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rabbia

Emozioni: come nascono, come cambiano

16/09/2023 by nicoletta cinotti

Mi capita spesso di sentirmi chiedere la differenza tra emozioni e sentimenti oppure di sentirmi chiedere perché le emozioni sono più importanti dei fatti. Ho pensato quindi che un po’ di chiarezza potesse essere utile.

Intanto proviamo a vedere che cosa produce un’emozione

che cosa produce un'emozioneUn’emozione è frutto di 4 elementi continuamente in interazione tra di loro. Tutti questi elementi possono formare l’innesco all’emozione così come viene percepita.

I pensieri sono quelli che contribuiscono a rendere l’emozione più continuativa nel tempo e la legano alla nostra storia personale e relazionale. Le sensazioni fisiche danno il felt sense ed è quello che attiva o meno il segnale di pericolo. I sentimenti ci parlano invece della nostra storia relazionale e personale e danno un colore e un tono all’umore oltre che alla singola emozione. Gli impulsi sono le nostre tendenze di base, diverse da persona a persona anche se condivise da tutti gli esseri umani.

Il ruolo del corpo

Fino a non molto tempo fa non credevamo che il corpo avesse un ruolo nell’esperienza emotiva. Oggi sappiamo che non è così: ciò che accade nella mente non ha una esistenza autonoma ma è una parte fondamentale del corpo stesso e tra il corpo e la mente c’è un continuo scambio di informazioni reciproche. Molto di ciò che il corpo sente è influenzato dai pensieri e, contemporaneamente, tutto quello che pensiamo è mosso da ciò che accade nel corpo, come ha originalmente illustrato Alexander Lowen.

Johannes Michalak, dell’università della Ruhr, e il suo gruppo di ricerca, ha studiato le differenze di movimento tra un gruppo di persone depresse e un gruppo di controllo, attraverso 40 microsensori posizionati in tutto il corpo. Le persone depresse avevano meno mobilità dalla vita in su e una camminata con oscillazioni laterali, una posizione ingobbita e pendente in avanti. Non solo. Se il gruppo di controllo era invitato a simulare per un certo periodo di tempo questa posizione, pur non essendo depressi, il loro umore cambiava.

Minaccia interna e minaccia esterna

Non consideriamo diversamente una minaccia interna e una minaccia esterna. In presenza di un pericolo, il corpo si prepara a rispondere e la sua risposta muscolare condiziona il profilo di attivazione mentale e le emozioni che possono emergere. In questo modo attiviamo un circolo vizioso tra la mente e il corpo che rende difficile produrre emozioni diverse senza passare dal cambiamento delle tensioni fisiche.

Fortunatamente le emozioni sono variabili e quindi possiamo passare da una all’altra velocemente ma se le nostre tensioni fisiche sono stabili avremo più probabilità di provare sempre le emozioni che le hanno generate. Oppure, quelle stesse emozioni dureranno più a lungo.

Le costellazioni emotive

In superficie sembra che le emozioni siano poco collegate le une alle altre. In realtà le emozioni si muovono in gruppi coerenti di stati emotivi nei quali un singolo elemento dello schema innesca tutto il resto.

Ci capita di rado di provare solo tensione o solo tristezza. Queste finiscono per intrecciarsi con vulnerabilità, rabbia, amarezza, gelosia, dolore: tutti sentimenti che possono essere orientati verso gli altri o verso noi stessi.

Nel corso della nostra vita queste costellazioni possono combinarsi strettamente con determinati pensieri, sensazioni fisiche, comportamenti e così il passato comincia ad avere un effetto pervasivo sulle esperienze emotive del presente.

Il problema del perché

Una delle caratteristiche della mente umana è quella di cercare spiegazioni per quello che prova. Non ci basta sentire una emozione: abbiamo bisogno di sapere perché proviamo quella specifica emozione. La domanda “perché” è forse una delle domande più importanti nella storia dell’umanità. Ci ha permesso una crescita culturale e scientifica che ha disegnato la nostra possibilità di progresso. Non sempre però questa domanda ci aiuta. Soprattutto è una domanda che non ci permette di comprendere tutto e che rischia, invece, di diventare un chiodo fisso.

Quando siamo infelici è naturale cercare di scoprire perché ci sentiamo così e di trovare una maniera di risolvere il problema che ha causato la nostra infelicità. Solo che le emozioni non possono essere risolte: possono solo essere provate. Una volta che ne hai riconosciuto l’esistenza e hai lasciato andare la tendenza a spiegarle o a sbarazzartene, è molto più probabile che svaniscano da sole.

Quando si cerca di risolvere il problema dell’infelicità (o di qualunque altra emozione negativa) si mette in uso uno degli strumenti più potenti della mente: il pensiero razionale critico. Funziona così: ci si vede in un posto (infelici) e si sa dove si vorrebbe essere invece (felici). A quel punto la mente analizza la distanza fra le due alternative e cerca di elaborare il modo migliore per collegarle fra loro. Allo scopo utilizza la sua modalità del fare, detta così perché riesce bene a risolvere i problemi e a portare a compimento le azioni. Penman, Williams

La modalità del fare

La modalità del fare opera riducendo progressivamente la distanza che c’è tra il punto in cui siamo e quello in cui vorremmo essere. Lo facciamo frammentando il problema in parti più piccole, cercando di risolvere ognuna di queste parti per avvicinarsi all’obiettivo del benessere che andiamo cercando.

Rispetto alla  nostra vita emotiva questa modalità è controproducente: non possiamo costringerci a provare emozioni diverse da quelle che proviamo e la regolazione cognitiva non ha efficacia sulle emozioni. Rischiamo che questa modalità ci porti a farci domande senza soluzione: “Cosa c’è in me che non va?” Perché ho sbagliato?” Perché continuo a fare sempre questi errori?”. In questo modo entriamo in una modalità rimuginativa che non permette la fisiologia del cambiamento emotivo.

Le persone sono sinceramente convinte che se si preoccuperanno a sufficienza della propria infelicità finiranno per trovare una soluzione, che basterà solo fare un ultimo sforzo, ragionare ancora un po’ sul problema… La ricerca invece mostra il contrario: di fatto rimuginare riduce la nostra capacità di risolvere i problemi. Ed è assolutamente inutile per gestire difficoltà emotive. È evidente: rimuginare è il problema, non la soluzione.

© Nicoletta Cinotti 2023 Mindfulness ed emozioni

Ultimi giorni per iscriversi al Protocollo MBCT, Mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive

Il Protocollo MBCT: Protocollo per la prevenzione delle ricadute depressive

 

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Rimanere innamorati

14/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ogni percorso inizia con un passo, e prosegue con tanti passi successivi. Non ha valore solo arrivare ma questo camminare è, in sé e per sé, pieno di significato. Eppure, una delle cose che spesso ci è difficile, è proprio continuare. Siamo animati da un sacro fuoco iniziale, spinti dall’entusiasmo partiamo per nuove imprese che, con il passare del tempo, ci sembrano sempre meno interessanti.

Che cos’è che rende alcune persone determinate e fedeli e altri dei grandi iniziatori che non portano a termine ciò che hanno iniziato? E, soprattutto, qual è la determinazione di cui abbiamo bisogno?

Credo che il punto sia la differenza tra innamorarsi e amare. Abbiamo bisogno di innamorarci per diventare più coinvolti in una relazione o più coinvolti in una attività. Ci sono persone soggette ai colpi di fulmine e altre un po’ più refrattarie. Tutti noi però abbiamo bisogno di innamorarci. Per continuare però essere innamorati non basta: abbiamo bisogno di incominciare ad amare quello che stiamo facendo.

Non diversamente da quello che succede in una relazione: per rimanere non basta innamorarsi. Abbiamo bisogno di incominciare ad amare. Incominciare ad amare è come atterrare: una delle fasi più delicate del volo. Inizi a vedere le difficoltà, inizia a sparire quell’aura di idealizzazione che è tipica dell’innamoramento e che ti fa sembrare che tutto sia perfetto. Ti trovi di fronte ad un bivio: da una parte c’è l’avversione e dall’altra l’accettazione. Se prendi la strada dell’avversione – del reagire con rabbia o paura a quello che succede – prima o poi il coinvolgimento finirà. Finirà l’innamoramento e finirà anche la tua voglia di continuare.

Se prendi la strada dell’accettazione ogni volta che sorgerà una difficoltà, un problema, sentirai la frizione che produce, e, come se fosse una mola, lascerai che quella frizione ti renda più affilato, più capace di andare in profondità. Ti permetterà di cogliere una sfumatura che non avevi visto e renderà tutto di nuovo fresco e interessante.

Attenzione però: l’accettazione non è rassegnazione. La rassegnazione in realtà va nella strada dell’avversione e anche se non è detto che porti alla fine della relazione, sicuramente fa finire l’innamoramento. Sicuramente fa finire l’interesse.

La grinta non è lavorare duro. Questo è solo una parte. La grinta è lavorare su qualcosa di cui ti prendi così cura che vuoi rimanere fedele. È fare ciò che ami, non è innamorarsi ma è rimanere innamorati. Angela Duckworth

Pratica di mindfulness: Pratica di accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023 Il programma di Mindful self compassion online

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Non fermare il fiume

24/06/2023 by nicoletta cinotti

Non fermare il fiume

Sono numerose le situazioni in cui da genitori si vorrebbe dire solo “stop” e l’atteggiamento che si ha è esattamente quello di bloccare la palla e di smettere di giocare. Senza voler sapere come sarebbe andata altrimenti.

Ora basta!

E’ come se a un certo punto si dicesse: “Basta, non andiamo oltre”. O meglio “non impariamo oltre”, perché la dinamica coinvolge i processi di apprendimento ed esplorazione, tanto del mondo interno quanto del mondo interno.

Uno dei modi di farlo è stoppare la curiosità, che è  la base del processo stesso dell’imparare. Un altro modo è il voler  fermare le emozioni dell’altro, nel momento in cui noi stessi non siamo in grado di sostenerle. Un altro modo ancora è smettere di chiedere qualcosa quando un figlio non ci ascolta.

Osservare queste dinamiche di chiusura, i modi in cui “sbattiamo la porta”, diventa il modo migliore per trovare un’alternativa di apertura e condivisione, per dare spazio alla relazione con i nostri figli.

Oltre la risposta giusta

Si pensa che ad ogni interrogativo debba esistere un’unica, giusta, risposta, dimenticando che ogni domanda è un processo vitale, vivo, che è meglio alimentare piuttosto che spegnere in fretta. Pensiamo alle domande dei bambini, nel momento degli estenuanti “perché”, ma anche a qualsiasi domanda un figlio possa fare a un padre e una madre, per saperne di più sul mondo di cui è parte.

Quando non si conosce la risposta, o quando non si sa cosa dire, spesso si preferisce estinguere l’argomento il prima possibile. Succede o perché si è distratti o semplicemente perché si è talmente focalizzati sul risultato da non apprezzare più il processo stesso dell’imparare -che nelle relazioni è un’azione che si può compiere in due.

Si dice che, per disegnare dal vero, è più utile concentrarsi sull’oggetto che si guarda che sul foglio su cui tracciamo le linee. Le domande sono ciò a cui guardare per imparare.

Per cui, se non sappiamo una risposta, potremmo invitare all’immaginazione, o dire qualcosa come “Scopriamolo insieme”: trovare quindi una risposta che apra orizzonti invece che chiuderli, ammettendo i propri limiti, ponendosi sullo stesso livello e condividendo la curiosità. Quando capita che, non certi del risultato, glissiamo e diamo risposte sterili o affrettate, non impara nessuno, perché si ferma il gioco.

Si impara in due nel momento in cui si sposta l’attenzione dal risultato al processo; allora si è in grado di notare, per esempio, la bellezza di una domanda che mai ci sarebbe venuta in mente, gli spunti che fa sorgere, il significato di esplorare insieme le risposte possibili. Si abitua il figlio a vivere in uno spirito di curiosità e apertura al mondo, che non è fatto di risposte univoche e unilaterali, ma è dialogo e anche mistero

Il diritto di sentirsi come ci si sente

Come si dice “stop” alla curiosità si può dire “stop” alle emozioni, rischio ancor più frequente e diffuso.

Quante volte sentiamo le frasi “Non essere triste”, “Non essere arrabbiato/a”, “Non devi avere paura”? Crediamo di voler essere di aiuto, ma lo diciamo quando non siamo a nostro agio con le emozioni degli altri. Non vorremmo che l’altro avesse paura, non vorremmo che fosse arrabbiato, non vorremmo che fosse triste, perché questo ci fa soffrire, perché vorremmo solo il suo bene.

Il problema è che le emozioni non si fermano a comando. Soprattutto, proprio come le domande, è meglio farle fluire piuttosto che fermarle o liquidarle. Quando diciamo a una persona “Non essere triste”, creiamo una disconnessione tra quella persona e il suo stato d’animo: non permettiamo che quella persona si senta come si sta sentendo, togliendole il diritto di provare un’emozione che è spiacevole anche per noi.

Lo mettiamo nero su bianco quando diciamo “non voglio vederti così”, “mi fa male vederti così”. Eppure quella persona, che vorremmo vedere diversa, in quel momento è proprio così. E non cambierà solo perché glielo si dice, piuttosto verrà indotta a credere che sentirsi come si sente sia un errore.

Ragioniamo a frasi fatte, chiuse, anche quando dichiariamo i motivi di un comportamento dell’altro che non ci piace. Per esempio, un figlio è irritabile e non ha voglia di studiare. Allora può capitare di dire “Non studi perché non ti importa niente di imparare”. E’ davvero quello il motivo? O potrebbe essere semplicemente stanco o  disturbato da pensieri che non conosciamo? Per stabilire una connessione, è importante andare oltre le nostre reazioni automatiche e chiedersi qual è il vero motivo. Che a volte possiamo indovinare, a volte no. L’importante è accettare che si senta in un determinato modo e aiutarlo ad esprimere quello che prova. Se mostra un malessere comportandosi “male”, invitiamolo ad esempio ad esprimere la stessa sensazione in un modo diverso, più diretto. Possiamo anche coinvolgerci personalmente, raccontando un momento in cui ci siamo trovati in una situazione simile.

Empatia significa avere e sentire il permesso di fare qualsiasi esperienza, di provare tutte le emozioni.

Detto questo, dietro ogni comportamento pericoloso c’è una persona che sta sperimentando delle emozioni difficili, che non ha mai imparato a gestire. Per questo dobbiamo avere fiducia nei figli, non identificarli nel loro comportamento. E aiutarli ad esprimere le emozioni in modo diretto, invece che indiretto. Tutti gli errori sono come le domande: degli spazi di apertura.

Dire “stop” a noi stessi

I figli non sono gli unici in cui dobbiamo riporre la nostra fiducia. Allo stesso modo è importante dare fiducia anche a noi stessi. E saper perseguire i nostri intenti fino in fondo, senza fermarci. Nel rapporto con i figli, capita di dover ripetere le cose più e più volte. In alcuni casi diventa una canzone ad libitum: la richiesta sfuma, diventando sempre più flebile fino a scomparire. Allora il figlio capisce che può fare a modo suo. E’ come se a un certo punto non credessimo più che lui possa davvero rispondere positivamente. Anche quando la richiesta va in crescendo, e si alza la voce, può essere ugualmente disperata.

Quando si è estenuati, è frequente usare il “per piacere”, anche per richieste importanti. In questo modo si lascia al figlio la scelta di farla o no, di farci o meno questo piacere. Con questa espressione a volte parliamo più del nostro sfinimento che della nostra gentilezza, e finisce che non siamo influenti. La fiducia in se stessi va mantenuta, dall’inizio fino alla fine. Come un fiume, dobbiamo in qualche modo arrivare al mare. Possiamo negoziare, invitare a soluzioni creative, ma sempre con costanza e determinazione.

Si riesce a insegnare qualcosa solo quando si sente profondamente il proprio diritto a insegnarlo e il proprio diritto ad essere rispettati.

Allora non fermare il fiume. Non dimenticare il tuo mare. Permetti alle emozioni, tutte, di fluire naturalmente, che sia dolcemente o a cascata. Permetti che le domande scorrano, trascinando anche le tue. Non fermare il fiume. Ne varrà la pena.

© Silvia Cappuccio  da Conscious parent

International Teacher Training di Mindful Parenting

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Fare meno fatica a vivere

26/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Spesso, quando parliamo di cambiamento, ci troviamo a sottolineare le difficoltà insite a quello che è, in realtà, un processo tanto inevitabile quanto naturale.

Siamo tutti soggetti ad un continuo processo di cambiamento. Siamo strutturati per farlo. Se non fosse così non potremmo crescere, né fisicamente né emotivamente o spiritualmente.

La nostra struttura psico-fisica mantiene aperte le possibilità di crescita per almeno 20 anni: quelle di crescita emotiva e spirituale per tutta la vita. È la rigidità che strutturiamo nel tempo il più grande ostacolo al cambiamento.Noi, invece, abbiamo una dotazione innata per poter cambiare. E la rigidità nasce da due cose: la paura e la rabbia.

Quando ci spaventiamo contraiamo in modo involontario i muscoli. E lo stesso facciamo quando ci arrabbiamo. Due emozioni che, peraltro, sono strettamente legate l’una all’altra. Spesso la rabbia nasconde la paura e viceversa. Quindi, alla fine, se siamo rigidi è perchè siamo spesso spaventati e/o arrabbiati. E se non riusciamo a cambiare perchè – invece che lottare con programmi e metodi frustranti quanto inefficaci – non chiedersi “Di cosa ho paura” e “Cosa mi fa arrabbiare”? La risposta ci darà la mappa della nostra difficoltà al cambiamento e, insieme, la soluzione al nostro dilemma. Perchè se non possiamo lasciar andare la nostra rabbia e la nostra paura non avremo altre alternative che rimanere aggrappati dove siamo, in questo preciso momento. E sperare che sia la cosa a cui siamo aggrappati a spostarsi. Perchè noi, nel frattempo, rimarremo fermi. Paralizzati dalla paura o impegnati a trattenere la rabbia.

Non abbiamo bisogno di trionfare per cambiare, né di essere in guerra con il mondo o con noi stessi ma solo di lasciar andare quello a cui rimaniamo aggrappati. Finiremo nel flusso naturale del cambiamento e faremo molta meno fatica a vivere.

Aumenta la tua disponibilità e la tua consapevolezza a guardare anzitutto che cosa c’è. Questo è il miglior modo per cambiare. Virginia Satir

Pratica di mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2023 Tornare a casa

Tornare a casa

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Togliersi le scarpe e la delusione in amore

10/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando ci innamoriamo – e forse ogni relazione, anche di amicizia, inizia perché un po’ ci innamoriamo – tutto dell’altro ci appare gradevole o per lo meno accettabile. La spinta e la curiosità verso la nuova relazione a volte può farci essere anche un po’ incauti. Può farci pensare che con quella persona le difficoltà che avevamo avuto con altre non si ripeteranno mai.

E, infatti, a volte, non si ripetono le stesse difficoltà ma ne incontriamo di nuove. A volte, invece abbiamo proprio le stesse difficoltà. Sembra lo stesso film ma con attori diversi. E molto spesso, a questo punto, arriva la delusione e la rabbia. Così particolari insignificanti iniziano ad avere importanza e a darci fastidio, a volte fino all’avversione. E iniziamo l’altalena tra simpatia e antipatia che spesso si prolunga per molto tempo. Un tempo non felice.

È a questo punto che bisogna togliersi le scarpe. Cosa vuol dire? Vuol dire riconoscere con onestà e precisione quale fame nascosta l’altro doveva soddisfare nelle nostre intenzioni. Quale bisogno segreto doveva saziare, quale aspettativa e quale promessa di felicità – non dichiarata – aveva sottoscritto. Perché molta della nostra delusione nasce da quell’insieme, poco consapevole, di aspettative e di desiderio di trovare una risposta magica ai nostri bisogni. Così, prima ancora di vedere l’altro per com’è davvero, abbiamo visto la possibilità che rispondesse alle nostre necessità, necessità che non avevamo nemmeno tanto esplicitamente presenti ma che lavoravano nel sotterraneo.

Togliersi le scarpe è l’atto – simbolico – che facciamo quando pratichiamo. Possiamo stare in tutte le posizioni che vogliamo: seduti sulla sedia, sdraiati, nella posizione del loto, sul panchetto, sul cuscino o sullo zafu. Ma senza scarpe. Perché scegliendo di praticare abbiamo dichiarano la nostra disponibilità a lasciar andare le nostre pretese. E le pretese sono i mattoni più solidi della nostra infelicità.

Così meglio togliersi le scarpe, meglio abbandonare le pretese e guardare che cosa, con sorpresa, l’altro ci porta di nuovo. Anche se lo conosciamo da tantissimo tempo. Proprio perché l’abbiamo appena conosciuto.

Quando inizi a cantare dal cuore, i passaggi tra una frase e l’altra cambiano. Jennifer Lopez

Pratica di mindfulness: La pazienza

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

Vuoi approfondire? Leggi Amore, mindfulness e relazioni. Qualità mindful per amare senza equivoci

 

 

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Placare le acque scure del cuore

20/01/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono momenti in cui il nostro cuore è sereno e calmo come un lago di montagna e altri in cui sembra un ribollire di acque scure e misteriose.

Quell’inquietudine cerca una consolazione e una rinnovata serenità. Così iniziamo a scavare nella mente e a guardare alla logica dei fatti scoprendo che un pensiero tira l’altro e nessuno porta alla pace. Quando siamo inquieti abbiamo bisogno di dare nome all’inquietudine e per farlo non possiamo passare dalla mente: abbiamo bisogno di tornare alle parole del corpo. Forse potremmo proprio disegnare i passaggi necessari per placare le acque scure del cuore.

Il primo passo è ascoltare cosa dice il corpo. Dove si muove la tensione e come si esprime. Potremo chiamare questo passo “Tornare a casa” perchè dà una dimora alla nostra inquietudine.

Il secondo passo è riconoscere se ci sono emozioni che nascono dalle sensazioni fisiche e dargli nome. Se non sappiamo trovare nome alle nostre emozioni proviamo a nominarne mentalmente qualcuna – paura, tenerezza, rabbia, ansia, commozione e così via – perché se nominiamo l’emozione che ci corrisponde ci accorgeremo che il cuore si calma. Se proprio non troviamo l’emozione diamo un titolo a come ci sentiamo, come farebbe il regista di un film. Spesso il titolo mette insieme più informazioni di quelle di cui siamo consapevoli. Potremmo chiamare questo passo “Dare nome”

Il terzo passo sarebbe il più ovvio e invece lo dimentichiamo: confortiamo. Non ha importanza se abbiamo torto o ragione. Se è assurdo o comprensibile: se siamo inquieti abbiamo bisogno di confortarci. Solo quando saremo tornati alla calma il senso delle cose può emergere. Pretendere di capire cosa sta succedendo senza calmare prima l’inquietudine è come pretendere di abbassare le onde tagliandole a fette: una missione impossibile. Confortiamoci con il mezzo più antico che c’è: la nostra voce. Ripetiamo mentalmente parole di conforto: ognuno di noi ha la propria formula magica. La mia è “I pensieri non sono fatti”. Potremmo chiamare questo passo “Cullare il cuore” ma se ci sembra troppo romantico chiamalo “Amicizia”. È quello che gli amici fanno per noi: ci calmano e ci confortano. È quello che abbiamo bisogno di re-imparare: essere amici di se stessi.

E poi lasciamo che le acque del cuore tornino chiare rimanendo fermi: le azioni che scegliamo sotto la spinta dell’agitazione complicano la vita. Quando le acque saranno tornate chiare saremo ancora in tempo a scegliere e faremo quello di cui abbiamo davvero bisogno.

Accettazione significa riconoscere cosa sta succedendo e permettere che le cose si svelino per come sono, senza combattere la realtà.

Pratica di mindfulness: Cullare il cuore

© Nicoletta Cinotti 2023 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

 

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