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stress

La matematica della vita

28/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Molto spesso calcoliamo la felicità come un’addizione. Sono felice se ho raggiunto una serie di passi o realizzato una serie di obiettivi. E quindi ci muoviamo per costruire la nostra addizione: questo + questo + questo + questo. La somma dovrebbe essere la felicità.

In realtà, i conti non tornano. Perché arrivare a mettere insieme tutto diventa sempre più faticoso e soggetto ad imprevisti. Diventa una moltiplicazione dello stress, della tensione, della fatica e, stranamente, dell’infelicità perché malgrado moltiplichiamo e sommiamo siamo sempre focalizzati su quello che manca.

Temiamo però la sottrazione.

Perchè la identifichiamo con la perdita. O con il fallimento o con la morte. In realtà possiamo vederla anche in una diversa prospettiva. Sottrazione come semplificazione della propria vita e, anziché aggiungere impegni, moltiplicare attività, scegliere l’essenziale per ogni giorno.

Sottrazione come pausa dalla ricerca spinta dall’insoddisfazione e gratitudine per quello che abbiamo. Sottrazione come consapevolezza di quanto le persone della nostra vita, le cose che già abbiamo siano essenziali. E di quanto sarebbe doloroso non averle più.

Divisione come presenza momento per momento, perché forse essere presenti sempre è irrealizzabile ma essere presenti ora, per quello che dura, è già un compimento. E allora potremmo scoprire che praticare la sottrazione, la semplificazione, la divisione in piccoli compiti da onorare per la loro realizzazione ci mette molto di più nella prospettiva di ciò che abbiamo. E chiude la persecuzione di quello che ci manca, permettendoci di fare una diversa matematica della nostra vita.

Sono frequentemente spinto dall’impulso d’inserire un elemento estraneo in una determinata situazione. Una telefonata, una sosta durante un percorso, anche se comporta un cambiamento di direzione. Ho imparato a riconoscere questo impulso e a diffidarne, sforzandomi di reprimerlo. Mi costringe a far colazione leggendo per la centesima volta la composizione della scatola di cereali. Si insinua per occupare il mio tempo, cospira con la mia mente per mantenermi in uno stato di incoscienza (…) Amo la semplicità volontaria per oppormi a questi impulsi e garantire che il nutrimento venga assorbito a livello profondo. Questo significa fare una sola cosa per volta e assicurarmi di essere partecipe. Jon Kabat Zinn

Pratica del giorno: La consapevolezza delle sensazioni

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR

 

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Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Uscire dall’imbuto

27/08/2023 by nicoletta cinotti

La nostra mente di povertà funziona come un imbuto. Ci fa andare avanti in una direzione via via sempre più stretta. Siamo convinti che la direzione, la via d’uscita, sia davanti a noi. Man mano che procediamo tutto diventa più oppressivo ma noi andiamo avanti fino alla fine. A quel punto rimaniamo incastrati perché l’uscita è troppo piccola. Questa descrizione ti ricorda qualcosa? A me sì, ricorda la sensazione di oppressione che a volte provo nell’andare avanti a testa bassa. Allora qual è la via d’uscita? Finire tutto il lavoro che ho in programma di fare? Vedere il risultato di qualche nuovo progetto? No, in realtà questo non fa che aggiungere stress allo stress. La via d’uscita è girarsi indietro, fare retromarcia, uscire dalla mente di povertà per entrare, finalmente, nella mente di abbondanza.

La mente di povertà e la mente di abbondanza

La nostra mente di povertà ha tre braccia: la wanting mind, la wandering mind e la comparing mind che hanno un unico grande effetto: ci sintonizzazno su quello che manca e sul desiderio di ottenerlo ma funzionano come la carota messa davanti all’asino per farlo camminare. La carota penzola di fronte a lui ma è legata ad un bastone e, per quanto cammini, rimane sempre alla stessa distanza. E così funziona la nostra mente di povertà. Ci fa credere che se andiamo avanti a testa bassa – e soprattutto con determinazione – raggiungeremo quello che ci manca. Ma non arriviamo mai e rimaniamo incastrati in questo disegno ostile che ci fa vedere solo la mancanza.

Se ci giriamo indietro possiamo iniziare a fare esattamente l’opposto: possiamo incominciare a mettere a fuoco tutto quello che abbiamo. È come se volessiomo cucinare un piatto con gli ingredienti che non abbiamo comprato, avendo la dispensa piena di ingredienti che già abbiamo. È un cambiamento di prospettiva piccolo ma significativo: incominciare a ragionare in base alle risorse che possidiamo, come recita la poesia di oggi, la famosa, Poesia dei doni di Jorge Luis Borges.

Non dare nulla per scontato

La nostra mente di povertà dà per scontato tutto quello che abbiamo che acquista valore solo quando abbiamo paura di perderlo. Ci rendiamo conto di quanto amiamo qualcuno quando temiamo che la relazione finisca. Oppure ci accorgiamo di quanto è preziosa la salute ogni volta che ci ammaliamo. Questo succede perché perdita e mancanza non sono la stessa cosa. La mancanza la avvertiamo sulla base della nostra wanting mind, la mente che desidera e che ci rende ostaggi di quello che non abbiamo realizzato. È una sofferenza che raramente percepiamo con chiarezza, quella che viene dalla sensazione di non essere interi, dalla sensazione, spesso sottile e sconosciuta, che qualcosa manchi. A noi o alla nostra vita.Non la sentiamo perché viene coperta subito da qualcosa. Un acquisto, una sigaretta, un boccone di cibo. Qualsiasi cosa che, in quel momento, ci da l’idea che sarà in grado di farci sentire più felici.Quando affidiamo la nostra felicità e il nostro senso di interezza a qualcosa di esterno iniziamo a percorrere una strada che ci condurrà presto alla delusione. Non c’è nulla che il mondo possa darci per questa sottile sensazione di mancanza o di perdita.

Tradiamo noi stessi se pensiamo che avere quel pezzetto in più ci renderà felici. Vogliamo quello che non abbiamo, spinti dalla nostra wanting mind a cercare all’esterno anziché dentro. E quindi paragoniamo la nostra vita a quella altrui, la nostra storia a quella altrui, confondendo la felicità che vediamo negli altri con il possesso e rendendoci così ostaggio di quello che non abbiamo ancora realizzato.

Perché non rendere onore invece a quello che abbiamo già realizzato? Quando lo facciamo pratichiamo una goccia di gratitudine che distende il cuore e la mente.

 

Prova a riflettere su questi tre aspetti:

  • ho bisogno di qualcosa in più per essere grato o felice, un’atteggiamento che alimenta il senso di scarsità
  • non devo niente a nessuno, un atteggiamento che alimenta un fallace senso di invulnerabilità
  • mi merito di più (o non mi meritavo questo) come se per qualche misterioso fattore ci meritassimo solo cose belle e invece i guai fossero riservati solo agli altri

Adesso prova a fare il movimento opposto, a voltarti indietro, a camminare verso l’imboccatura larga dell’imbuto invece che dalla chiusura stretta:

  • di cosa potresti essere grato o grata adesso?
  • chi ti ha aiutato nei momenti difficili? Quali sono stati gli incontri, diretti o indiretti, che ti hanno aiutato ad essere come sei adesso? Includi i libri, i viaggi, le persone incontrate per caso e le amicizie durevoli
  • guarda quali sono stati i regali inaspettati i che la vita ti ha fatto. Quello che hai ricevuto senza aver fatto qualcosa di specifico per meritarlo. Se sposti lo sguardo a ciò che già hai puoi dire, onestamente, che nulla è stato un regalo e che tutto è stato meritato?

Coltivare la mente di abbondanza

Come mai la mente di abbondanza va coltivata e la mente di povertà sembra, invece, spontanea o naturale? La ragione è che la sopravvivenza è il nostro primo istinto, la gratitudine, la  sensazione di abbondanza invece richiedono un’attenzione intenzionale perchè siano percepite. Ecco perché la pratica di mindfulness è importante: perché ci aiuta a coltivare l’intenzionalità che non è la volontà di raggiungere quello che ci manca: è l’intenzionalità di coltivare stati mentali salutari perchè il vero danno della mente di povertà è che porta emozioni afflittive.

Cos’è che guida la nostra generosità, un’emozione tipica della nostra mente di abbondanza? Cos’è che ci permette di condividere con gli altri ciò che abbiamo?

Spesso mi faccio questa domanda e cerco di mettere in relazione i miei bisogni e il desiderio di condividere quello che posso condividere.

La chiave mi sembra che stia proprio nella percezione del bisogno. Nell’attimo in cui condividiamo con un’altra persona qualcosa che ci appartiene, in senso materiale o immateriale, in quel preciso momento il rumore del nostro bisogno è attenuato mentre è aumentato il volume della fiducia e del senso di comune umanità condivisa. Essere generosi è l’espressione della nostra mente dell’abbondanza, la percezione che possiamo dare perché ci sentiamo in una situazione di prosperità: è questo che ci rende generosi. Se, invece, la nostra mente di povertà è attiva – la mente che ci fa vedere solo quello che manca – il nostro bisogno, vero o presunto che sia, ci sembrerà sempre più grande del piacere di condividere.

La cosa interessante è che la generosità ha un doppio ritorno: condividendo nutriamo la percezione di abbondanza e abbassiamo la paura di perdere, di non avere, di non  essere abbastanza. Sembra una magia ma non è così: finiamo per assomigliare a quello che facciamo.

Il vero trucco, se di trucco possiamo parlare, è non scambiare la generosità per lusinga: non possiamo comprare nessuno con la nostra generosità. Né usare la generosità per lustrare la nostra immagine. Sarebbe una visione condizionata e condizionante di noi stessi che ci renderebbe ancora più vittime della mente di povertà. Essere generosi è il movimento che guida la nostra vita e la porta fuori dalla stagnazione. Ci sono infiniti atti di generosità nel nostro corpo: la generosità dell’incessante lavoro del cuore, dei polmoni, della pelle. Basta seguire il loro esempio per restituire alla nostra vita quel fluire di cui abbiamo bisogno per crescere. In fondo cos’è più generoso di una finestra?

© Nicoletta Cinotti 2023

 

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La mente è una nuvola

17/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se potessimo guardare come funziona la nostra mente vedremmo punti luminosi che si accendono e spengono in tutto il corpo e nel cervello. Qualcosa di molto simile ad una nuvola di connessioni luminose che avvengono contemporaneamente in parti diverse del corpo e della testa. Quel cloud di parole che a volte vediamo scritte con parole a caratteri più grandi e altre più piccole a seconda della forza della connessione.

La nostra mente è associativa: un aspetto ne suscita un altro, che si ramifica in un altro ancora. È per questo che se soffriamo di attacchi di panico, o se abbiamo avuto un trauma, aspetti apparentemente banali possono scatenare una crisi. Diventano interruttori – punti trigger – che innescano una catena associativa (assolutamente non logica).

Così, improvvisamente, possiamo venir attraversati da stati d’animo molto intensi e siccome abbiamo bisogno – assoluto – di dare significato a quello che proviamo, finiamo per “dare la colpa” a qualcosa che è avvenuto precedentemente. Anche se non ha nulla a che vedere con quello che è successo. Proprio nulla. Ma noi abbiamo bisogno di capire, di dare un significato: l’assenza di significato è angosciosa. Così, molto spesso, attribuiamo significati a caso. Significati che ci lasciano inquieti e dubbiosi perché sappiamo che non sono autentici.

Questa è la brutta notizia. Poi c’è la buona notizia che è veramente buona.

La buona notizia è che se impariamo – e non è difficile farlo – a dare nome a quello che sentiamo (il nome giusto come nei cruciverba) disattiviamo, senza sforzo, questi interruttori. Dai alla mente qualcosa che la calma, che è la giusta descrizione. E ogni parola della giusta descrizione va a costruire un significato autentico. Non uno credibile ma sbagliato. Uno autentico e che ci calma. Ogni nome giusto è come la tessera di un puzzle. Tante tessere formano un’immagine e nessuna tessera è più importante di un’altra: tutte contribuiscono all’immagine, a renderla completa. Ecco perché il diario della pratica è utile. Non importa però se non riesci a scrivere: ogni volta che sei attraversato da una sensazione intensa dai nome alle sensazioni fisiche, alle sensazioni emotive e ai pensieri. Nomi semplici, come quelli di una cantilena da bambini. E vedrai, come per incanto, quanto quei nomi ti calmano e ti accompagnano.

Aaron Antonovsky, sociologo della medicina, ha cercato di chiarire quali fossero i tratti psicologici che permettono ad alcuni di resistere allo stress estremo, mentre altri non ci riescono. La sua ricerca lo ha portato ad evidenziare tre caratteristiche – coerenti tra di loro – la comprensibilità, la gestibilità e la significatività. Cioè chi è molto resiliente allo stress è convinto che la sua condizione abbia un significato al quale si possono dedicare; sono convinti di poter gestire la loro vita; e che la situazione sia comprensibile anche se appare caotica e fuori controllo. Williams, Penman

Pratica di mindfulness: Spazio di respiro di tre minuti

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

 

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Inizia ad avvicinarti

09/07/2023 by nicoletta cinotti

Inizia ad avvicinarti

Inizia ad avvicinarti, non fare il secondo passo, né il terzo, inizia con il primo, avvicinati al passo che non vuoi fare.

Inizia con il terreno che conosci, il pallido terreno tra i tuoi piedi, la tua maniera personale di iniziare una conversazione.

Inizia con la tua domanda, lascia perdere le domande degli altri. Non lasciare che gli altri soffochino quella semplicità.

Per trovare la voce di un altro segui la tua voce, aspetta fino a che questa voce diventi un orecchio privato che possa ascoltare la voce degli altri.

Inizia ora fai un piccolo passo, che tu possa chiamare tuo non seguire eroicamente gli altri, sii umile e concentrato inizia ad avvicinarti, non confondere gli altri con te stesso

David Whyte

Da dove partiamo?

La domanda dell’inizio è sempre la solita: cosa posso fare per migliorarmi? Cosa posso fare per stare bene? Sono due domande in cui il fare prende subito il sopravvento, giusto per ricordarci che siamo molto orientati all’azione e giusto per non farci venire la tentazione di essere introspettivi. Perché, purtroppo, confondiamo la riflessione e l’introspezione con il rimuginare e sul rimuginare francamente abbiamo pochi concorrenti.

Rimuginare è vincere facile: abbiamo sempre gli stessi pensieri che portano sempre a galla gli stessi ostacoli e ci presentano sempre la stessa via d’uscita: una strada fatta di azioni e soluzioni.

 Domande e risposte

Ho fatto questa domanda a molte persone e le risposte si possono raggruppare in tre grandi aree:

  • prendermi seriamente cura di me smettendo comportamenti che mi fanno male (overeating, overworking e così via);
  • lasciar andare situazioni e relazioni che mi fanno male ma nelle quali sono invischiata o invischiato;
  • cambiare lavoro e rapporto con il denaro          Forse potresti pensare che con queste risposte iniziamo ad avvicinarci alla soluzione ma non è così: non funziona. Allora cos’è che funziona? Quando iniziamo ad avvicinarci davvero?

 

Qualcosa da fare

La prima cosa che salta agli occhi da queste risposte è che, anche se il problema può sembrare esterno, siamo certi che la risposta debba essere interna e che solo se cambia questa risposta interna potrà succedere quello che desideriamo.

Allora qual è l’ostacolo?

Gli ostacoli sono tre:

  • il rimprovero;
  • la resistenza;
  • il ritorno di fiamma

Questi aspetti sono intrecciati tra di loro: più ci rimproveriamo e più finiamo per allontanarci da noi in cerca di una soluzione esterna. La nostra resistenza diventa un modo per cercare di cambiare le cose ma aumenta la distanza perché ci fa credere che noi dovremmo essere diversi da come siamo senza darci strumenti pratici per questo cambiamento. L’unico strumento che ci offre è la voce autocritica che, alla fine, ci porta di nuovo altra distanza. In più, a complicare le cose, vecchi dolori possono riemergere e portare a galla un senso di inadeguatezza che ci fa credere poco in noi stessi. Questi tre elementi – rimprovero, resistenza e ritorno di fiamma – assomigliano alle palle che sono sul tavolo da biliardo: per farle andare in buca dobbiamo avere un po’ di strategia e molta geometria. In questo caso una geometria non lineare perché, come succede alle palle sul tavolo da biliardo, le difficoltà della nostra vita non stanno in linea retta. O meglio stanno in linea retta solo quando ci rimproveriamo ma per il resto del tempo sono parecchio disordinate tra di loro e la geometria di cui abbiamo bisogno non è quella euclidea ma quella dei frattali, ossia la geometria del nostro apparente disordine.

La geometria del nostro disordine

La geometria del nostro disordine è retta dalla ripetizione. Ripetiamo gli stessi errori e ci appoggiamo alle stesse storie illusorie. Illusioni che ci assomigliano o meglio assomigliano al nostro carattere.

Ne abbiamo una per carattere:l’illusione di essere superiori; l’illusione che alterna esaltazione e crollo; l’illusione di essere importanti; l’illusione di essere inferiori; l’illusione della severità. In effetti queste sono le più frequenti ma non sono esaustive: nelle nostre illusioni siamo molto creativi.

Le illusioni sono pericolose non solo per il dolore che ci procurano ma anche perché ci mettono in un’arena emotiva con emozioni che ci allontanano sempre di più da noi stessi e dalla felicità a cui aspiriamo. Potremmo scrivere un libro anche solo su quello che è successo quando abbiamo lasciato che queste illusioni ci dominassero.

Imparare a riconoscerle significa ridurre i trucchi della distanza dall’esperienza, della distanza dalla realtà ma, soprattutto, della distanza da noi. Trucchi che ci rendono estranei a noi stessi. 

Avvicinarci a casa: volerci bene

Pochi ingredienti al mondo sono più forti dell’amore. Innamorarsi ci permette di fare enormi cambiamenti ed enormi passi avanti. È abbastanza incomprensibile perché un ingrediente così potente non possa essere usato nei confronti di noi stessi. Conosciamo la forza dell’amore in tutte le sue forme, sappiamo come può trasformarci eppure ci sembra impensabile di rivolgere amore verso di noi.

Forse tutto nasce da un equivoco: credere che l’amore debba essere ricevuto e dato in una relazione con una persona diversa da noi stessi, in un gioco di specchi in cui l’amore che riceviamo ci trasforma e l’amore che diamo nutre. E se il nostro cuore fosse un lago che, come uno specchio, riflette amore indipendentemente dalla fonte?

Abbiamo bisogno di vincere due pregiudizi: il primo è che amarsi possa farci diventare narcisisti e il secondo che possa farci diventare egoisti. È vero che non tutto l’amore è salutare. Anche in una relazione l’amore può prendere delle forme di eccessiva possessività, di esagerato attaccamento, può spingerci oltre i nostri confini in modo non salutare. Come tutti gli ingredienti, umani o divini, ha bisogno di misura ma siamo più disponibili ad ammettere che il suo luogo naturale sia una relazione che non a consentirci di volerci bene davvero. Per quale ragione di fronte all’invito evangelico per eccellenza “Ama il prossimo tuo come te stesso” abbiamo deciso che sarebbe meglio amare gli altri più di noi ? Difficile dare una risposta certa ma credo di sapere che aspettare che l’amore ci arrivi dall’esterno sia una condizione davvero incerta che passa attraverso l’altalena dell’approvazione e disapprovazione. L’altalena dell’inclusione e dell’esclusione. Se l’amore per sé stessi fosse uno dei più potenti fattori di guarigione che cosa faresti? Non proveresti a usarlo senza parsimonia?

La prossima settimana parleremo dei fattori di guarigione: stay tuned!

© Nicoletta Cinotti 2023 Scrivere storie di guarigione

 

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La teoria polivagale di Stephen Porges

10/06/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

L’abilità di osservare il battito cardiaco negli ultimi anni è diventato una specie di porta d’ingresso per considerare i fenomeni psico fisici e osservare come il sistema nervoso regola i nostri corpi. Quando osserviamo variazioni nel nostro ritmo cardiaco, in risposta al variare degli stimoli che provengono dalle viscere o dalla periferia del corpo, è la regolazione vagale che assicura al nostro organismo quel necessario equilibrio tra flessibilità o stabilità che ci è tanto necessario.

La teoria polivagale di Porges

Questo elemento assume, nella teoria polivagale di Porges un ruolo centrale per comprendere come il nostro sistema nervoso risponde alle esigenze di adattamento all’ambiente.
Altro elemento importante della sua teoria è quello relativo al prevalere, per noi come per tutti i mammiferi, di esigenze sociali che hanno non solo una funzione relazionale ma anche di regolazione psicofisiologica. Secondo Porges la nostra propensione alle relazioni sociali è funzionale alla nostra necessità di regolare, attravero gli scambi e il contatto, i nostri parametri fisici e psicologici. Fondamentalmente infatti noi creiamo relazioni sociali che hanno lo scopo di farci sentire sicuri e di mantenere il nostro benessere psicofisico
Le interazioni quindi, con la loro opportunità di fornirci intimità, affetti positivi e sicurezza non svolgono solo una funzione emotiva ma anche una funzione di regolazione del nostro sistema fisico mediato attraverso le risposte vagali.

Quando le relazioni sono fonte di stress

Le relazioni sociali devono essere appropriate per la situazione fisiologica che abbiamo altrimenti, anziché fornire supporto, diventano una fonte di stress. Possiamo quindi dire che la teoria polivagale affronta il tema della risonanza fisiologica delle interazioni sociali, dove le interazioni mente-corpo non sono considerate legate da una correlazione ma sono considerate la stessa cosa vista sotto due profili diversi. Una piena aderenza quindi al principio reichiano dell’identità funzionale mente corpo.
In questo quadro la ricerca tende ad investigare come l’amicizia e le interazioni sociali possono contribuire al diretto miglioramento della salute o al recupero dopo un abuso o un incidente fisico.
Il punto centrale è che quando siamo emotivamente in uno stato difensivo non siamo in grado, dal punto di vista metabolico, di attivare processi virtuosi di guarigione fisica. Questo significa che il benessere emotivo gioca un ruolo essenziale anche nei processi fisici di guarigione perché le emozioni negative attivano, a livello fisiologico, una reazione di allarme che interferisce con il metabolismo di recupero dalla malattia.

Il nervo vago

Per questo il nervo vago riveste un ruolo centrale nella teoria di Porges: infatti permette la comunicazione tra la periferia del corpo e il cervello e può veicolare i segnali di rassicurazione, cioè di assenza di pericolo. Cosa ancora più interessante per l’analisi bioenergetica è che il nervo vago risponde ai processi di espirazione, uno degli obiettivi del lavoro corporeo che mira a restituire spazio al respiro nell’aspetto dell’allungamento più che del volume. una respirazione sana infatti è una respirazione che è “lunga”
Quando viene segnalato un rischio a livello centrale il sistema di rassicurazione del nervo vago viene disattivato e si attiva invece il sistema di risposta difensiva che si struttura attorno a due polarità “attacco” e “fuga”.

La teoria polivagale descrive, in buona sostanza, il funzionamento del sistema individuale di calma e connessione, attraverso sia i segnali corporei non verbali che attraverso le relazioni sociali. I segnali non verbali che sono tipicamente coinvolti sono i gesti della testa, delle mani, la prosodia della voce, l’espressione della parte superiore del viso. Tutte queste informazioni vengono lette dalla corteccia temporale che ne individua l’intenzionalità e decide se iniziare una interazione o ritirarsi.
Il sistema di conforto è legato all’espressione del viso mentre il sistema difensivo può comportare, oltre alla risposta di attacco e fuga, anche la risposta di freezing o immobilizzazione.

Tre sistemi gerarchici

La teoria polivagale ipotizza tre sistemi gerarchici di risposta agli stimoli ambientali: il primo livello è costituito dal sistema nervoso autonomo. C’è poi un sistema di soglia che regola la percezione del dolore e che può eliminare la percezione del dolore stesso quando supera una certa soglia, come espresso nei lavori di Porges sulla finestra di tolleranza. La caratteristica di questo sistema è quella di produrre il fenomeno del distacco dissociativo in condizioni estreme di abuso e la risposta di immobilizzazione.
Il problema è che, mentre il sistema nervoso autonomo passa facilmente da una risposta simpatica di attivazione ad una parasimpatica di disattivazione, questo sistema di soglia, una volta attivato, non ha un processo automatico di disattivazione. Questo processo è mediato dal nervo vago. Il vago è un nervo sia motore, collegando il tronco encefalico alle viscere, che sensore (80%) collegando i segnali viscerali al tronco encefalico. Nel caso delle fibre motorie si tratta di fibre mielinizzate e regolano le aree al di sopra del diaframma, mentre le fibre sensorie sono demielinizzate e regolano le funzioni sottostanti al diaframma. Per Porges la consapevolezza che la risposta vagale può modificarsi attraverso i segnali positivi della mimica facciale e attraverso il lavoro sull’espirazione diventa importante proprio in ordine alla possibilità di uscire dalla risposta traumatica di immobilizzazione.

Quello che abbiamo bisogno di comprendere, dice Porges, è che qualunque processo di cura, fisica e psicologica, richiede un livello di buona reciprocità relazionale e la sensazione di essere in condizioni di sicurezza perché non si attivi – o si disattivi – la risposta vagale al pericolo.

Questo articolo è tratto dai miei appunti del corso organizzato sul trattamento dl trauma dal National Institute for the Clinical Application of Behavioural Medicine, www.nicabm.com.
A cura di Nicoletta Cinotti 2023

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