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piacere

Il sollievo dell’evitamento

27/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Evitare non è una pratica insolita. Evitiamo i pericoli, evitiamo i conflitti. Cerchiamo di evitare gli errori e i fallimenti.

C’è poi un evitare che ha una natura particolare: è quello che ci fornisce un sollievo momentaneo e immediato da qualcosa di sgradevole. Dobbiamo fare qualcosa che non ci piace? Rimandiamo, evitando così quel fastidio. Dobbiamo rispondere a qualcuno e non sappiamo cosa dire? Rimandiamo ed evitiamo quella difficoltà.

L’evitamento, in questi casi, sembra una soluzione miracolosa. Fino ad un attimo prima proviamo disagio, un attimo dopo è passato perché abbiamo deciso di procrastinare, di spostare in avanti quello che dobbiamo fare e il sollievo che ne abbiamo provato è stato immediato.

È questa specie di piacere – leggero e pieno di sollievo – che rende l’evitamento una risposta così amabile. È come essere schiacciati e, evitando, essere liberi dalla pressione. Siccome il nostro orientamento primario è verso il piacere e solo secondariamente verso la realtà, la risposta istintiva sarebbe evitare. Evitare il dolore che nasce dall’andare incontro allo spiacevole a favore del sollievo che nasce dal rimandare.

Se guardiamo però in una prospettiva temporale più ampia, spesso quel rimandare non fa che accrescere il dolore che dovremo affrontare dopo. Non fa che peggiorare la situazione. Eppure, in quel momento, diventiamo i più convinti sostenitori della bontà del momento presente. Il futuro sparisce, il passato non esiste. Sotto tutto questo non c’è un incantesimo ma una vecchia compagnia. Si chiama paura. E, nello specifico, paura di muoversi. Se le lasciamo dominare la nostra vita ci convincerà che nulla è più sicuro che stare fermi, ad aspettare che siano gli altri a scegliere e noi ci ritroveremo con una vita che non ci assomiglia nemmeno un po’. Perché è quella disegnata dalle scelte degli altri. Noi, le nostre, le abbiamo rimandate. Per ansia.

La paura è utile per valutare i pericoli. Il coraggio per affrontarli. Nicoletta Cinotti, Mindfulness ed emozioni

Pratica del giorno: Lavorare con la paura

©Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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L’inversione del desiderio

08/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo cresciuti con l’idea che le cose, per farle, bisogna sentirsele. E questo può essere un buon criterio che ci libera dallo sforzo, dalla pressione.

Come tutti i criteri ha delle condizioni, dei prerequisiti, perché abbia senso seguirlo. Ci sono, infatti, molte situazioni in cui sappiamo che dovremmo fare qualcosa – sappiamo che ci fa bene – ma non ne abbiamo voglia. Oppure situazioni in cui, all’opposto, sappiamo che quella cosa che desideriamo tanto, ci fa decisamente male. Quella sigaretta in più, quel dolce in più, quel bicchiere in più sappiamo che, dopo, sarà tutt’altro che un piacere.

Come muoversi quindi rispetto al sentirsi o non sentirsi e rispetto al lasciare che  quello che facciamo  nasca da quello che sentiamo?

Intanto partiamo dal basso: partiamo dall’umore. Se l’umore è basso non abbiamo voglia di fare quello che ci fa bene: abbiamo voglia di rimanere richiusi nelle abitudini che ci danno un conforto immediato, anche se dopo ci fanno male. In questi casi è meglio non fare quello che ci sentiamo di voler fare e fare, anzi l’opposto. Uscire se abbiamo voglia di stare in casa, non mangiare se abbiamo voglia di addentare un altro biscotto.

Se invece quello che desideriamo è un piacere, se è un atto di cura per noi, non facciamoci fermare dal senso di colpa, da quella vocina che è subito pronta a giudicarci egoisti: facciamo pure quello che ci sentiamo di fare. È il senso di colpa che va messo in un cassetto e non il nostro desiderio!

La paura del piacere è la paura del dolore, non solamente il dolore fisico che il piacere provoca nel corpo rigido e contratto ma anche il dolore psicologico della perdita, della frustrazione e dell’umiliazione. Durante la nostra crescita superiamo questi dolori reprimendo la tristezza, la paura, la collera. Agendo in questa maniera diminuiamo le nostre capacità di amare, di provare gioia e piacere. Alexander Lowen

Pratica del giorno: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online. Ultimi giorni in early bird

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L’incantesimo dell’ansia

09/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Non sempre è facile riconoscere quello che sentiamo. In parte perché – se è un’emozione costante o molto ripetuta – finiamo per cadere in una sorta di assuefazione. E questa assuefazione è come un pilota automatico: ci allontana dalla realtà del momento presente.

È una specie di insonorizzazione: l’emozione ci arriva coperta e filtrata. Questo accade molto spesso con l’ansia. Siccome è scomoda e frequente, finiamo per coprirla con una specie di analgesia che ci fa sentire torpidi e confusi. Magari per svegliarci prendiamo il caffè ma – siccome aumenta l’ansia – ci sentiamo ancora più offuscati.

In quei momenti è come se un mago avesse fatto un incantesimo. Per uscire da quell’incantesimo non abbiamo bisogno di trovare una soluzione. Abbiamo bisogno di sentire quello che sta succedendo, fermarsi con il respiro, portando l’attenzione al corpo. Allora possiamo scoprire che a volte le emozioni sono in strati, una sopra l’altra e se le riconosciamo e nominiamo possiamo riprendere vitalità e lasciare che si trasformino in qualcosa di diverso. Ascoltare è la formula per uscire dall’incantesimo dell’ansia. Ascoltare ciò che è vicinissimo, ciò che è vicino, ciò che si allontana, ciò che è lontano. Perché l’ansia offusca togliendo il senso della prospettiva mentre se ascoltiamo, con cerchi sempre più ampi – o sempre più profondi – possiamo diluirla, allargando il panorama dell’attenzione.

Una volta diventati adulti è difficile riportare le emozioni nel loro regno e non investire i segnali fisici della propria ansia. A volte la somatizzazione scatena veri e propri attacchi di panico che contribuiscono a rafforzare l’idea della vulnerabilità come minaccia per la sopravvivenza. In questo caso imparare strategie di conforto è fondamentale perché è la paura di andare in pezzi che ha più bisogno di strategie personali di consolazione. Cinotti, Nicoletta. Genitori di sé stessi (la pietra filosofale) (Italian Edition) (pp.94-95). Enrico Damiani Editore. Edizione del Kindle.

Pratica di mindfulness: Rabbia e paura: una pratica oppure una vecchia pratica che merita di essere rispolverata Mindfulness e dolore fisico

© Nicoletta Cinotti 2023 Il programma di Mindful Self-compassion

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Non fermare il fiume

24/06/2023 by nicoletta cinotti

Non fermare il fiume

Sono numerose le situazioni in cui da genitori si vorrebbe dire solo “stop” e l’atteggiamento che si ha è esattamente quello di bloccare la palla e di smettere di giocare. Senza voler sapere come sarebbe andata altrimenti.

Ora basta!

E’ come se a un certo punto si dicesse: “Basta, non andiamo oltre”. O meglio “non impariamo oltre”, perché la dinamica coinvolge i processi di apprendimento ed esplorazione, tanto del mondo interno quanto del mondo interno.

Uno dei modi di farlo è stoppare la curiosità, che è  la base del processo stesso dell’imparare. Un altro modo è il voler  fermare le emozioni dell’altro, nel momento in cui noi stessi non siamo in grado di sostenerle. Un altro modo ancora è smettere di chiedere qualcosa quando un figlio non ci ascolta.

Osservare queste dinamiche di chiusura, i modi in cui “sbattiamo la porta”, diventa il modo migliore per trovare un’alternativa di apertura e condivisione, per dare spazio alla relazione con i nostri figli.

Oltre la risposta giusta

Si pensa che ad ogni interrogativo debba esistere un’unica, giusta, risposta, dimenticando che ogni domanda è un processo vitale, vivo, che è meglio alimentare piuttosto che spegnere in fretta. Pensiamo alle domande dei bambini, nel momento degli estenuanti “perché”, ma anche a qualsiasi domanda un figlio possa fare a un padre e una madre, per saperne di più sul mondo di cui è parte.

Quando non si conosce la risposta, o quando non si sa cosa dire, spesso si preferisce estinguere l’argomento il prima possibile. Succede o perché si è distratti o semplicemente perché si è talmente focalizzati sul risultato da non apprezzare più il processo stesso dell’imparare -che nelle relazioni è un’azione che si può compiere in due.

Si dice che, per disegnare dal vero, è più utile concentrarsi sull’oggetto che si guarda che sul foglio su cui tracciamo le linee. Le domande sono ciò a cui guardare per imparare.

Per cui, se non sappiamo una risposta, potremmo invitare all’immaginazione, o dire qualcosa come “Scopriamolo insieme”: trovare quindi una risposta che apra orizzonti invece che chiuderli, ammettendo i propri limiti, ponendosi sullo stesso livello e condividendo la curiosità. Quando capita che, non certi del risultato, glissiamo e diamo risposte sterili o affrettate, non impara nessuno, perché si ferma il gioco.

Si impara in due nel momento in cui si sposta l’attenzione dal risultato al processo; allora si è in grado di notare, per esempio, la bellezza di una domanda che mai ci sarebbe venuta in mente, gli spunti che fa sorgere, il significato di esplorare insieme le risposte possibili. Si abitua il figlio a vivere in uno spirito di curiosità e apertura al mondo, che non è fatto di risposte univoche e unilaterali, ma è dialogo e anche mistero

Il diritto di sentirsi come ci si sente

Come si dice “stop” alla curiosità si può dire “stop” alle emozioni, rischio ancor più frequente e diffuso.

Quante volte sentiamo le frasi “Non essere triste”, “Non essere arrabbiato/a”, “Non devi avere paura”? Crediamo di voler essere di aiuto, ma lo diciamo quando non siamo a nostro agio con le emozioni degli altri. Non vorremmo che l’altro avesse paura, non vorremmo che fosse arrabbiato, non vorremmo che fosse triste, perché questo ci fa soffrire, perché vorremmo solo il suo bene.

Il problema è che le emozioni non si fermano a comando. Soprattutto, proprio come le domande, è meglio farle fluire piuttosto che fermarle o liquidarle. Quando diciamo a una persona “Non essere triste”, creiamo una disconnessione tra quella persona e il suo stato d’animo: non permettiamo che quella persona si senta come si sta sentendo, togliendole il diritto di provare un’emozione che è spiacevole anche per noi.

Lo mettiamo nero su bianco quando diciamo “non voglio vederti così”, “mi fa male vederti così”. Eppure quella persona, che vorremmo vedere diversa, in quel momento è proprio così. E non cambierà solo perché glielo si dice, piuttosto verrà indotta a credere che sentirsi come si sente sia un errore.

Ragioniamo a frasi fatte, chiuse, anche quando dichiariamo i motivi di un comportamento dell’altro che non ci piace. Per esempio, un figlio è irritabile e non ha voglia di studiare. Allora può capitare di dire “Non studi perché non ti importa niente di imparare”. E’ davvero quello il motivo? O potrebbe essere semplicemente stanco o  disturbato da pensieri che non conosciamo? Per stabilire una connessione, è importante andare oltre le nostre reazioni automatiche e chiedersi qual è il vero motivo. Che a volte possiamo indovinare, a volte no. L’importante è accettare che si senta in un determinato modo e aiutarlo ad esprimere quello che prova. Se mostra un malessere comportandosi “male”, invitiamolo ad esempio ad esprimere la stessa sensazione in un modo diverso, più diretto. Possiamo anche coinvolgerci personalmente, raccontando un momento in cui ci siamo trovati in una situazione simile.

Empatia significa avere e sentire il permesso di fare qualsiasi esperienza, di provare tutte le emozioni.

Detto questo, dietro ogni comportamento pericoloso c’è una persona che sta sperimentando delle emozioni difficili, che non ha mai imparato a gestire. Per questo dobbiamo avere fiducia nei figli, non identificarli nel loro comportamento. E aiutarli ad esprimere le emozioni in modo diretto, invece che indiretto. Tutti gli errori sono come le domande: degli spazi di apertura.

Dire “stop” a noi stessi

I figli non sono gli unici in cui dobbiamo riporre la nostra fiducia. Allo stesso modo è importante dare fiducia anche a noi stessi. E saper perseguire i nostri intenti fino in fondo, senza fermarci. Nel rapporto con i figli, capita di dover ripetere le cose più e più volte. In alcuni casi diventa una canzone ad libitum: la richiesta sfuma, diventando sempre più flebile fino a scomparire. Allora il figlio capisce che può fare a modo suo. E’ come se a un certo punto non credessimo più che lui possa davvero rispondere positivamente. Anche quando la richiesta va in crescendo, e si alza la voce, può essere ugualmente disperata.

Quando si è estenuati, è frequente usare il “per piacere”, anche per richieste importanti. In questo modo si lascia al figlio la scelta di farla o no, di farci o meno questo piacere. Con questa espressione a volte parliamo più del nostro sfinimento che della nostra gentilezza, e finisce che non siamo influenti. La fiducia in se stessi va mantenuta, dall’inizio fino alla fine. Come un fiume, dobbiamo in qualche modo arrivare al mare. Possiamo negoziare, invitare a soluzioni creative, ma sempre con costanza e determinazione.

Si riesce a insegnare qualcosa solo quando si sente profondamente il proprio diritto a insegnarlo e il proprio diritto ad essere rispettati.

Allora non fermare il fiume. Non dimenticare il tuo mare. Permetti alle emozioni, tutte, di fluire naturalmente, che sia dolcemente o a cascata. Permetti che le domande scorrano, trascinando anche le tue. Non fermare il fiume. Ne varrà la pena.

© Silvia Cappuccio  da Conscious parent

International Teacher Training di Mindful Parenting

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Spiriti affamati e sguardi da principianti

29/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono molte ragioni per cui possiamo avere fame: a volte è un fatto letterale. Altre volte però abbiamo tutto e continuiamo a sentirci affamati. Di una fame che il cibo non sazia. E che il successo non colma.

È la fame di contatto, di relazioni nutrienti. Di sentimenti autentici. Quella fame che, a volte, ci porta alla spasmodica ricerca di nuove relazioni. Nella speranza che accada quello che finora non è accaduto, se non per brevi momenti: saziarci.

Non ci rendiamo conto che, perché accada, il punto non è ricevere dall’altro quello di cui abbiamo bisogno. O quello che vogliamo. Non è avere un legame inossidabile. Piuttosto è necessario accogliere l’inevitabilità del cambiamento. Se ci aggrappiamo al ricordo dei momenti piacevoli che abbiamo vissuto e cerchiamo di riprodurli, rimarremo affamati. Perché il piacere è in continuo cambiamento. E, in una relazione questa mutevolezza e imprevedibilità diventano segni che interpretiamo, spesso, troppo spesso, come ferita e fallimento.

Ogni giorno può portarci piaceri nuovi. Nessun giorno può riportarci piaceri vecchi.

Se accogliamo l’inevitabilità di questo processo che ci rende vulnerabili al nuovo, accogliamo anche il potenziale di crescita delle nostre relazioni. E diamo il benvenuto alla relazione che c’è oggi. Non cerchiamo invano quella che c’era ieri, perché altrimenti rimarremo affamati, a bocca asciutta. Con la sensazione di aver perso qualcosa anche se, invece, lo abbiamo proprio di fronte a noi.

Così ogni giorno potremo ritrovare quello spirito da principiante di quando ci siamo innamorati. Quando ogni cosa era una sorpresa perché appena ci conoscevamo. Perché ogni giorno – dentro e fuori dalla relazioni – è interamente nuovo e aspetta di essere vissuto con uno sguardo da principiante.

Il nostro sforzo è quello di aggrapparci a quello che vogliamo e alla paura di perderlo. È la tensione legata a questo aggrapparsi che produce sofferenza. Gregory Kramer

Pratica di mindfulness: Pratica di accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023 Reparenting ourselves: Diventare genitori di sé stessi. Ritiro di bioenergetica e mindfulness

 

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