l’esperienza mindfulness, per dare radicamento al corpo, alla percezione e aprire lo schema d’esperienza. Forse sarà capitato anche a te di accorgerti che, quando pensiamo, finiamo per rimanere assorbiti e ridurre la qualità della sensazione fisica, della percezione sensoriale. La mindfulness ci aiuta ad invertire questa tendenza e a tornare presenti – non solo con la mente ma anche con il corpo.

Questo è il primo passo: necessario ma non sufficiente.

Gli altri due passi sono: non identificarsi e distanziarsi e, infine, consolarsi

Tendiamo a dare valore di verità a ciò che pensiamo e, invece, è solo un pensiero, spesso determinato dall’umore. Nei protocolli MBCT impariamo modi specifici per guardare diversamente ai nostri pensieri, per considerarli eventi mentali, ipotesi sulla realtà e non la realtà stessa. Ci sono pratiche di consapevolezza, meditazioni ed esercizi che ci aiutano a farlo e a continuare a farlo, attraverso un autonomo lavoro a casa.

Se guardiamo ai nostri pensieri come ad eventi mentali, possiamo vedere il panorama complessivo, la sua apertura, l’intrecciarsi di aspetti emotivi e fisici in ciò che pensiamo. Ma non è solo questo il lavoro che facciamo: ci ricordiamo di consolarci.

Ci siamo dimenticati la consolazione

La nostra fiducia nella “razionalità” e nei processi di pensiero non sempre ci è stata d’aiuto: molto spesso ha prodotto uno strano dislivello tra la nostra intelligenza, la nostra cultura e la nostra felicità. Abbiamo pensato che bastasse capire il perché qualcosa accadeva affinché cambiasse. Abbiamo dato un potere magico ai pensieri e non ci siamo accorti che i nostri pensieri, che tendiamo a considerare razionali – non sono affatto pensieri. Sono, piuttosto emozioni travestite da pensieri. Sono modi cognitivi per dare voce a quello che sentiamo senza provarne la sensazione emotiva. Perché delle emozioni abbiamo paura e dei pensieri no! Pessima posizione visto che le emozioni sono legate alle situazioni contingenti ma con i pensieri possiamo far tornare a galla qualsiasi emozione in qualsiasi momento anche se ormai è passato tanto tempo dall’evento che l’ha scatenata.

Alla fine i pensieri ri-attualizzazno il trauma, non ci consolano e aumentano il nostro senso di inadeguatezza. Infatti un’altra delle caratteristiche della depressione perfezionistica è quella di ritenersi responsabili di ciò che non riusciamo a realizzare, anche se è, evidentemente, una missione impossibile.

Ci siamo dimenticati che qualsiasi dolore – legato a qualcosa accaduto o a qualcosa che non si è realizzato – necessita, come prima cosa, della consolazione. Del conforto che viene da una comprensione emotiva. Possiamo soffrire per ragioni molto irrazionali ma la consolazione può arrivare  in ogni piega. Non la consolazione degli altri – che pure desideriamo – ma la nostra consolazione. Quella che rimandiamo lungamente di darci. Quella di cui abbiamo bisogno per essere felici
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La frustrazione delle soluzioni (e del pensiero lineare)

07/03/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo molto abituati a ragionare per problemi e, quindi per soluzioni. Se c’è un problema infatti, crediamo che debba esserci anche una soluzione e che la soluzione si debba cercare – e trovare – percorrendo la linea retta, il percorso più semplice, la relazione causa – effetto. Cos’è che mi fa star male (effetto)? Questo!(causa). La soluzione è semplice: basta modificare la causa.

E qui iniziano i guai. Perchè:

  • non tutte le cause sono modificabili;
  • non tutto viene da una sola causa;
  • a volte non sappiamo quale sia la causa, l’origine del problema;
  • spesso la parola causa nasconde un nome proprio (Marito, figlio, figlia, partner, moglie) e provare a cambiarli non è proprio un gioco da ragazzi;
  • abbiamo già provato a cambiare e non ci siamo riusciti.

Solo a guardare questo elenco possiamo capire facilmente come la strada delle soluzioni sia…piena di problemi! E come quanto spesso il nostro non riuscire a risolvere qualcosa si accompagni ad una voce interiore autocritica e umiliante. In realtà è più la frustrazione che la soddisfazione quella che incontriamo quando decidiamo di percorrere la strada delle soluzioni. Allora perchè insistere? Perchè ci fa credere di essere forti: perchè siamo convinti che lottare sia la strada migliore. Perchè crediamo di essere dei combattenti (o delle vittime che è ancora peggio!)

Così, quando pratichiamo mindfulness viene quasi spontaneo, all’inizio, considerarla una soluzione. Poi, gradualmente, ti rendi conto che non è una soluzione: è una apertura Non cerca mai una sola causa ma esplora quello che succede nel corpo, nel cuore e nella mente. Prova a mettere in relazione questi tre aspetti e poi rivolge una consapevolezza aperta all’esterno e a come rispondiamo all’esterno. Niente pensiero lineare quindi, piuttosto, una mappa dell’esperienza. Che ci restituisce quella spaziosità che il pensiero lineare non possiede. Il pensiero lineare possiede la velocità ed è meraviglioso per molte cose ma non tanto adatto al mondo emotivo. Il mondo emotivo non si affida alle soluzioni ma a quelle luminose intuizioni che vengono dalla pratica. È così che coltiviamo l’accettazione.

Così oggi facciamo qualcosa di aperto per i nostri problemi: non cerchiamo la soluzione ma apriamo la consapevolezza.

Quando riconosciamo che la nostra voce ansiosa e auto-umiliante cerca solo di evitare il ripetersi di situazioni dolorose, possiamo guadagnare più accettazione, compassione e apprezzamento per noi stessi e per il nostro cercare di rimanere vivi e al sicuro. Friedmann Schaub

Pratica di mindfulness: La consapevolezza del corpo

© Nicoletta Cinotti 2023 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale 

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Ci conosciamo poco

14/02/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Viviamo con noi stessi da sempre: ci conosciamo poco. Questa frase potrebbe suonare paradossale eppure è una considerazione che molti di noi fanno ogni volta. Tanto che chiediamo agli altri, agli esperti, perché sperimentiamo certe emozioni e certi sentimenti. Come se il nostro modo di funzionare non ci appartenesse.

Se cambiamo prospettiva, se invece che cercare soluzioni cerchiamo scoperte, potremmo vedere che viviamo con noi stessi cercando di risolvere problemi e non di imparare come funzioniamo. Eppure questo processo di esplorazione ci permetterebbe anche di trovare soluzioni più adeguate alle nostre esigenze.

La stessa psicoterapia, prima ancora che trovare soluzioni, è un modo per scoprire come funzioniamo. Facendo questo avviene un piccolo miracolo: molte delle nostre difficoltà si sciolgono – da sole – perché non solo altro che l’inquietudine di non conoscerci. Di passare la vita sfiorandoci.

Nessuna scoperta che ci riguarda può prescindere da noi: il nostro sguardo attento, la nostra affettuosa curiosità sono una necessaria compagnia.

E poi, quando ci incontriamo, un senso di commozione e tenerezza emerge. Perché conoscersi è come rinascere ogni volta.

La pratica di Mindfulness e Reparenting più che uno scavare in profondità è un aprire il campo della consapevolezza. Più dettagli riusiamo a percepire più aumentiamo la nostra consapevolezza, più siamo in grado di avere una visione ampia. da Genitori di sé stessi

Pratica di mindfulness: Le tre ali della compassione

© Nicoletta Cinotti 2023 Formazione in Reparenting

 

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