Anche se le evidenze sono molte tendiamo a dimenticare che siamo animali, presumibilmente una forma evoluta di scimpanzè, con i quali condividiamo il 98-99% dei geni. Questo non significa che uno scimpanzè è al 98% un umano perché gli stessi geni funzionano diversamente a seconda di come sono organizzati ma che la nostra evoluzione è frutto di diversi compromessi, biologici, funzionali, culturali e mentali.
Forse ti domanderai in che modo questo è collegato alla nostra mente di povertà. Se osserviamo il modo di funzionare del nostro cervello dobbiamo riconoscere che si è evoluto in forme straordinariamente complesse ed efficaci ma, a volte, non del tutto adeguate alle necessità contemporanee. Per questa ragione possiamo trovare motivazioni contrastanti ed emozioni e desideri che non si integrano tra di loro. Il risultato è uno stato di ansia che ci può far sentire in pericolo anche quando non c’è niente di reale che ci minaccia.
Non diversamente dai nostri progenitori abbiamo motivazioni che ci spingono a cercare riparo, cibo, partner sessuali e che ci spingono ad avere un buon posto nella gerarchia del nostro gruppo di riferimento. Queste motivazioni sono primarie, appartengono alla nostra natura animale, contribuiscono a dare significato alle nostre scelte e possono promuovere stati di profondo benessere e di altrettanto profondo malessere se sentiamo che non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo fissati, come se da questo dipendesse, in senso letterale, la nostra sopravvivenza.
La mente che vaga o wandering mind
Pensa come sarà stato utile, per i nostri progenitori, avere una mente capace di cogliere i segnali di pericolo, sempre attiva a vagare per riconoscere nell’ambiente circostante opportunità di caccia o di riposo ma anche per cogliere tempestivamente i segnali di pericolo. Certo questo avrà messo anche loro in uno stato d’allerta ma, nella giungla un po’ d’allerta non fa mai male. Il punto è che la nostra wandering mind è ancora con noi e attiva il Default Mode Nwork, una parte del nostro cervello che “ci tiene sulle spine”, costantemente alla ricerca di ciò di cui dovremmo preoccuparci. Cose che richiedono azioni e che percepiamo come minacciose ma che non sono davvero presenti. Sono piuttosto frutto della nostra capacità di pensare, di prevedere il pericolo e di pianificare. Entra in funzione indipendentemente dalla nostra volontà quando la nostra attenzione non è ancorata a qualcosa di definito e tonifica costantemente diversi circuiti cerebrali. Può risvegliare il sistema difensivo oppure quello di ricerca delle risorse. Una cosa è certa: porta l’attenzione a quello che manca e non a quello che c’è. Come fare per spegnerla, visto che si accende quando siamo distratti? Basta riportare l’attenzione a qualcosa di specifico e definito. Questo permette alla mente di calmarsi e smettere di stimolare circuiti che possono farci sentire minacciati. La concentrazione può avere un effetto calmante proprio perché disattiva le emozioni ansiose del sistema difensivo e del sistema di ricerca delle risorse.
Quando la nostra attenzione si aggancia ad uno stimolo in nostro Default Mode Network si sposta su quello stimolo e cessano i pensieri rimuginativi e le preoccupazioni. In questo modo il rumore emotivo si abbassa. Se hai tanti pensieri però può essere difficile fermare l’attenzione su qualcosa e allora può essere una buona idea aumentare il “volume del corpo” con una attività fisica che già conosci e che ti impegni un po’ per la sua difficoltà. Alzando il volume del corpo abbassi quello della mente ed eserciti l’attenzione selettiva: stai attento ai movimenti e al loro corretto svolgimento. A quel punto, avrai un maggiore rilassamento e un maggior senso di apertura, ossia sarai disponibile, in modo naturale, per una consapevolezza aperta
La storia della scimmia, la banana e la wanting mind
Sappiamo tutti che le scimmie adorano le banane e che il loro saltare da un ramo all’altro, in eterno movimento, assomiglia al vagare della nostra mente che cerca di trovare qualcosa di buono o, almeno qualcosa di sicuro. Le scimmie sono astute, veloci e golose, così per catturarle viene usata una trappola particolare. La trappola consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato. La noce di cocco contiene una banana, che la scimmia può prendere infilando la mano nel buco. A quel punto la scimmia non può togliere la mano se non rinunciando a prendere la banana. Quella banana ha il costo della sua libertà e del suo desiderio. Se rimane incastrata può venir catturata, se lascia la banana rinuncia a qualcosa che desidera.
Quando la nostra wanting mind è attiva si comporta come quella scimmia. Ci fa andare con determinazione verso qualcosa che desideriamo e sottovaluta quale può essere il prezzo che paghiamo per realizzare quel desiderio perché rimaniamo incastrati nel desiderio e ci fa credere che rinunciare sarebbe un disastro. Possiamo desiderare che la nostra vita sia diversa, oppure che il nostro aspetto fisico o il nostro lavoro siano diversi, non ritenendoli sufficienti per portarci appagamento. Questo senso di povertà interiore e di mancanza è una delle manifestazioni della wanting mind che ci illude di aiutarci a realizzare una vita migliore e ci porta invece sempre più vicini ad un senso di mancanza e povertà.
I desideri alimentano la nostra abitudine alla distrazione, collegando la wandering mind con la wanting mind. La prima ci fa desiderare qualcosa – magari proprio mentre meditiamo – e la seconda inizia a cercare il modo per realizzarli. La nostra wanting mind è continuamente stimolata dalla pubblicità, dai social che alimentano i nostri desideri
La mente che paragona: l’ultimo aiutante della mente di povertà
La nostra mente di povertà è nutrita dalle emozioni del sistema difensivo, come rabbia e paura, e da alcune emozioni del sistema di ricerca delle risorse, come l’invidia e la gelosia. Invidia e gelosia sono emozioni ubiquitarie: possiamo provarle anche nei confronti di qualcuno che amiamo e la vicinanza affettiva è proprio una delle caratteristiche più specifiche di queste due emozioni difficili. Non proviamo gelosia o invidia per qualcuno che sentiamo molto lontano da noi e con una vita molto diversa dalla nostra. Le proviamo nei confronti del nostro vicino di casa che abita un appartamento simile al nostro o nei confronti dei nostri fratelli e sorelle o del nostro partner.
È difficile ammettere di provarle e per questa ragione spesso si accompagnano con vergogna e senso di colpa: non solo ci fanno sentire poveri ma addirittura miseri. L’invidia poi è considerata il sentimento opposto alla gratitudine: più proviamo invidia e meno ci sarà facile accedere a quella grande risorsa promotrice di cambiamento che è la gratitudine.
La gelosia e invidia, sono una miscela complicata di desiderio, risentimento, infelicità e apprensione, sono difficili anche da definire. La gelosia nasce dalla paura ci venga sottratto qualcuno o qualcosa che riteniamo che ci appartenga, mentre l’invidia ci fa desiderare qualcosa che appartiene ad un’altra persona. Sia invidia che gelosia sono emozioni del sistema di ricerca delle risorse e per questa
ragione se la nostra wanting mind è molto attiva, è probabile che prima o poi compaiano anche queste due emozioni nel nostro panorama interiore. Si accompagnano con le affermazioni più tipiche della nostra mente di povertà come, “lei o lui hanno questo e quest’altro e io non ho niente”; sappiamo che non è vero ma nel momento in cui lo pensiamo lo “sentiamo” aderente alla nostra realtà.
Il confronto, e quindi la comparing mind, potrebbe anche essere utile se ci spinge ad agire per conto nostro per migliorarci ma l’invidia è per sua natura ostile. La parola deriva dal latino invidere, considerare con cattiveria, rancore. A differenza della sua cugina, l’avidità, che è un’emozione tipica della wanting mind, l’invidia non si limita a desiderare l’oggetto del suo desiderio, ma macchia l’intero progetto, negando agli altri ciò che hanno e, quando tutto il resto fallisce, svalutando o distruggendo l’oggetto desiderato. È tra i sette peccati capitali ed è l’unica, tra queste, che non porta piacere a chi la prova tanto è considerata uno stato mentale non salutare.
Riconoscere la mente di povertà
A questo punto può sembrare inevitabile fare qualcosa per uscire dalla nostra mente di povertà. Nelle prossime settimane te ne parlerò ancora ma per adesso perché non riconoscere quando entra in funzione la nostra mente di povertà e guardarla con curiosità e interesse? Se ci rendiamo conto di come funziona per noi la wandering mind, la wanting mind e la comparing mind incominciamo ad avere qualche idea in più su come la nostra mente costruisce quel senso di infelicità senza ragione che tanto colpisce la nostra vita.
Tutta la pratica di mindfulness, nei diversi programmi e protocolli, ha questo nobile intento: aiutare a riconoscere, nominare, esplorare quello che succede senza identificarsi. Il vero cambiamento nasce quando, avendo compreso, visto, ascoltato nominato, facciamo anche l’ultimo passo: non ci identifichiamo e ci rendiamo conto che, tutto questo, è solo un gioco della nostra mente che è old fashion anche se è piena di upgrade!
Nicoletta Cinotti 2023