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crescere

Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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La più piccola che riesci a vedere

02/08/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo dei fanatici del cambiamento rapido e immediato? Oppure siamo affetti da una dose cronica di impazienza? Ci piace “voltare pagina”, dare un taglio netto, un colpo di spugna, una svolta radicale?

Bene, se hai risposto sì (ma non siamo su test on line!) sarebbe utile anche vedere quanti di questi tagli netti sono stati stabili e quante delle nostre svolte radicali sono stati atti di cui, a distanza di tempo, siamo ancora orgogliosi. Perchè di immediato, in natura, ci sono solo le catastrofi. Il resto, ossia tutto ciò che cresce, procede lentamente, con piccoli passi che non riusciamo a vedere se non a distanza di tempo. La nostra tendenza a dire – cosa vuoi che cambi se faccio 5 minuti di pratica, se mangio un cioccolatino in meno, se aspetto prima di reagire – è espressione del nostro desiderio di grandiosità più che della nostra intenzione di cambiare e di crescere. Ci convinciamo che solo quello che è grande, vistoso, enorme, totalizzante, funziona. Poi non riusciamo a farlo e quindi rimaniamo frustrati e avviluppati in vecchie abitudini che ci fanno male. Non mettere a fuoco il cambiamento definitivo – quello che ti sembra irrealizzabile o che ti spaventa – metti a fuoco la cosa piccola, alla tua portata proprio oggi. Eventualmente la più piccola che riesci a vedere. Con l’intenzione di arrivare a quella grande novità, domandati “Cosa posso fare oggi di piccolo e concreto?”

Ci sono cose nella tua vita che ti sembra impossibile accettare? Metti a fuoco quelle che, invece senti di poter accettare e lasciar andare. Metti a fuoco il sollievo che ti dà l’accettarle e ringraziati per aver fatto – ora – un movimento verso l’accettazione. È se è una cosa minima, ringraziati il doppia: quella cosa minima avrà, in prospettiva, un grande risultato. Costruisci con il piccolo, con il piccolissimo, la tua capacità di accettazione. Onorando e riconoscendo i tanti momenti in cui sei in grado di accettare, anziché rimanendo intrappolato in quelli in cui non sei in grado di accettare. E, forse, nel momento in cui sperimenti l’accettazione, hai già realizzato l’esperienza di libertà che nasce dall’accettare anziché opporsi, dal lasciar andare anziché rimanere aggrappato. Forse la meta finale è solo una illusione e quello che conta è il passo che facciamo adesso.

Qualsiasi cammino inizia con un passo che non è piccolo: ha la misura delle nostre gambe. E per andare avanti servono solo i passi successivi, nessun miracolo improvviso. Se guardiamo al cambiamento finale che desideriamo realizzare è facile diventare vittime dello scoraggiamento e della rinuncia. È facile diventare impazienti. Perchè l’impazienza è figlia della distanza: una figlia minore e ribelle. La pazienza invece è figlia della fiducia, in noi e nei nostri mezzi. È la fiducia che ci fa dire “Non affrettare il cambiamento che desideri, dai alle cose il tempo di crescere”.

Conta solo il cammino, perché solo lui è duraturo e non lo scopo, che risulta essere soltanto l’illusione del viaggio. Antoine de Saint-Exupery

Pratica di mindfulness: Addolcire, confortarsi, aprire

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Accettazione declinata da Jon Kabat Zinn

11/03/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Accettazione significa vedere le cose così come sono nel momento presente. Se hai mal di testa, accetta che hai mal di testa. Se pesi qualche chilo in più di quanto vorresti, accettalo come una descrizione dello stato attuale del tuo corpo. (…)

Spesso arriviamo all’accettazione solo dopo aver attraversato periodi emozionalmente carichi di rimozione e di rabbia. Questi passaggi sono fasi naturali del cammino verso l’accettazione e fanno parte del processo di guarigione. Di fatto la mia definizione di guarigione è accettare le cose così come sono . Ma, lasciando da parte per ora le grandi calamità della vita, le ferite la cui guarigione richiede di solito parecchio tempo, nella vita di ogni giorno spesso sprechiamo una gran quantità di energia nel negare e resistere a ciò che già di fatto è. Cercando di forzare le situazioni a essere come vorremmo che fossero creiamo solo ulteriori tensioni che ostacolano il cambiamento positivo. Quando siamo tanto occupati a rimuovere, a forzare, a lottare, ci resta ben poca energia per guarire e per crescere – e la poca che ci rimane la sprechiamo per mancanza di consapevolezza.

Per esempio, se ti senti grasso e il tuo corpo non ti piace, non serve a nulla posporre l’amarti e il piacerti a quando avrai il peso che pensi di dover avere. Se non vuoi restare preso in un circolo vizioso, dovrai renderti conto che va bene amarti ora, al peso che hai ora, perché ora è il solo momento in cui puoi amarti.

Ricorda, ora è il solo momento che hai a disposizione per qualsiasi cosa. Ogni cambiamento passa in primo luogo attraverso l’accettazione di te stesso così come sei. La tua scelta di accettarti è un gesto di auto-compassione e intelligenza. Quando cominci a pensare in questo modo, dimagrire diviene meno importante e diviene anche molto più facile. Coltivando l’accettazione crei le condizioni preliminari per la guarigione. Accettazione non significa che deve piacerti tutto o che devi assumere un atteggiamento passivo verso tutto e rinunciare ai tuoi principi e ai tuoi valori. Non significa che devi essere soddisfatto delle cose così come sono o rassegnato a che le cose siano così «come devono essere».

Non significa che non devi cercare di liberarti delle tue abitudini autodistruttive e che devi rinunciare a cambiare e a crescere o devi tollerare l’ingiustizia, per esempio, e rinunciare a ogni impegno per cambiare il mondo perché è così com’è e quindi senza speranza. L’accettazione di cui parlo non è rassegnazione. Significa che prima o poi dovrai renderti disponibile a vedere le cose così come sono. È l’atteggiamento che pone i presupposti per una azione appropriata nella tua vita, qualsiasi cosa stia succedendo. È molto più facile agire con convinzione e con efficacia quando abbiamo una chiara immagine di come stanno le cose, che quando la nostra visione è velata da giudizi e desideri, timori e pregiudizi.(corsivo mio). Jon Kabat Zinn

© www.nicolettacinotti.net Addomesticare pensieri selvatici

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Be real not perfect: verso un’accettazione radicale 

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La sfida del cuore: comprendere chi siamo

19/01/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Sappiamo abbastanza bene, e per esperienza diretta, che impariamo per prove ed errori. Le prove sono quelle che ci offre la vita: non siamo andati a cercarle ma ci sono capitate. Sono arrivate come un vento e se ne sono andate come una tempesta.

Le prove fanno crescere tanto che spesso cerchiamo delle sfide proprio per questa ragione. Per crescere, per misurarci, per vedere quali sono le nostre possibilità reali. Così, alla fine, tra le prove della vita e le sfide che ci diamo noi, il nostro cuore è sottoposto ad una palestra costante.

Sia che si trattino di sfide che abbiamo scelto, sia che si tratti di prove alle quali siamo stati sottoposti a caso, alla fine ci aiutano a fare tre passaggi fondamentali, che ripetiamo più e più volte.

Il primo passaggio è conoscere che cosa vogliamo fare, conoscere la nostra vocazione, la nostra passione, dove dirigere la nostra energia. Non sono passaggi che facciamo una volta per tutte. Li ripetiamo ogni giorno e ci orientano rispetto alle nostre capacità. La sfida è realizzare proprio quelli che sono i nostri talenti. È una sfida che si basa su quello che sappiamo fare e lo coltiviamo per farlo crescere. È la sfida del sì.

Il secondo passaggio nasce, invece, da quello che non sappiamo fare. Dall’incontrare un limite e dallo scegliere se provare a varcarlo o considerarlo uno stop. È una sfida che coltiva la nostra saggezza, la capacità di discriminare se fermarsi o andare avanti. E quindi si basa su quello che non sappiamo o non vogliamo fare. È la sfida del no.

Il terzo passaggio è, infine, conoscere chi siamo. È la sfida del tornare a casa, del riportare il senso di ciò che accade all’interno anziché all’esterno. Del comprendere e comprenderci, del riconoscere il sapore della nostra vita.

Ogni giorno, uscendo di casa, realizziamo la sfida del sì e del no. Ogni sera, tornando a casa possiamo realizzare la sfida del sapere chi siamo. E, se sappiamo chi siamo, non portiamo la rabbia dell’ufficio, il nervosismo della frustrazione, i pensieri del lavoro. Portiamo noi. E quello è il momento in cui siamo davvero a casa, in qualsiasi luogo.

Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta. T. S. Eliot

Pratica di Mindfulness: Esplorare rifiuto e accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT

 

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Una storia tra inadeguatezza, rischio e miglioramento

27/11/2022 by nicoletta cinotti

Si avvicina la fine dell’anno e arriva il momento dei bilanci. A fine mese ci sono le tasse per noi liberi professionisti e questo aiuta a fare i conti. Conti tra i più vari: vanno dal mantenere le buone abitudini acquisite, al fare qualcosa di lungamente rimandato, all’iscriversi a qualche corso. Lo scopo? Spesso non espresso ma implicito: miglioramento. Siamo dei fanatici del miglioramento, e lo stiamo diventando sempre di più. Abbiamo libri, riviste, giornali che parlano di come migliorarsi: aspetto fisico, abitudini, aspetti emotivi. Ma come mai tanta attenzione al miglioramento e che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Che differenza c’è tra crescita e miglioramento?

Anche se tendiamo a negarlo l’idea del miglioramento è sottilmente ostile nei nostri confronti. Significa che c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui subordiniamo la nostra possibilità di accettazione. Mi accetterò quando avrò superato quel problema, quel difetto, e dimostrerò così, a me stesso e agli altri, che valgo, che sono capace, che ho padronanza nei confronti della mia vita. Inoltre l’idea del miglioramento fa pensare a qualcosa di statico, già definito e concluso, che richiede solo un ritocco. Magari grande ma un ritocco.

Il concetto di crescita è invece più stimolante e flessibile. Include la possibilità che ci siano aspetti più maturi e altri più deficitari, include l’idea che il cambiamento sia in corso ma non dà una classificazione negativa. Rimane aperto a molte possibilità che potranno verificarsi o meno, a seconda della direzione di sviluppo. Include la possibilità che non tutto si realizzi ,senza che questo debba per forza essere considerato un fallimento. Molto spesso le persone orientate alla filosofia del miglioramento hanno una visione perfezionistica delle loro possibilità di crescita.

Chi, invece, ragiona in termini di crescita, in genere associa la crescita ad un aumento degli aspetti positivi ed è più propenso al rischio, anche al rischio di sbagliare, di chi, invece, si muove in termini di miglioramento.

Cosa nascondono i nostri sforzi migliorativi

Vorrei sgombrare il campo da possibili equivoci: sia che siamo fanatici del miglioramento che teorici della crescita, le cose sono soggette a cambiamento. Alcuni cambiamenti sono piacevoli, altri meno. In alcuni casi sperimentiamo una crescita, in altri una decrescita. In alcuni casi poi – forse la maggioranza – il cambiamento non dipende da noi. Ce lo troviamo davanti già confezionato e non sempre è di nostro gradimento. Spesso abbiamo un eccessivo senso di colpa rispetto agli eventi che accadono, ci riteniamo responsabili anche di cose che non possono, oggettivamente, rientrare nella nostra sfera di competenza, come se da noi dipendesse tutto.

La vera domanda però è un’altra: quello che accade – fuori dal nostro programma e controllo – suscita una sensazione di disagio o inadeguatezza? Preferiamo i programmi o siamo flessibili alle novità? Ci basta rispondere che dipende dall’aspetto desiderabile di queste novità oppure l’imprevisto è spesso accolto con ansia?

Molti dei nostri tentativi di miglioramento nascondono, infatti, una sotterranea sensazione di inadeguatezza. Non ci sentiamo all’altezza, a volte di uno standard di prestazione, a volte di un ideale, a volte di come eravamo e di come cerchiamo di rimanere. Perché la sensazione di inadeguatezza ci perseguita? Perché sentirci inadeguati ci fa sentire fuori dal club, fuori dal gruppo, fuori dall’appartenenza.

Sentirsi fuori dal gruppo

Non appartenere, sentirsi estranei, è percepito come pericoloso, fin dall’antichità. Per i nostri antenati essere estromessi dalla tribù significava morte certa e la minaccia di espulsione è, da sempre, una forte molla di controllo sociale. Dietro alla compulsione a verificare i like sui social credo ci sia questo desiderio di appartenere, di fare parte. A volte anche i desideri più elitari nascondono, in realtà, proprio il bisogno di appartenere. Magari ad un gruppo molto ristretto e selezionato, ma appartenere.

Nella mia infanzia la minaccia, “Ti mando in collegio“,era l’unica che sortiva qualche effetto, breve ma intenso. Come rispondiamo a questo senso di inadeguatezza e al sottostante rischio di isolamento? Le strategie più usate sono diverse ma tutte hanno una duplice qualità: iper-compensazione o resa.

Torniamo ai fatidici progetti di miglioramento

I progetti di miglioramento hanno l’obiettivo di farci ri-entrare in un gruppo o in un target. E sono un buon modo per spiegare la differenza tra iper-compensazione e resa. Le persone che iper-compensano sono quelle che iniziano una dieta (magari senza averne tantissimo bisogno) e poi non riescono a smettere. E questo vale per moltissime altre scelte che portano avanti con ossessione e determinazione.

Se invece prevale la resa un buon esempio sono quelle persone che, forse avrebbero bisogno di iniziare una dieta ma non provano nemmeno, essendo convinti che non riusciranno mai a portarla a termine. Queste due modalità opposte possono sembrare diverse: in realtà nascondono entrambe un  bisogno di gestire il sentimento di inadeguatezza: in un caso facendo di tutto per non provarlo (iper-compensazione), nell’altro facendo di tutto per non rischiare un ulteriore fallimento. Ma in quali altri modi trattiamo il nostro senso di inadeguatezza? Ecco un breve elenco:

  • Evitiamo di rischiare

È un po’ all’opposto dell’essere sempre presi da un progetto di miglioramento: in questo caso il punto è evitare di rischiare. Niente responsabilità, niente leadership, meglio rimanere nell’ombra. Non rischiare anche quando, non rischiare, è già di per sé un danno. Perché? Per paura del fallimento. o meglio per paura che un fallimento alimenti la personale sensazione di inadeguatezza. È vero che fallire è doloroso ma paralizzare la propria vita evitando qualsiasi rischio diventa un modo per bloccare la propria crescita personale. Abbiamo bisogno di rischiare perché rischiare ci permette di coltivare la zona prossimale di sviluppo.

  • Evitare il presente

Strettamente collegato ad evitare di rischiare è evitare di stare nel presente. Ci sono persone che sono sempre catturate da episodi del passato: passato immodificabile, senso di inadeguatezza non trasformabile. Ma anche situazioni in cui evitare il presente, e le sue opportunità, permette di evitare di rischiare, di mettersi in gioco. Una delle modalità con cui evitiamo il presente è con la distrazione. Da una parte siamo catturati da vecchie storie del passato, dall’altra siamo attirati dalla nostra fantasia ad andare altrove. Dove? Non ha importanza, la fuga ha sempre qualche destinazione. L’aspetto principale è evitare l’ansia connessa al presente della nostra situazione. Affrontarla suscita troppa inadeguatezza. insomma, quella che di solito chiamiamo mancanza di disciplina è, molto spesso, mancanza d’amore nei nostri confronti. Ci sentiamo troppo inadeguati per volerci bene!

  • Tenersi occupati

Se ci teniamo occupati, anche molto occupati, controlliamo la sensazione di inadeguatezza. Non è detto che l’occupazione con la quale ci intratteniamo sia utile ma sicuramente ci protegge da qualcosa che farebbe emergere la sensazione che temiamo. Il vuoto, la pausa, fa emergere il senso di mancanza, il senso di inadeguatezza. Tenersi occupati è come un tappo che va bene per qualsiasi disagio. In più dà l’illusione che, tutto sommato, ce la stiamo mettendo tutta. In realtà a volte ci teniamo occupati con compiti al di sotto delle nostre possibilità, come navigare sui social. Ma non importa: tutto purché non affiori quella sgradevole sensazione.

  • Andiamo sul classico: la voce critica interiore

Abbiamo già parlato molto spesso della nostra radio, sempre accesa, sempre pronta a criticarci.Non riparlerò troppo di questa modalità che è sul versante dell’iper-compensazione. Come se criticarci servisse a migliorarci. In realtà non fa che confermare una convinzione che abbiamo già: non andiamo bene. Se guardiamo a questo aspetto con consapevolezza possiamo renderci conto di quanto sia improduttivo: quale allenatore direbbe continuamente al suo atleta – durante la prestazione – che non va bene? Nessuno, perché a tutti parrebbe evidente l’assurdità del comportamento conseguente. Eppure con noi stessi facciamo proprio così: confondiamo il bisogno di consolarci con la critica. Confondiamo il desiderio di crescere con la storia del miglioramento ad oltranza.

  • L’altra faccia della medaglia: il biasimo

L’altra faccia del comportamento di critica interiore è il biasimo rivolto, questa volta, all’esterno. Apparentemente la nostra ostilità non è rivolta verso di noi ma in realtà ci mette nella condizione di temere tantissimo il nostro personale fallimento e di temere ancora di più il giudizio altrui. Se stiamo attenti le persone che sono sempre pronte a criticare il prossimo sono, molto spesso, persone insoddisfatte dei propri risultati, persone che scelgono di non rischiare e, quindi, di non crescere.

I discorsi di laurea

Negli Stati uniti, alla cerimonia di laurea vengono chiamati famosi oratori per celebrare questo momento di transizione. Alcuni di questi discorsi sono diventati famosi perché pieni di saggezza e intuizione. In effetti io credo che ogni giorno dovremmo svegliarci con un discorso di laurea rivolto a noi stessi. Guardare l’agenda del giorno e rivolgersi delle parole calde e ispiranti per la transizione tra le mura domestiche e il mondo esterno.Se non ogni giorno almeno all’inizio di ogni anno o di ogni attività importante. Prendo due citazioni, per concludere in bellezza.

[box] In questo meraviglioso giorno in cui siamo riuniti per celebrare il vostro successo accademico, ho deciso di parlarvi dei vantaggi del fallimento. Ed esaltare, proprio mentre siete sulla soglia di ciò che viene chiamato “vita reale”, l’importanza fondamentale dell’immaginazione. I miei genitori, entrambi di umili origini e senza istruzione universitaria, hanno sempre pensato che la mia prolifica immaginazione fosse una specie di divertente capacità personale che non avrebbe mai pagato un mutuo, né assicurato una pensione. Capisco quanto questo possa apparire ironico adesso (…) Non biasimo i miei genitori per il loro punto di vista. C’è una data di scadenza per accusare i tuoi genitori per averti guidato in una direzione sbagliata (…) Ma quello che io ho temuto di più nella mia vita non è stata la povertà ma il fallimento. Credo di poter dire che, solo sette anni dopo la mia laurea, avevo fallito in modo esponenziale. Un matrimonio eccezionalmente breve finito, senza lavoro, genitore single e povero come è possibile esserlo in Gran Bretagna senza arrivare ad essere senza fissa dimora. I timori che i miei genitori avevano avuto per me – la loro stessa povertà – e che io avevo avuto per me, si erano realizzati: sono stato il più grande fallimento possibile. Allora perché parlo dei benefici del fallimento? Semplicemente perché il fallimento è stato un incredibile punto di partenza. Ho smesso di fingere di essere quello che non ero e ho iniziato a dirigere tutta la mia energia per finire l’unico lavoro che mi interessasse. (…) Mi sono sentita libera, perché il mio più grande timore si era stato realizzato e io ero ancora viva, con una figlia adorata, una vecchia macchina da scrivere e una grande idea. E così il fondo che ho toccato è diventata la solida base su cui ho ricostruito la mia vita. (Harvard, 2008) J.K. Rowling autrice della saga di Harry Potter[/box]

Se tutti conoscono l’autrice di Harry Potter, forse non tutti conoscono Jennifer Lee, regista di cartoni animati, il più famoso dei quali è Frozen. Il suo discorso di laurea, del 2014 riprende in parte i temi di quello precedente e poi parla dei dubbi su se stessi. Ecco cosa dice:

[box] … è solo quando sei libero dai dubbi su di te, che inizi a fallire davvero, perché non ti difendi e quindi puoi anche accettare le critiche degli altri. Non sei così tanto preoccupato del fallimento da dimenticare di imparare dal fallimento, da dimenticare come crescere. Quando credi in te stesso, riesci meglio. Le ore trascorse in discussioni, dubbi, paure, possono essere passate a lavorare, esplorare, vivere.(…) e se c’è una cosa che ho imparato è che il dubbio nei propri confronti, il dubbio sulla propria adeguatezza, è una delle forze più distruttive. Ti mette sulle difensive invece che renderti aperto, diventi reattivo invece di attivo. È crudele e la mia speranza è che possiamo iniziare tutti a eliminarlo.(2014) Jennifer Lee[/box]

Lasciamo che questi discorsi di laurea ci aiutino a percorrere il nostro tempo con più accettazione e meno senso di inadeguatezza. Facciamoceli ogni mattina. Ricordiamoci ogni mattina che essere noi stessi, così come siamo, è il miglior punto di partenza per qualsiasi cambiamento e che criticare ciò che ci ha fatto diventare così significa negare la nostra unica qualità. Chi saremmo, senza ciò che abbiamo vissuto? Io ho provato a farlo e, inaspettatamente, ho scoperto la gioia anche nelle giornate più buie!

Per amare chi sei non puoi odiare le esperienze che ti hanno fatto diventare come sei.

© Nicoletta Cinotti 2022 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

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Ridurre l’ansia: normalizzare i desideri

09/02/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se c’è un’emozione che spinge a cercare relazione e aiuto questa è l’ansia: la sua morsa fisica è così intensa, l’agitazione che l’accompagna così destabilizzante, che alla fine sono veramente poche le persone che non corrono ai ripari.

E, di solito, i ripari all’ansia sono di due tipi: l’evitamento o i farmaci. Nessuno dei due è risolutivo. L’evitamento ha, come retro-effetto di aumentare le aree evocative dell’ansia fino a portare ad uno stallo. I farmaci – che sono necessari solo all’interno di un programma terapeutico – eliminano i sintomi ma non le cause.

La causa dell’ansia sono i desideri. Come, direte voi? Sì i desideri. Perchè il desiderio è una sorta di allungamento dell’anima che spinge verso una direzione nuova e verso un rischio. E lì inizia il conflitto che genera l’ansia. Rischio o non rischio? Cambio o non cambio? Nell’incertezza mi viene un attacco d’ansia e mi aggrappo – letteralmente – a qualsiasi cosa per farmela passare. Ma il problema rimane perchè non possiamo smettere di desiderare e il desiderio ci mette nel territorio dell’incertezza e della novità. In fondo la psicoterapia è proprio questo: un processo di espansione che permette di crescere senza essere continua preda di attacchi d’ansia. E questa espansione non avviene perchè la psicoterapia ci trasforma in rocce contro il mare in tempesta ma perchè ci aiuta a stare nei luoghi traballanti, nei sentimenti misti, nell‘incertezza che è connaturata con la vita.  Ci riabilita alla possibilità di desiderare, alla possibilità di perdere, alla possibilità di non sapere prima come andrà a finire. Questa riabilitazione apre la possibilità di amare. Non si può amare se si vuole solo avere certezze. Le certezze richiedono chiusure e l’amore richiede apertura. Le certezze richiedono rifiuto e l’amore chiama accettazione. È il desiderio che richiama l’amore e l’ansia è il sentimento dell’espansione dei confini ordinari.

Normalizzare i desideri significa non lasciare che sia la realizzazione del nostro desiderio la misura del nostro valore. È questo che crea ansia: l’idea che se il nostro desiderio non si realizzerà avremo una prova della nostra inadeguatezza. Non è così: non dipende tutto da noi. Non saremo noi ad eliminare l’incertezza dal mondo. E non possiamo trovare stabilità in qualcosa di esterno ma in qualcosa di interno.

Questo significa, nel corpo, lavorare sui muscoli stabilizzatori. Sugli stabilizzatori della spalla e del bacino. Il desiderio infatti ci fa protendere in avanti, verso l’altro, e se non sappiamo stare in questa incertezza perchè i nostri stabilizzatori sono deboli finiremo per passare dall’essere arroccati in se stessi all’essere aggrappati all’altro. In più i muscoli stabilizzatori sono muscoli che attivano la propriocezione e facilitano così il ritiro delle proiezioni. Non servono tante interpretazioni per smettere di proiettare: serve la consapevolezza fisica ed emotiva. E allora l’ansia sarà solo un segnale: quello che il nostro desiderio ci indica come direzione di crescita, senza la certezza del risultato.

Non esistono parole più chiare del linguaggio del corpo, una volta che si è imparato a leggerlo. Alexander Lowen

Pratica del giorno: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2018 A scuola di grazia e non di perfezione

Foto di © moremare

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