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destinazione mindfulness

Rigidi o troppo flessibili?

15/09/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Spesso quando proviamo avversione per qualcosa che sta avvenendo finiamo per assumere una posizione rigida: contraiamo la mandibola o stringiamo le mani o tratteniamo il respiro. Lottiamo contro l’espressione dell’avversione ma siamo consapevoli che proviamo avversione. Più o meno consapevoli che c’è una tensione nel corpo. Un conflitto tra quello che sentiamo e quello che riteniamo opportuno esprimere. Perché, molte volte, non abbiamo dubbi sull’opportunità della nostra sensazione ma abbiamo dubbi sulla possibilità di esprimere la nostra sensazione. Così tratteniamo, irrigidendolo, il corpo. E se proprio non riusciamo a trattenere diciamo quello che pensiamo, senza preoccuparci troppo dell’effetto sull’altro. Siamo tanto arrabbiati che sentiamo solo noi stessi.

Non sempre però trattiamo così la nostra avversione. Se amiamo molto la persona che produce la situazione che rifiutiamo, possiamo, quasi impercettibilmente, coprire la nostra avversione con una accondiscendenza gentile. Una iperflessibilità all’adattamento. Perché la cosa più importante è non perdere l’amore di quella persona, anche se ci propone cose che non vogliamo. Anche se siamo costretti ad subire condizioni che non accetteremmo. Sostituiamo la protesta con la resa. Tutto pur di essere vicini. Tutto purché l’altro sia fiero di noi. E noi fieri di riflesso.

Dal punto di vista relazionale l’accondiscendenza è una posizione meno sfidante: si tratta di chinare la testa, di guardare le cose con pazienza, di cercare, velocemente, molto velocemente, il positivo della situazione. Ma l’avversione rimane. Sta nascosta dentro di noi e ci confonde. Non capiamo più cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Prendiamo l’abitudine a rispondere sì ma quel sì non è accettazione. È un piegare, con lacrime senza suono, la testa. Un dire e dirsi che l’amore che proviamo per l’altro è più importante dell’amore che possiamo avere per noi. Senza condizioni. Siamo tanto spaventati che sentiamo solo le ragioni di chi amiamo.

In mezzo, tra la rigidità e l’iper-flessibilità, sta l’ascolto. E il coraggio e la fiducia di scegliere se dire sì o no.

Felicità non è altro che contentezza del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque questo stato sia. Giacomo Leopardi

Pratica del giorno: Esplorare l’accettazione nel corpo

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

 

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L’ansia del rientro

11/09/2023 by nicoletta cinotti 1 commento

Mi capita spesso, in questi giorni, di sentirmi dire “Ho appena iniziato ma mi sembra che le vacanze siano lontane anni”, oppure “Ho appena ripreso e avrei già bisogno di andare in vacanza”. Io lo chiamo effetto immersione. Quando riprendiamo la nostra quotidianità – che sia lavoro o quotidianità in senso ampio – riprendiamo il nostro consueto meccanismo di vita. Che ci stritola non solo perché è troppo pieno ma anche, e soprattutto, perché è meccanico. Non ha posto per gli imprevisti, non ha posto per la pausa.

È come se la nostra vita diventasse più grande di noi: una specie di macchina gigantesca che ci ingloba fino a soffocarci. In questo senso la vacanza rischia di essere una fuga momentanea che ci permette di tornare a farci stritolare, senza pietà e senza ritegno.

Perché costruiamo dei meccanismi, degli schemi, delle routine? Per amore dell’efficienza. Per timore di non farcela. Il meccanismo acquista così una vita propria ma ci soffoca. Il punto allora è incominciare a mettere la vacanza nella propria vita quotidiana: non nel fine settimana ma proprio nella giornata. In ogni giornata. Dei momenti di assoluta gratuità, in cui dedicarci a quello che accade, senza bisogno di produrre nulla.  Momenti in cui siamo semplicemente presenti. In cui trattiamo la nostra agenda come se fosse un giardino. Momenti in cui, ogni giorno, ci prendiamo una vacanza. Senza l’ansia dell’inizio, senza l’ansia della fine.

Per essere un artista della fine bisogna lodare
Non solo ciò che è stato prima, ma anche ciò che verrà.
Il fatto di finire è di per sé sorprendente;
Le linee che la definiscono non vengono mai tracciate.
L’inizio è un dono che arriva inaspettato,
ma la fine può essere creata come un’arte. Pat Schneider

Pratica di mindfulness: Un cuore sicuro

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR

 

 

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La mente è una nuvola

17/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se potessimo guardare come funziona la nostra mente vedremmo punti luminosi che si accendono e spengono in tutto il corpo e nel cervello. Qualcosa di molto simile ad una nuvola di connessioni luminose che avvengono contemporaneamente in parti diverse del corpo e della testa. Quel cloud di parole che a volte vediamo scritte con parole a caratteri più grandi e altre più piccole a seconda della forza della connessione.

La nostra mente è associativa: un aspetto ne suscita un altro, che si ramifica in un altro ancora. È per questo che se soffriamo di attacchi di panico, o se abbiamo avuto un trauma, aspetti apparentemente banali possono scatenare una crisi. Diventano interruttori – punti trigger – che innescano una catena associativa (assolutamente non logica).

Così, improvvisamente, possiamo venir attraversati da stati d’animo molto intensi e siccome abbiamo bisogno – assoluto – di dare significato a quello che proviamo, finiamo per “dare la colpa” a qualcosa che è avvenuto precedentemente. Anche se non ha nulla a che vedere con quello che è successo. Proprio nulla. Ma noi abbiamo bisogno di capire, di dare un significato: l’assenza di significato è angosciosa. Così, molto spesso, attribuiamo significati a caso. Significati che ci lasciano inquieti e dubbiosi perché sappiamo che non sono autentici.

Questa è la brutta notizia. Poi c’è la buona notizia che è veramente buona.

La buona notizia è che se impariamo – e non è difficile farlo – a dare nome a quello che sentiamo (il nome giusto come nei cruciverba) disattiviamo, senza sforzo, questi interruttori. Dai alla mente qualcosa che la calma, che è la giusta descrizione. E ogni parola della giusta descrizione va a costruire un significato autentico. Non uno credibile ma sbagliato. Uno autentico e che ci calma. Ogni nome giusto è come la tessera di un puzzle. Tante tessere formano un’immagine e nessuna tessera è più importante di un’altra: tutte contribuiscono all’immagine, a renderla completa. Ecco perché il diario della pratica è utile. Non importa però se non riesci a scrivere: ogni volta che sei attraversato da una sensazione intensa dai nome alle sensazioni fisiche, alle sensazioni emotive e ai pensieri. Nomi semplici, come quelli di una cantilena da bambini. E vedrai, come per incanto, quanto quei nomi ti calmano e ti accompagnano.

Aaron Antonovsky, sociologo della medicina, ha cercato di chiarire quali fossero i tratti psicologici che permettono ad alcuni di resistere allo stress estremo, mentre altri non ci riescono. La sua ricerca lo ha portato ad evidenziare tre caratteristiche – coerenti tra di loro – la comprensibilità, la gestibilità e la significatività. Cioè chi è molto resiliente allo stress è convinto che la sua condizione abbia un significato al quale si possono dedicare; sono convinti di poter gestire la loro vita; e che la situazione sia comprensibile anche se appare caotica e fuori controllo. Williams, Penman

Pratica di mindfulness: Spazio di respiro di tre minuti

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

 

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Le mele, le pere e l’insistenza del bisogno

06/06/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando sentiamo un bisogno spesso sentiamo anche una spinta relazionale: è un aspetto primitivo quello che ci spinge verso la relazione nei momenti di necessità. Accade perchè siamo esseri sociali, nasciamo in una matrice relazionale, cresciamo in un tessuto sociale. Gradualmente impariamo a dare una risposta personale ai nostri bisogni ma, se la necessità è particolarmente significativa, è normale che la spinta sia quella di rivolgersi all’esterno. Anche solo per condividere quello che stiamo vivendo, per aprire la mente verso una prospettiva più ampia.

A volte però – proprio perchè la spinta è stata quella del bisogno – si riattivano anche aspetti primitivi della nostra esperienza e così possiamo pensare che la risposta dell’altro sia determinante rispetto alla nostra necessità. Possiamo credere che la sua accoglienza determini il valore della nostra richiesta e la possibilità di essere soddisfatti. Così chiediamo sulla base di ciò che ci manca, anziché sulla base di quello che l’altro può darci. Come se fossimo tornati bambini e l’altro fosse una specie di genitore benevolo. In questo modo inneschiamo spesso  cicli di insoddisfazione e frustrazione reciproca. Più chiediamo inutilmente, più la percezione del bisogno diventa grande, più la distanza tra quello che vorremmo e la realtà aumenta. È un po’ come chiedere mele ad un albero di pere. L’altro ci può dare un frutto. E noi possiamo beneficiare di quel frutto come nostro nutrimento, anche se non è proprio quello che avevamo chiesto. La strada dell’insistenza non ci condurrà ad una migliore risposta. Né trasformerà le pere in mele.

Questo non significa che il nostro bisogno non abbia diritto di trovare una risposta: significa che accogliere la risposta dell’altro può condurre verso l’accettazione dei nostri e altrui limiti. Può aprire accoglienza verso quella non pienezza che è il segnale della spinta a crescere. Quel morso della fame che ci spinge a cercare risposte. E a scoprire che, anche senza ricevere esattamente quello che vogliamo, siamo in grado di andare avanti. E che c’è molto altro, invece, che soddisfa proprio i nostri bisogni e va ancora oltre.

Quando decidiamo di avere bisogno esattamente di una cosa, spesso lo facciamo dentro uno schema abituale e ripetitivo di lettura della nostra realtà. Quando invece lasciamo che sia la vita a darci delle risposte raccogliamo frutti generosi. E magari scopriamo che il nostro bisogno prende un’altra forma se lo guardiamo da un’altra prospettiva.

Ci muoviamo tutti nella vita guidati dalla nostra attenzione e dalle nostre intenzioni. Kristi Nelson

Pratica del giorno: Dare e ricevere

© Nicoletta Cinotti 2023

Mindful Self-Compassion: intensivo residenziale

 

 

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Tre fratelli gemelli

25/05/2023 by nicoletta cinotti 1 commento

Ci fidiamo molto di quello che pensiamo: pensare ci aiuta a scegliere, a decidere, a programmare, a organizzare.

C’è solo un piccolo ma non insignificante dettaglio: il pensiero è convincente anche quando non è vero. Così, se nutriamo la proliferazione mentale, nutriamo anche le nostre illusioni.

Perchè pensare qualcosa, a volte, non è distinguibile dall’averlo fatto. Non solo perché un pensiero può essere in grado di metterci nello stesso stato animo di un fatto realmente avvenuto ma proprio perchè ci convince, in qualche modo misterioso, che quella cosa l’abbiamo fatta davvero.Questo dà il via a situazioni paradossali: è perché pensiamo troppo che mangiamo troppo convinti di essere stati “leggeri”; che studiamo troppo poco perché crediamo di aver capito anche senza approfondirlo, che non rispondiamo, perché ci sembra che sia chiaro anche senza specificare. E la lista degli equivoci potrebbe essere infinita.

Così dietro al procrastinare, dietro alla pigrizia, dietro alla difficoltà di passare all’azione non c’è solo passività: c’è un proliferare di pensieri che è così nutriente che ci convince che quello che pensiamo sia, ormai, quasi fatto.

Quel quasi è la misura della nostra illusione che, quando crolla, non ci riporta con i piedi per terra ma sottoterra. Perché solo in quel momento ci rendiamo conto di quanto i pensieri e la tecnologia possano consumare il tempo senza lasciarci nulla di concreto.

Allora, se ci rendiamo conto che abbiamo la testa piena di pensieri possiamo anche semplicemente domandarci: c’è qualcosa che non sto vedendo? Mi sto illudendo su qualcosa? E poi, come un lasciapassare, scegliamo di fare qualcosa che stiamo evitando di fare.

Perché l’evitare, il proliferare dei pensieri e l’illusione sono tre fratelli gemelli che stanno sul confine tra sogno e realtà.

La consapevolezza di ognuno è uno spazio davvero ampio nel quale risiedere; non c’è momento in cui non sia un’alleata, un’amica, un santuario, un rifugio. E non è mai assente, solo che a volta è velata. Jon Kabat Zinn

Pratica di mindfulness: Tornare a casa

© Nicoletta Cinotti 2023 Tornare a casa: una giornata di pratica a Genova

Tornare a casa

 

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Gratitudine, gratefulness e cambiamento

21/05/2023 by nicoletta cinotti

Sono uscita di casa con animo allegro. Dopo pochi passi mi sono accorta che non avevo al polso l’orologio di mia madre. Un orologio che non si toglieva mai, nemmeno per dormire. Era l’orologio che io e i miei fratelli avevamo regalato a mio padre per il suo cinquantesimo compleanno. Lui non l’aveva amato perché apprezzava la tecnologia più avanzata e non aveva rinunciato al suo orologio digitale, mentre mia madre l’aveva indossato sempre.

Quando è morta ho chiesto ai miei fratelli di poterlo avere io e loro, generosamente, hanno capito le mie ragioni, assolutamente emotive, e me l’hanno lasciato.

Si diventa così animisti per affetto. Non è il valore economico che ci lega ad un oggetto ma il significato affettivo. Il lutto è fatto così, di oggetti che, improvvisamente, acquistano un grande valore. Succede per qualunque lutto. Ho visto partner distruggere reperti della relazione come se avessero trovato la soluzione al loro dolore. Un figlio distrutto perché aveva perso l’ultima lettera di sua madre. Potrei scrivere mille storie sul dolore degli oggetti perduti e sul senso degli oggetti dimenticati. Un paziente molto tempo prima di separarsi (e addirittura molto tempo prima di iniziare a parlare della sua crisi matrimoniale) dimenticò nel mio studio la vera nuziale. Perché nella vita incontriamo molte morti: separazioni, abbandoni e perdite ci allenano. Sono “piccole morti” da cui imparare. Imparare a continuare a vivere sapendo che il cambiamento non è qualcosa che possiamo controllare. C’è un dolore legato al cambiamento e un dolore legato all’invecchiamento, alla morte, alla malattia. Consideriamoli allenamenti per arrivare splendenti. Sembra che Michela Murgia lo stia facendo e ognuno di noi può farlo. Soprattutto se lasciamo andare la scaramanzia che abbiamo rispetto a questa parola e a tutte le parole collegate. Siamo animisti anche nella superstizione e le parole diventano oggetti concreti, tangibili e intoccabili.

La scelta di Michela

Sto leggendo il libro di Michela Murgia, Tre ciotole. L’ho preso perché sapevo che avrebbe parlato della sua malattia. È un libro in cui le parole sono come i sassi che trovi sulla spiaggia di Camogli, alcuni riescono a camminarci sopra con apparente anestesia. Io no, devo sempre mettermi delle ciabatte. Il libro di Michela Murgia declina, attraverso diverse storie, le nostre reazioni alle piccole e grandi morti della vita. È un libro discontinuo, scritto di getto (e si sente) ma ti lega alla lettura perché capisci che dentro c’è un pezzo del cuore della persona che l’ha scritto. Non scherzava con la penna quando scriveva. Ci metteva dentro quello che c’era. Non ha la raffinatezza di Matteo B. Bianchi nel raccontare il lutto e nemmeno la profondità di Joan Didion che estrae il suo lutto e lo trasforma in un succo prelibato e squisito ma ti incatena per la sua autenticità. Perché il punto, dovremmo avere il coraggio di riconoscerlo, è che le cose acquistano valore alla luce della perdita. Come dice Michela in un’intervista “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? Ho chiesto a Vogue di poter fare un viaggio sull’Orient Express. Posso andare alle sfilate di moda, farò un sacco di cose. Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così”. Ecco molto spesso, troppo spesso, diamo valore a quello che “abbiamo” nel momento in cui lo stiamo perdendo. Eppure odiamo il lutto, lo scansiamo, a volte facciamo finta che non ci sia.

L’ Harvard Business Review ha dedicato più di un articolo al tema del lutto perché, se non accettiamo di riconoscere il lutto che viviamo di fronte ai cambiamenti, rimaniamo paralizzati nella nostra creatività ma, soprattutto, rimaniamo bloccati nella nostra vita. Durante e dopo la pandemia globale, è emerso un senso di lutto collettivo. Il lutto è un sentimento multiplo che non possiamo evitare ma è necessario imparare a gestire. Le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione) ci aiutano a vivere e non sono – come molti temono – un preludio della fine ma un preludio per ogni nuovo inizio. L’alternativa al lutto è il ristagnare, aggrapparsi ad un passato che non c’è più e che non è in alcun modo ripetibile.

Passare dalla perdita per essere felici

Come forse saprai ho appena fatto un ritiro monastico. Un ritiro è, in qualche modo, un grande esercizio di perdita. Ci esercitiamo lasciando la solita vita, lasciando il cellulare, lasciando il modo consueto di comunicare, lasciando il contatto con la vita quotidiana. In un ritiro monastico lo facciamo in modo ancora più estremo ma in ogni caso, qualsiasi ritiro ha una quota di rinuncia dell’ordinario. Perché?

Proprio perché accettando di incontrare volutamente qualcosa che ci fa paura ci apriamo ad una nuova e diversa felicità: la felicità essenziale e non quella che proviamo nel momento in cui si realizza qualcosa di desiderato ma quella che è alla base ed è espressione della nostra mente originaria. Per conoscere quella felicità è necessario attraversare il vuoto, trovarsi, almeno per qualche attimo, nel mezzo del niente.

David Steind-Rast ne fa un sunto perfetto nella sua distinzione tra gratitude (gratitudine) e gratefulness (lascio le parole in inglese perché non c’è un corrispettivo in italiano). La gratitudine è un sentimento che sorge nel momento in cui riceviamo qualcosa che ci sorprende e che abbiamo desiderato. La gratefulness è uno stato di base che nasce dal sentirsi grati per qualsiasi cosa, incluso anche per quelle esperienze che potremmo definire di perdita. È una condizione mossa dal riconoscere la bellezza, la speranza, la qualità della nostra vita, la vulnerabilità, l’incertezza e l’impermanenza come condizioni e ragioni per essere grati.

La gratitudine è una cosa fantastica. Quando riceviamo qualcosa che desideriamo, quando le esperienze ci danno piacere o quando la vita va per il verso giusto, è naturale e significativo provare gratitudine (…) Immagina di poter avere una gratitudine incondizionata e duratura. Una gratitudine che non dipende da ciò che accade, ma che viene da dentro di noi. (…) Come tessuto connettivo tra i nostri momenti e le nostre esperienze, la gratitudine ci permette di trovare gratitudine nella “grande pienezza” della vita in tutti i suoi momenti reali di disordine e magnificenza. Kristi Nelson

Confondere l’ansia con il lutto anticipatorio

L’ansia è un’emozione che ci accompagna. Ne ho parlato molto in “Mindfulness ed emozioni”.

Il ruolo dell’ansia è principalmente quello di funzionare come attivatore di fronte alle situazioni nuove o come rilevatore di pericolosità. Per questa ragione può presentarsi in tutti i sistemi emotivi: possiamo provare ansia di fronte a un esame medico (emozione del sistema difensivo), ansia durante la partecipazione a un concorso (emozione del sistema di ricerca delle risorse), ansia prima di incontrare una persona che ci piace molto (ansia del sistema affiliativo). In qualche modo l’ansia è un interruttore dell’intensità emotiva. Quando una situazione è molto intensa diventiamo ansiosi. Se è un’ansia funzionale al compito attiva tutte le nostre risorse, ma può portarci alla paralisi quando è disfunzionale. E spesso confondiamo l’ansia con altre emozioni come la vergogna e il lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è quello che proviamo quando sappiamo che, prima o poi, accadrà un cambiamento non desiderato. È il lutto anticipatorio quello che sta alla base di tutto l’enorme marketing dei cosmetici (tra parentesi la cosa che mi è mancata di più nel ritiro è stata la mia crema viso!) e molte persone provano, nei confronti dei segni dell’invecchiamento, un vero e proprio senso di vergogna. Insomma, per quanto tentiamo di far finta di nulla, sappiamo che la vita è impermanente e che ogni cosa che può accadere, potrebbe succedere anche a noi: “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Non basta lo scudo della disapprovazione per i comportamenti sbagliati e l’arma della prevenzione per evitare che qualcosa accada. La protagonista del libro di Michela Murgia chiede, “cosa ho sbagliato?” nel momento in cui le viene comunicata la diagnosi di cancro come se sapere che è stato un errore rendesse l’evento più comprensibile.

Gli stati mentali

Adesso spero che non sarai arrivato o arrivata troppo depressa leggendo fino a qui perché non c’è una ragione per essere depressi ma, piuttosto, molti buoni motivi per essere consapevoli. Consapevoli di cosa? Forse penserai che ti stia rispondendo del “respiro” e invece ti sorprenderò dicendoti che l’invito, per stare nell’incertezza, nella vulnerabilità, nell’impermanenza è essere consapevoli del nostro stato mentale. Cercare di sperimentare gratefulness oltre che gratitudine, ricordarsi che la nostra tendenza a focalizzare l’attenzione sul pericolo ha bisogno di essere compensata da pari attenzione alla gioia (Trovi qui una pratica di meditazione su Mudita: la gioia). Non ci serve a nulla essere ansiosi su quello che potrebbe succedere. Ci serve, invece, tantissimo, essere aperti per poter contare sulle nostre risorse più che sulle nostre difese. Il lavoro è instabile, il clima è fuori controllo, non abbiamo molto potere sugli eventi importanti della nostra vita. Però possiamo scegliere di guardare con gratefulness al fatto che siamo vivi e gustarcela fino in fondo la nostra unica, preziosa e selvaggia vita.

Tornare indietro

Forse ti domanderai com’è andata a finire la storia dell’orologio. Ho fatto due passi avanti, senza orologio. Mi sono fermata. Mi sentivo nuda. Mi sono girata e ho fatto tre passi indietro, provavo desiderio. Sono rimasta un attimo lì, ferma tra l’andare avanti e tornare indietro. Poi ho deciso: sono tornata a prendere l’orologio. Mi sono concessa il lusso di riconoscere che avevo ancora bisogno di essere animista: non mi sono tolta quell’orologio nemmeno durante il ritiro anche se era stato consigliato di farlo. Non dobbiamo sforzarci di essere radicali ma di sapere dove siamo. Prima o poi lo lascerò.

So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti. Joan Didion

Perdere il lavoro

Ti rivelerò un segreto di Pulcinella: lavoro moltissimo con persone che perdono il lavoro e con persone che devono comunicare ad altre la perdita del lavoro. Il lavoro non è più una garanzia. In nessun settore, nemmeno per noi liberi professionisti. A volte fantastico di poter parlare direttamente alle persone che si devono confrontare con la minaccia della perdita del posto di lavoro e che, lottano, paradossalmente quanto inutilmente, per rimanere aggrappati. E più quel lavoro era ben remunerato – e meno indispensabile rimanere aggrappati – e più lottano. È la paura e la difficoltà a fare i conti con il lutto del cambiamento. Rimandare l’accettazione fa arrivare stanchi al cambiamento. Non farlo. Trasforma la memoria di tutto quello che hai ricevuto in gratitudine. Non lasciare che la memoria diventi una trappola che ti incatena al passato ma trasformala in una quantità di gratitudine che ti permetta di fare un passo avanti. Il passo che non volevi fare.

Inizia da molto vicino, non fare il secondo passo o il terzo, inizia dalla prima cosa, quella più facile, il passo che non vorresti fare. David Whyte

© Nicoletta Cinotti 2023

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