
Se dovessi dire qual è la difficoltà più frequente rispetto al lasciar andare direi che è la sensazione di non essere pronti. Che le cose debbano essere ancora concluse, ancora migliorate. È una considerazione singolare perchè può portare a tenere in vita il desiderio per una relazione già finita, può spingerci a fantasticare su qualcosa che ormai è immodificabile, come se il nostro pensiero, tenendolo in vita, potesse permetterci di cambiare qualcosa che non è andato nella direzione giusta.
Dietro a questi tentativi – a volte disperati a volte comici – c’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa. che se avessimo fatto, detto o agito diversamente, il risultato sarebbe stato profondamente diverso.
[box] Questo pensiero, questa sensazione, questa spinta, questo impulso, questo dolore, questa paura, questa rabbia, questo dubbio, questa tensione non dovrebbero essere qui. Questa è la voce che sta dietro alla nostra sofferenza. Jeff Foster[/box]
Giudicare sulla base del risultato
Giudicare sulla base del risultato è una grossa tentazione. Il risultato ci sembra la destinazione finale che svela il senso di quello che è avvenuto. il realtà al risultato concorrono tante variabili, molte delle quali totalmente fuori controllo. Eppure continuiamo a considerare che quel risultato sia solo nostro e quindi il segno personale della nostra riuscita e sconfitta. E così, se non ci piace, continuiamo a modificarlo fino a che non raggiunge la qualità desiderata. Peccato che a volte lo facciamo a prescindere dalle circostanze e a prescindere dalla volontà e collaborazione delle altre persone coinvolte. È così che un partner diventa uno stalker: non accetta il risultato finale. Vuole avere ancora una possibilità di cambiare le cose o, almeno, di cancellare il fallimento, cancellando la persona che lo rappresenta. Giudicare sulla base del risultato è sempre un atto egoico: è un nostro merito o una nostra colpa. In entrambi i casi il ruolo dell’altro è molto secondario, molto svalutato.
[box] Lascia andare quella voce interna dura e appuntita. È un eco del passato, Che non afferma nessuna verità su questo momento. Lascia andare il giudizio su di te, il vecchio e abituale modo di rimproverarti per ogni inadeguatezza immaginata. Permetti che il dialogo interno cresca amichevole e tranquillo. Spostati dalla critica interiore e la vita ti sembrerà improvvisamente molto diversa.Danna Faulds[/box]
Come sarebbe se considerassimo anche il ruolo dell’ambiente, delle circostanze, della volontà delle altre persone coinvolte? in che cosa si trasformerebbe la nostra determinazione? Come sarebbe se procedessimo a partire dalla nostra intenzione, mettendola in dialogo con la realtà? Come sarebbe se accettassimo le cose così come sono, così come sono andate, senza cercare di evitare il dolore del fallimento, il dolore della fine?
[box] Quando cerchiamo di sfuggire il nostro dolore, inizia la sofferenza: ci dividiamo in due. Una parte soffre e un’altra parte vuole essere fuori della sofferenza. Così ci frammentiamo: siamo metà dentro e metà fuori, rifiutando chi siamo e desiderando di essere altrove, proprio dove non riusciamo ad essere: questa è la vera sofferenza della nostra vita.[/box]
Il vero problema è che coltiviamo l’idea, la falsa credenza che in noi ci sia qualcosa di sbagliato e così ogni fallimento, ogni evento che non risponde alle nostre aspettative non solo ci ferisce ma anche lo temiamo. Temiamo che dimostri – una volta per tutte – una sorta di difetto di base che cerchiamo costantemente di migliorare.
Lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso
Siamo cresciuti nell’ottica positivista del miglioramento e così ci siamo dimenticati che, mentre affermiamo la nostra intenzione di migliorarci, affermiamo anche la nostra idea di essere inadeguati. Inoltre il perfezionamento richiede grinta, determinazione, sforzo. Richiede di non mollare fino a che non si arriva a destinazione, a prescindere dal senso del limite. Anzi, varcando il senso del limite per andare oltre. A ogni costo. In gioco c’è la nostra autostima: per questo non siamo tanto disponibili a lasciar andare.
Perchè lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso: entriamo in quello che c’è. Non significa rinunciare al cambiamento, al dinamismo, allo scorrere. Lo facciamo a partire da questo ingresso, radicale, nel presente. In fondo lasciar andare è una dichiarazione di non reattività: assaporo tutto fino in fondo, certo che da quel luogo nasca la spinta per il passo successivo. Non lotto ma accolgo e poi lascio che la forza di quello che accade mi porti in una direzione creativa. In una direzione in cui la mia creatività non è contro alla creatività della vita ma ne è parte.
Nell’Aikido c’è un movimento in cui rispondiamo all’avversario trasformandolo in un alleato e usando la forza del suo attacco come spinta per andare avanti. Lasciamo andare la difesa ed entriamo nell’energia dell’evento. Cosi lasciar andare diventa essere nella forza della marea, come dice Danna Faulds
[box] Lascia andare i modi in cui pensavi che si sarebbe svolta la tua vita: l’attaccamento ai piani, ai sogni o alle aspettative – lascia andare tutto. Conserva le forze per nuotare con la marea. La scelta di combattere ciò che hai ora di fronte avrà come risultato solo fatica, paura e tentativi disperati di fuggire da quella stessa energia che tanto desideri. Lascia andare. Danna Faulds[/box]
Aggrapparsi nel corpo e nella mente
Spesso pensiamo che quello che accade nel corpo e quello che accade nella mente non abbiano nessuna relazione. E’ un pensiero che nasce dalla nostra separazione tra corpo e mente. Se ristabiliamo l’originario senso di unità possiamo accorgerci che i movimenti sono speculari a ciò che proviamo mentalmente. Nutrono e sostengono le nostre idee e i nostri pensieri.
Aggrapparsi è uno dei movimenti che è più facile cogliere nella sua connessione corpo-mente ed è uno dei movimenti antagonisti al lasciar andare. Lasciar andare è praticare l’instabilità: aggrapparsi è cercare di bloccare il flusso
Quando non possiamo avere ciò che desideriamo la tensione dell’insoddisfazione perdura. Questo aggrapparsi accade sia per qualcosa che ci piace che per qualcosa che non ci piace. Se ci piace non vorremmo che finisse, se non ci piace non accettiamo che sia andata così e ci aggrappiamo all’idea di modificarlo. Ci aggrappiamo internamente ed esternamente e non solo come risultato del momento che viviamo, piacevole o spiacevole. E’ il risultato anche di tutti i momenti passati di piacere e dispiacere. Impariamo ad aggrapparci come estensione del nostro desiderio di sicurezza e l’alimentiamo con la nostra determinazione e volontà, con la fatica che abbiamo ad accettare che le cose siano come sono.
Nutriamo l’illusione che insistendo, aggrappandoci al nostro desiderio di ottenere un risultato, ci sarà possibile cambiare l’esito delle cose.
Possiamo sentire la fatica che comporta più facilmente se portiamo l’attenzione al corpo, alla morsa dei denti, alla tensione della fronte, delle spalle, del diaframma, delle mani e dei piedi. Queste nostre mani spesso tese come se fossimo aggrappati ad una fune. O piegate come se avessimo dei guantoni da boxe. Questi nostri piedi arroccati come se fossimo pappagalli sul trespolo. Poggiati a terra il minimo indispensabile.
La volontà non scioglie la nostra tendenza ad aggrapparci: solo la tenerezza la raggiunge. Solo la tenerezza ha la saggezza del lasciar andare e la saggezza del riconoscere i limiti. Solo la tenerezza sorride alla nostra prepotenza e guarda avanti, senza lottare.
Due note sul corpo per amore di Lowen
Lowen ha scritto delle pagine bellissime sul lavoro corporeo connesso all’aggrapparsi: uno dei cinque movimenti primari. In effetti aggrapparsi è un movimento tanto primario che è collegato ad un riflesso neuro-fisiologico: il riflesso di Moro. Quando eravamo dei primati sapersi aggrappare – fin dalla nascita – era fondamentale per non cadere nel vuoto e per rimanere a contatto con la madre anche durante i suoi spostamenti. Come dicevo prima però questo non riguarda solo il corpo. O meglio, il corpo dà forma alla mente e quindi se passiamo troppo tempo ad aggrapparci questo diventa uno schema automatico di risposta del corpo – mente. Una modalità che, per Lowen, è associata principalmente al carattere orale.
L’aggrapparsi è connesso al nostro orientamento primario a cercare il piacere e fuggire il dolore: un orientamento che organizza le nostre difese con cinque movimenti basilari che sono tenersi insieme, aggrapparsi, tenere dentro, tenersi sopra e tenersi indietro
Le cose, sull’argomento del piacere, si complicano un po’ quando insorgono le difese. il piacere infatti è strettamente connesso all’esperienza del fluire delle cose, dello scorrere senza interruzioni ma le nostre difese sono, di fatto, delle forme di controllo che limitano proprio il fluire. Ci troviamo quindi in una situazione paradossale: ci aggrappiamo per paura di perdere il piacere o per paura di provare dolore ma questo stesso aggrapparci limita la possibilità di provare piacere. Inoltre il piacere è connesso al protendersi e non possiamo protenderci e, contemporaneamente, stare aggrappati. Ed iniziamo così il conflitto e l’ambivalenza. Vogliamo ma non vogliamo, ci piacerebbe ma abbiamo paura. Vorremmo fare il primo passo ma siamo spaventati dal vuoto. Ecco perchè il movimento dell’aikido che citavo prima è tanto importante: permette che le tre fasi del lasciar andare avvengano.
Il processo del lasciar andare
Quando siamo aggrappati a qualcosa siamo anche, ironicamente, molto competenti. Conosciamo bene il nostro dolore, le nostre difficoltà, ciò che vogliamo. Più siamo aggrappati a qualcosa o a qualcuno, con la convinzione che ci protegga dai pericoli, o che ci garantisca la felicità, più siamo competenti in quella situazione. Anche perchè è una situazione statica. Lasciar andare comporta un rischio – un rischio squisito – non sapere esattamente cosa succederà.
Perché lasciar andare presuppone tre fasi (belle come una danza): aprirsi, protendersi ed entrare in contatto, in intimità con il presente. Non basta aprirsi – aprire le mani, aprire il cuore, aprire la mente – ci vuole anche l’intenzione di esserci, espressa da una protensione – impercettibile o ampia – perchè avvenga quell’intimità con il presente che nasce dal contatto. Lasciar andare è tutt’altro che un atto statico: è incontrare l’inevitabile cambiamento che avviene quando ci apriamo al vuoto. Perchè la prima cosa che incontriamo lasciando andare è il vuoto e la sua assoluta novità. Torniamo dei principianti, perdiamo le storie già costruite, le narrazioni con le quali ci siamo identificati. Siamo Indiana Jones che vuole arrivare al Sacro Graal; per farlo il primo passo è nel vuoto. È quel primo passo che ci mostra la strada. Senza correre il rischio di cadere nel vuoto la strada non si rivela, la novità non arriva.
Se non corriamo il rischio di tornare dei principianti, se rimaniamo aggrappati alla nostra competenza, il prezzo che paghiamo è quello di frenare la nostra crescita e ostacolare la nostra fioritura. Ecco perchè i momenti più difficili della nostra vita sono, molto spesso, importanti punti di svolta. In quei momenti raccogliamo il coraggio per lasciar andare perchè quello che abbiamo non ci sembra più così interessante. Non ci sembra più così salvifico da rimanerci aggrappati.
Il disarmo della tenerezza
Questo tornare principianti ci rende dis-armati. Non solo perchè abbiamo lasciato andare, non solo perchè ci siamo permessi di sciogliere e fluire. È proprio perchè non sappiamo prima quello che succederà dopo che può emergere un senso di tenerezza rispetto a quello che accade
[box] Chi è tenero non vuole farcela a tutti i costi, vuole sentire come sta e sentire come stanno gli altri, è sorella e fratello, non è genitore, non è maestro. La tenerezza sa stare alla pari, fianco a fianco, non è frontale. Chandra Livia Candiani[/box]
E se, alla fine, non fosse proprio la tenerezza quella che perdiamo quando non lasciamo andare?
© Nicoletta Cinotti 2017
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