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protocolli mindfulness

Essere felici insieme

01/06/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Molte volte facciamo qualcosa per rendere felici gli altri. È un modo per manifestare il nostro affetto e la nostra gratitudine. A volte è un modo per essere importanti. Altre volte diventa una specie di sacrificio. Come se la nostra felicità non avesse diritto di esistere se non dopo la felicità altrui. Come se la condizione per essere felici fosse che tutte le persone che amiamo lo siano. Ovviamente è una condizione irrealizzabile e, soprattutto, è una condizione posta dalle nostre emozioni relazionali.

Ci sono emozioni che esprimono la nostra risposta al mondo che ci circonda in senso ampio. Risposte agli eventi della vita che non nascono all’interno di una specifica relazione. Altre emozioni, invece, sono espressione delle nostre modalità relazionali. Sono emozioni che tendono ad avere una presenza costante nel tempo e caratterizzano relazioni anche molto diverse tra loro. Spesso sono le nostre emozioni relazionali quelle che fanno sì che tutte le nostre relazioni si assomiglino.

Quando ci sacrifichiamo perché gli altri siano felici spesso lo facciamo per due emozioni relazionali: il senso di colpa e, un po’ paradossalmente, l’invidia. Ci sentiamo in colpa all’idea di avere qualcosa in più di quello che ha una persona che amiamo. Così strutturiamo un circolo vizioso di infelicità e frustrazione, in cui la nostra felicità dipende dalla felicità dell’altro. Piuttosto che prendere la responsabilità della propria vita e della propria felicità preferiamo subordinare quello che facciamo alla tranquillità dell’altro. L’altra emozione in gioco è l’invidia: in questo caso la paura di essere invidiati se abbiamo qualcosa in più dell’altro. Entrambe queste emozioni sono espressione di un blocco – non solo emotivo ma anche corporeo – tra noi e gli altri. Una sottile linea di ritiro che ci fa temere il contatto e, soprattutto la condivisione e l’intimità. Esperienze in cui essere diversi non è un minus ma una declinazione di ricchezza.

La felicità non è una torta con un numero limitato di fette. È un’esperienza accessibile e condivisibile. In cui la nostra felicità non toglie spazio alla felicità dell’altro e la nostra infelicità non garantirà la felicità dell’altro. Quando sentiamo che la nostra felicità è in contraddizione con la felicità dell’altro il vero tema è la verità. E quanto possiamo condividere la nostra verità.

Assegniamo a come ci vedono gli altri più realtà del modo in cui vediamo noi stessi. Ma ciò equivale a vederci come un oggetto, perdendo il cuore del nostro vero essere. Jean Paul Sartre

Pratica di mindfulness: Respirare per me, respirare per te

© Nicoletta Cinotti 2023 Il Programma di Mindful Self-compassion intensivo e residenziale

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Pensieri nella sala d’attesa del cuore

30/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Capita spesso di sentire, dentro di noi, un proliferare di pensieri: la mente divisa tra mille attività da programmare, le preoccupazioni per il futuro, le rimuginazioni sul passato. Attraversano la nostra mente e ci assorbono, ritirando il nostro contatto con la realtà e con il presente. Possiamo credere che siano pensieri ma in realtà sono emozioni che non riescono ad entrare nel cuore.

Bussano alla porta ma, siccome temiamo di sentirle, salgono veloci alla mente e si trasformano in pensieri. Ogni tanto provano a scendere di nuovo nel cuore ma vengono respinte dalla nostra decisione di essere razionali. Di tenere sotto controllo la vita. Poi, man mano che corrono nella nostra mente, questi pensieri, suscitano anche delle emozioni, un po’ generiche: ansia, preoccupazione, inquietudine. Ma siamo tanto presi dal correre dei pensieri che nemmeno in questo caso ci fermiamo per aprire la porta del cuore.

Avere la testa invasa dai pensieri non è pensare. È avere una emozione che non riusciamo a sentire e che dà il via alla proliferazione mentale. I pensieri senza emozioni nascoste si riconoscono subito: arrivano, sono aderenti alla situazione specifica e se ne vanno. Leggeri come nuvole bianche in un cielo d’estate. Quando le nuvole diventano pesanti, oscure, indugiano a lungo non sono pensieri: sono emozioni travestite da pensieri che aspettano nella sala d’attesa del cuore: la mente.

Allora, alla fine – come medici indaffarati – dobbiamo decidere di fermarci e farli entrare. Visitarli non è difficile. Richiedono di essere riconosciuti. Prima di riconoscere la famiglia a cui appartengono – pensieri sul passato, sul futuro, dialoghi, pensieri sul corpo o pensieri di fuga – poi di riconoscere l’emozione che contengono e li produce. Poi di fermarsi ad osservare la situazione alla quale sono collegati, rimanendo ancorati al corpo e al respiro. E infine, salutarli e ringraziarci perchè ci siamo permessi di ascoltare, con pazienza, anziché essere assorbiti. Non c’è nulla da fare con i pensieri: solo dipanarli per non farsi assorbire, con gentilezza e precisione. La precisione dell’amore.

Quando il respiro è affannoso, il pensiero è guidato dalla paura e dall’ansia. I tuoi stati mentali affondano le loro radici nel passato o nel futuro. Sei concentrato su ciò che fanno altre persone, su come puoi compiacerle o su come proteggerti dalle loro azioni. Praticamente stai innalzando una fortezza di pensieri attorno al tuo cuore. Respira profondamente e riportati nel tuo cuore. Paul Ferrini

Pratica di mindfulness: Inclinare la mente al cuore

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT

 

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Spiriti affamati e sguardi da principianti

29/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono molte ragioni per cui possiamo avere fame: a volte è un fatto letterale. Altre volte però abbiamo tutto e continuiamo a sentirci affamati. Di una fame che il cibo non sazia. E che il successo non colma.

È la fame di contatto, di relazioni nutrienti. Di sentimenti autentici. Quella fame che, a volte, ci porta alla spasmodica ricerca di nuove relazioni. Nella speranza che accada quello che finora non è accaduto, se non per brevi momenti: saziarci.

Non ci rendiamo conto che, perché accada, il punto non è ricevere dall’altro quello di cui abbiamo bisogno. O quello che vogliamo. Non è avere un legame inossidabile. Piuttosto è necessario accogliere l’inevitabilità del cambiamento. Se ci aggrappiamo al ricordo dei momenti piacevoli che abbiamo vissuto e cerchiamo di riprodurli, rimarremo affamati. Perché il piacere è in continuo cambiamento. E, in una relazione questa mutevolezza e imprevedibilità diventano segni che interpretiamo, spesso, troppo spesso, come ferita e fallimento.

Ogni giorno può portarci piaceri nuovi. Nessun giorno può riportarci piaceri vecchi.

Se accogliamo l’inevitabilità di questo processo che ci rende vulnerabili al nuovo, accogliamo anche il potenziale di crescita delle nostre relazioni. E diamo il benvenuto alla relazione che c’è oggi. Non cerchiamo invano quella che c’era ieri, perché altrimenti rimarremo affamati, a bocca asciutta. Con la sensazione di aver perso qualcosa anche se, invece, lo abbiamo proprio di fronte a noi.

Così ogni giorno potremo ritrovare quello spirito da principiante di quando ci siamo innamorati. Quando ogni cosa era una sorpresa perché appena ci conoscevamo. Perché ogni giorno – dentro e fuori dalla relazioni – è interamente nuovo e aspetta di essere vissuto con uno sguardo da principiante.

Il nostro sforzo è quello di aggrapparci a quello che vogliamo e alla paura di perderlo. È la tensione legata a questo aggrapparsi che produce sofferenza. Gregory Kramer

Pratica di mindfulness: Pratica di accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023 Reparenting ourselves: Diventare genitori di sé stessi. Ritiro di bioenergetica e mindfulness

 

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Il punto di svolta

28/05/2023 by nicoletta cinotti

Credo che succeda nella vita di tutti: le cose procedono in modo lineare per un certo periodo di tempo e poi ti trovi ad una svolta. Magari hai pensato che le cose fossero tutte ordinate e conosciute ma invece ti sbagliavi. Devi fare un cambiamento, prendere una direzione diversa.

Le svolte più facili sono quelle che fai senza nemmeno accorgerti che sei in un cambiamento: te ne rendi conto solo dopo che quello è stato un punto di svolta. Per me la self-compassion è stata una svolta del cui impatto mi sono accorta solo dopo. Molto tempo dopo averla fatta.

Aver bisogno di calore

Soffro il freddo e cerco sempre soluzioni tiepide, così quando il programma di Mindful self-compassion è nato, nel 2010, mi ha subito interessato. Proponeva di “riscaldare” l’ambiente interno, proprio nei luoghi in cui l’effetto della pratica di mindfulness era calmare.

In fondo, mi sono detta, cosa c’è di meglio che scaldare dopo aver calmato?

Sono passati diversi anni prima che facessi la formazione. Inseguivo Kristin Neff e Christopher Germer in giro per l’Europa ma arrivavo sempre ad iscrizioni chiuse perché l’interesse per la self-compassion è stato subito altissimo.

Nel frattempo continuavo a condurre i protocolli MBSR e MBCT e incontravo ogni volta la difficoltà delle persone ad essere presenti. Una difficoltà che si sostanzia con il grande potere seduttivo dei pensieri.  Tutto quello che supera una certa intensità percettiva finisce per attirarci come una calamita e, in quel momento lì presenza e attenzione svaniscono.

So bene che le persone traggono beneficio da questi due protocolli ma il problema, ogni volta, è traghettarli con fiducia, oltre la distrazione.

La distrazione è inevitabile

La distrazione è inevitabile: la nostra mente è fatta per vagare e vagare è quello che ci ha permesso di difenderci dai pericoli, di prevedere le conseguenze delle nostre azioni e di pianificare compiti complessi. Il punto è che al momento siamo sovraccaricati da moltissimi stimoli e quindi vaghiamo molto di più. Nello stesso tempo quando troviamo qualcosa di buono per noi, ogni volta vedo accadere un miracolo, Ci fermiamo e diventiamo affezionati alla pratica. È immediato. Per quanto la nostra mente sia instabile sappiamo riconoscere subito quello che ci fa bene.

A quel punto l’attenzione diventa un allenamento alla presenza. Ma come alleniamo l’attenzione?

Nei programmi. mindfulness l’attenzione si allena con il respiro e aprendo via via ad un nuovo oggetto d’attenzione fino ad arrivare alla consapevolezza aperta. Nella self-compassion si tenta una strada diversa. Si tenta di risvegliare il cuore e le qualità della nostra mente originaria.

L’attenzione e gli stati mentali

Questo significa che, invece di lavorare primariamente sulla consapevolezza del respiro, si fa un salto in avanti e si passa alle qualità della mente originaria di gentilezza e compassione. Perchè dico che si fa un salto? Perché nella tradizione il lavoro sulle quattro dimore divine – Metta, Karuna, Mudita, Upekkha ovvero gentilezza amorevole, compassione, gioia e equanimità – è qualcosa che arriva quando la presenza è stabile e si passa ad una meditazione più matura e profonda. Qui andiamo all’università senza aver fatto tutto il liceo.

Funziona? Sì, funziona. Per alcune persone funziona molto meglio perchè non hanno voglia di fare tutto il liceo. Funziona meglio perchè salti velocemente al succo della faccenda e capisci quanto buono c’è nella pratica andando dritto al sodo.

Certamente la disciplina, la fedeltà e la coerenza del liceo vengono a mancare. Ma alcuni hanno queste caratteristiche nella loro personalità. Altri nella loro storia precedente. E io, che sono cresciuta a pane e sforzo, mi sono rilassata parecchio.

Controindicazioni

Io francamente non vedo controindicazioni alla pratica ma piuttosto vedo delle indicazioni. Se sei una persona che soffre la disciplina e ama la velocità la strada della self-compassion è più immediata. Se sei un clinico è un programma che è facilmente inseribile dentro alla psicoterapia con ottimi risultati. Se sei perfezionista potrebbe diventare il tuo antidoto. Ma niente va bene per tutti e soprattutto la disciplina nella vita serve moltissimo per rendere sacro l’impegno verso noi stessi e non per renderlo un sacrificio. Integrare un percorso di mindfulness – con i suoi protocolli MBSR, MBCT, Mindfulness interpersonale – ad un programma di self-compassion è un compendio che permette di curarsi con una profondità e un’efficacia che non ha niente da invidiare ad una psicoterapia. Te lo spiego meglio qui, nella sezione Percorsi suggeriti.

Ma tu perché fai il Reparenting?

Adesso ti domanderai come nasce allora la mia passione per il Reparenting. Nasce proprio dall’integrazione tra questi diversi percorsi e dalla consapevolezza che se aspettiamo che la salvezza venga dall’esterno rischiamo di rimanere naufraghi tutta la vita. Come racconto spesso, l’idea che sia uno psicoterapeuta bravo che deve salvarci è un’idea aggressiva sia verso di noi che verso chi ci cura. Noi abbiamo la responsabilità di mettere a fuoco le nostre risorse di auto-cura – la nostra capacità di essere genitori di sé stessi – di impegnarci con gentilezza e sensibilità nella pratica, non di delegare la salvezza nelle mani di chi ci cura. Lo psicoterapeuta non è un chirurgo che opera in anestesia. È un sarto che può cucire solo la stoffa che portiamo noi. A noi va la responsabilità di portare la stoffa. E quando ci sembra di non avere stoffa, cerchiamola nella pratica. A volte basta un piccolo angolo di stoffa apparentemente inutile, per fare un mantello di protezione. Lo psicoterapeuta è un compagno di squadra che ci aiuta a mettere collaborazione nelle parti della nostra famiglia interiore. Ci sostiene nell’avere fiducia nelle nostre risorse, illumina angoli bui. E, qualche volta, ci ricorda che l’accettazione è il miglior cambiamento possibile.

“Possa il nutrimento della terra essere tuo, Possa lo splendore della luce essere tuo, Possa il fluire dell’oceano essere tuo, Possa la protezione degli antenati essere tua. E così possa una leggera Brezza lavorare queste parole D’amore intorno a te Un invisibile mantello” John O’Donohue

Vuoi approfondire il tema della consapevolezza degli stati mentali?

Il cambiamento prodotto dal portare l’attenzione alla consapevolezza degli stati mentali anziché alla consapevolezza del respiro è un tema estremamente innovativo. E che lavora sulla consapevolezza implicita e non su quella esplicita. Troppo difficile? Bene, provo a dirlo con parole semplici. Hai presente quando stai bene o male e non sai perché? Se cerchi di passare dal sapere il perché potrebbe volerci parecchio tempo a stare meglio o parecchio tempo per scoprire il perchè delle cose. Ma c’è una strada diversa che permette di avere come intenzione primaria lo stare meglio e solo secondariamente quello di sapere il perché. Quella strada di regolazione implicita delle emozioni è la strada collegata alla consapevolezza degli stati mentali. (Te ne parlo meglio qui).

È forse l’intuizione più importante del programma di Mindful Self-compassion e ne parleremo insieme a Paolo Scocco in una diretta Instragram Mercoledì 31 maggio alle 9 (La diretta rimarrà anche successivamente). La nostra esperienza di mindful self-compassion si è arricchita grazie al ritiro. Un ritiro in cui abbiamo lavorato esclusivamente sulla consapevolezza degli stati mentali. Così questa intuizione sta diventando una realtà anche nella nostra pratica personale. Adesso, a distanza di più di dieci anni, posso dire che incontrando la slef-compassion ho fatto una svolta: sono andata in profondità. Una profondità che mi ha regalato libertà!

© Nicoletta Cinotti 2023

Eventi correlati

Ti ricordo che sono gli ultimi giorni per iscriversi al programma Intensivo residenziale in Mindful Self-compassion dal 28 giugno al 2 luglio. La partecipazione al programma dà diritto a 44,6 crediti ecm

Mindful Self-Compassion: intensivo residenziale

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Trattarsi come se fossimo un estraneo

24/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo attrezzati per affrontare la difficoltà: la nostra flessibilità, la nostra attenzione, memoria e capacità di risolvere i problemi ci offrono modi e strategie per affrontarle. Ciò che produce un danno, nella nostra vita, non sono le difficoltà pratiche o emotive. È il nostro modo di rimanere connessi o di essere sconnessi dall’esperienza che ci mette in un circolo vizioso di stress e difesa.

Quando una esperienza – piacevole o spiacevole che sia – è vissuta in modo connesso tra sensazioni fisiche, sensazioni emotive e pensieri vuol dire che la sua intensità è all’interno della nostra finestra di tolleranza. Non importa quanto sia difficile, siamo in grado di affrontarla.

Quando invece ci ritroviamo a sentire qualcosa nel corpo e siamo altrove con i pensieri o con le emozioni – oppure proviamo un’emozione ma siamo sconnessi dal corpo – vuol dire che quell’esperienza è al di là della nostra finestra di tolleranza e alimenta quell’attenzione divisa che ci fa procedere con il pilota automatico o ci fa evitare l’esperienza del momento presente.

La disconnessione può prendere tante forme. La più sottile è quando proviamo qualcosa nel corpo o emotivamente e svalutiamo, con i pensieri, quello che stiamo provando. Questa disconnessione sottile è la più frequente. Ci diciamo che non  dovremmo sentir quello che sentiamo e così – quasi senza accorgercene – ci dividiamo in due: una persona che sente e un’altra che giudica ciò che sentiamo. È come se pretendessimo di correre su una gamba sola: tutto diventa faticoso e lo sforzo nasce dal fatto che rifiutiamo una parte di noi e non ne cogliamo, invece, la sua natura. Tagliamo una parte dell’intimità con noi stessi per giudicare un risultato finale che non può che essere parziale. Non perchè siamo inadeguati ma perchè abbiamo rifiutato di essere chi siamo. Ci trattiamo come se fossimo un’estraneo e, per di più, che non ci sta nemmeno tanto simpatico. Così disprezzo, senso di colpa, vergogna possono invadere il nostro panorama interiore. Ci può sembrare che siano una conseguenza di ciò che è avvenuto e, invece, sono una conseguenza del nostro giudizio su ciò che è avvenuto.

Questa disconnessione nasce dal reprimere le nostre emozioni sulla base del nostro desiderio di essere diversi da come siamo. La domanda è: ne vale davvero la pena? Vale la pena questa sottile tortura quotidiana per essere diversi da come siamo, diventando così estranei a chi siamo?

La repressione passa attraverso tre stadi: il primo, nel quale viene bloccata l’espressione emotiva; il secondo in cui si sviluppa un senso di colpa che ci fa sembrare l’emozione sbagliata e il terzo nel quale la si esclude dalla coscienza. Alexander Lowen

Pratica del giorno: Essere semplicemente con il respiro

© Nicoletta Cinotti 2023 Il programma di Mindful Self-compassion intensivo

 

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Voce del verbo ascoltare

23/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

A volte mi capita di cercare soluzioni complesse e di avere, invece, risposte semplici proprio davanti ai miei occhi. Spesso sono le riflessioni apparentemente più banali quelle che, invece, mi sembrano più luminose.

Così in questi giorni, mentre dentro di me declinavo le tante sfumature del verbo permettere, mi è apparso chiaro che una delle sue più semplici declinazioni è ascoltare. Mentre ascoltiamo – se ascoltiamo davvero – permettiamo all’altro di svelare dov’è. Di mostrarci uno spiraglio del suo mondo interno. E il nostro ascolto più è profondo e silenzioso, più è accogliente e presente, più rassicura che permettiamo che le cose siano esattamente come sono, senza interferenze. Nell’ascoltare decliniamo la possibilità di permettere che l’altro mostri se stesso, al di là dei soliti discorsi.

Se arricchiamo il nostro ascolto con interventi, richieste di chiarimenti, spostamenti di attenzione, facciamo qualcosa in più che permettere: a volte approfondiamo l’ascolto. Altre volte portiamo l’attenzione su qualcosa di diverso. Dirigiamo la conversazione dove vogliamo noi. O forse evitiamo che la verità venga a galla. Perché alla fine, molto spesso, quello che temiamo di più, è proprio la verità.

Ascoltare compie anche un altro atto del permettere: ci rende sincronici. Tu parli, io ascolto e, nello stesso momento, realizziamo, nello stesso istante, il nostro reciproco bisogno di comunicazione.

Quindi come mai è tanto difficile ascoltare? Temiamo che non venga mai il nostro turno per essere ascoltati?

Quando ascoltate qualcuno, abbandonate tutte le idee preconcette e tutte le opinioni soggettive che avete; ascoltatelo, solo osservate com’è fatto. I concetti di giusto e sbagliato, di buono e cattivo, sono irrilevanti per noi. Guardiamo semplicemente le cose così come sono per lui, e le accettiamo. È così che si comunica. Shunryu Suzuki-roshi

Pratica di mindfulness: Il panorama della mente

© Nicoletta Cinotti 2023 Il programma di Mindful self-compassion

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