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Uscire dall’imbuto

27/08/2023 by nicoletta cinotti

La nostra mente di povertà funziona come un imbuto. Ci fa andare avanti in una direzione via via sempre più stretta. Siamo convinti che la direzione, la via d’uscita, sia davanti a noi. Man mano che procediamo tutto diventa più oppressivo ma noi andiamo avanti fino alla fine. A quel punto rimaniamo incastrati perché l’uscita è troppo piccola. Questa descrizione ti ricorda qualcosa? A me sì, ricorda la sensazione di oppressione che a volte provo nell’andare avanti a testa bassa. Allora qual è la via d’uscita? Finire tutto il lavoro che ho in programma di fare? Vedere il risultato di qualche nuovo progetto? No, in realtà questo non fa che aggiungere stress allo stress. La via d’uscita è girarsi indietro, fare retromarcia, uscire dalla mente di povertà per entrare, finalmente, nella mente di abbondanza.

La mente di povertà e la mente di abbondanza

La nostra mente di povertà ha tre braccia: la wanting mind, la wandering mind e la comparing mind che hanno un unico grande effetto: ci sintonizzazno su quello che manca e sul desiderio di ottenerlo ma funzionano come la carota messa davanti all’asino per farlo camminare. La carota penzola di fronte a lui ma è legata ad un bastone e, per quanto cammini, rimane sempre alla stessa distanza. E così funziona la nostra mente di povertà. Ci fa credere che se andiamo avanti a testa bassa – e soprattutto con determinazione – raggiungeremo quello che ci manca. Ma non arriviamo mai e rimaniamo incastrati in questo disegno ostile che ci fa vedere solo la mancanza.

Se ci giriamo indietro possiamo iniziare a fare esattamente l’opposto: possiamo incominciare a mettere a fuoco tutto quello che abbiamo. È come se volessiomo cucinare un piatto con gli ingredienti che non abbiamo comprato, avendo la dispensa piena di ingredienti che già abbiamo. È un cambiamento di prospettiva piccolo ma significativo: incominciare a ragionare in base alle risorse che possidiamo, come recita la poesia di oggi, la famosa, Poesia dei doni di Jorge Luis Borges.

Non dare nulla per scontato

La nostra mente di povertà dà per scontato tutto quello che abbiamo che acquista valore solo quando abbiamo paura di perderlo. Ci rendiamo conto di quanto amiamo qualcuno quando temiamo che la relazione finisca. Oppure ci accorgiamo di quanto è preziosa la salute ogni volta che ci ammaliamo. Questo succede perché perdita e mancanza non sono la stessa cosa. La mancanza la avvertiamo sulla base della nostra wanting mind, la mente che desidera e che ci rende ostaggi di quello che non abbiamo realizzato. È una sofferenza che raramente percepiamo con chiarezza, quella che viene dalla sensazione di non essere interi, dalla sensazione, spesso sottile e sconosciuta, che qualcosa manchi. A noi o alla nostra vita.Non la sentiamo perché viene coperta subito da qualcosa. Un acquisto, una sigaretta, un boccone di cibo. Qualsiasi cosa che, in quel momento, ci da l’idea che sarà in grado di farci sentire più felici.Quando affidiamo la nostra felicità e il nostro senso di interezza a qualcosa di esterno iniziamo a percorrere una strada che ci condurrà presto alla delusione. Non c’è nulla che il mondo possa darci per questa sottile sensazione di mancanza o di perdita.

Tradiamo noi stessi se pensiamo che avere quel pezzetto in più ci renderà felici. Vogliamo quello che non abbiamo, spinti dalla nostra wanting mind a cercare all’esterno anziché dentro. E quindi paragoniamo la nostra vita a quella altrui, la nostra storia a quella altrui, confondendo la felicità che vediamo negli altri con il possesso e rendendoci così ostaggio di quello che non abbiamo ancora realizzato.

Perché non rendere onore invece a quello che abbiamo già realizzato? Quando lo facciamo pratichiamo una goccia di gratitudine che distende il cuore e la mente.

 

Prova a riflettere su questi tre aspetti:

  • ho bisogno di qualcosa in più per essere grato o felice, un’atteggiamento che alimenta il senso di scarsità
  • non devo niente a nessuno, un atteggiamento che alimenta un fallace senso di invulnerabilità
  • mi merito di più (o non mi meritavo questo) come se per qualche misterioso fattore ci meritassimo solo cose belle e invece i guai fossero riservati solo agli altri

Adesso prova a fare il movimento opposto, a voltarti indietro, a camminare verso l’imboccatura larga dell’imbuto invece che dalla chiusura stretta:

  • di cosa potresti essere grato o grata adesso?
  • chi ti ha aiutato nei momenti difficili? Quali sono stati gli incontri, diretti o indiretti, che ti hanno aiutato ad essere come sei adesso? Includi i libri, i viaggi, le persone incontrate per caso e le amicizie durevoli
  • guarda quali sono stati i regali inaspettati i che la vita ti ha fatto. Quello che hai ricevuto senza aver fatto qualcosa di specifico per meritarlo. Se sposti lo sguardo a ciò che già hai puoi dire, onestamente, che nulla è stato un regalo e che tutto è stato meritato?

Coltivare la mente di abbondanza

Come mai la mente di abbondanza va coltivata e la mente di povertà sembra, invece, spontanea o naturale? La ragione è che la sopravvivenza è il nostro primo istinto, la gratitudine, la  sensazione di abbondanza invece richiedono un’attenzione intenzionale perchè siano percepite. Ecco perché la pratica di mindfulness è importante: perché ci aiuta a coltivare l’intenzionalità che non è la volontà di raggiungere quello che ci manca: è l’intenzionalità di coltivare stati mentali salutari perchè il vero danno della mente di povertà è che porta emozioni afflittive.

Cos’è che guida la nostra generosità, un’emozione tipica della nostra mente di abbondanza? Cos’è che ci permette di condividere con gli altri ciò che abbiamo?

Spesso mi faccio questa domanda e cerco di mettere in relazione i miei bisogni e il desiderio di condividere quello che posso condividere.

La chiave mi sembra che stia proprio nella percezione del bisogno. Nell’attimo in cui condividiamo con un’altra persona qualcosa che ci appartiene, in senso materiale o immateriale, in quel preciso momento il rumore del nostro bisogno è attenuato mentre è aumentato il volume della fiducia e del senso di comune umanità condivisa. Essere generosi è l’espressione della nostra mente dell’abbondanza, la percezione che possiamo dare perché ci sentiamo in una situazione di prosperità: è questo che ci rende generosi. Se, invece, la nostra mente di povertà è attiva – la mente che ci fa vedere solo quello che manca – il nostro bisogno, vero o presunto che sia, ci sembrerà sempre più grande del piacere di condividere.

La cosa interessante è che la generosità ha un doppio ritorno: condividendo nutriamo la percezione di abbondanza e abbassiamo la paura di perdere, di non avere, di non  essere abbastanza. Sembra una magia ma non è così: finiamo per assomigliare a quello che facciamo.

Il vero trucco, se di trucco possiamo parlare, è non scambiare la generosità per lusinga: non possiamo comprare nessuno con la nostra generosità. Né usare la generosità per lustrare la nostra immagine. Sarebbe una visione condizionata e condizionante di noi stessi che ci renderebbe ancora più vittime della mente di povertà. Essere generosi è il movimento che guida la nostra vita e la porta fuori dalla stagnazione. Ci sono infiniti atti di generosità nel nostro corpo: la generosità dell’incessante lavoro del cuore, dei polmoni, della pelle. Basta seguire il loro esempio per restituire alla nostra vita quel fluire di cui abbiamo bisogno per crescere. In fondo cos’è più generoso di una finestra?

© Nicoletta Cinotti 2023

 

Archiviato in:approfondimenti, corsi online, esplora, Mindful Self Compassion, mindfulness Contrassegnato con: assaporare la vita, mindful reparenting, mindful bioenergetics, curarsi con la mindfulness, gratitudine, mindfulness, self compassion, speranza, stereotipi, stress, stress relazionale, tenerezza, terapia cognitiva basata sulla mindfulness, tornare a casa, WeneBioenergetica e Mindfulness Centro Studi

Lasciar andare la mente di povertà

17/08/2023 by nicoletta cinotti

Anche se le evidenze sono molte tendiamo a dimenticare che siamo animali, presumibilmente una forma evoluta di scimpanzè, con i quali condividiamo il 98-99% dei geni. Questo non significa che uno scimpanzè è al 98% un umano perché gli stessi geni funzionano diversamente a seconda di come sono organizzati ma che la nostra evoluzione è frutto di diversi compromessi, biologici, funzionali, culturali e mentali.

Forse ti domanderai in che modo questo è collegato alla nostra mente di povertà. Se osserviamo il modo di funzionare del nostro cervello dobbiamo riconoscere che si è evoluto in forme straordinariamente complesse ed efficaci ma, a volte, non del tutto adeguate alle necessità contemporanee. Per questa ragione possiamo trovare motivazioni contrastanti ed emozioni e desideri che non si integrano tra di loro. Il risultato è uno stato di ansia che ci può far sentire in pericolo anche quando non c’è niente di reale che ci minaccia.

Non diversamente dai nostri progenitori abbiamo motivazioni che ci spingono a cercare riparo, cibo, partner sessuali e che ci spingono ad avere un buon posto nella gerarchia del nostro gruppo di riferimento. Queste motivazioni sono primarie, appartengono alla nostra natura animale, contribuiscono a dare significato alle nostre scelte e possono promuovere stati di profondo benessere e di altrettanto profondo malessere se sentiamo che non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo fissati, come se da questo dipendesse, in senso letterale, la nostra sopravvivenza.

La mente che vaga o wandering mind

Pensa come sarà stato utile, per i nostri progenitori, avere una mente capace di cogliere i segnali di pericolo, sempre attiva a vagare per riconoscere nell’ambiente circostante opportunità di caccia o di riposo ma anche per cogliere tempestivamente i segnali di pericolo. Certo questo avrà messo anche loro in uno stato d’allerta ma, nella giungla un po’ d’allerta non fa mai male. Il punto è che la nostra wandering mind è ancora con noi e attiva il Default Mode Nwork, una parte del nostro cervello che “ci tiene sulle spine”, costantemente alla ricerca di ciò di cui dovremmo preoccuparci. Cose che richiedono azioni e che percepiamo come minacciose ma che non sono davvero presenti. Sono piuttosto frutto della nostra capacità di pensare, di prevedere il pericolo e di pianificare. Entra in funzione indipendentemente dalla nostra volontà quando la nostra attenzione non è ancorata a qualcosa di definito e tonifica costantemente diversi circuiti cerebrali. Può risvegliare il sistema difensivo oppure quello di ricerca delle risorse. Una cosa è certa: porta l’attenzione a quello che manca e non a quello che c’è. Come fare per spegnerla, visto che si accende quando siamo distratti? Basta riportare l’attenzione a qualcosa di specifico e definito. Questo permette alla mente di calmarsi e smettere di stimolare circuiti che possono farci sentire minacciati. La concentrazione può avere un effetto calmante proprio perché disattiva le emozioni ansiose del sistema difensivo e del sistema di ricerca delle risorse.

Quando la nostra attenzione si aggancia ad uno stimolo in nostro Default Mode Network si sposta su quello stimolo e cessano i pensieri rimuginativi e le preoccupazioni. In questo modo il rumore emotivo si abbassa. Se hai tanti pensieri però può essere difficile fermare l’attenzione su qualcosa e allora può essere una buona idea aumentare il “volume del corpo” con una attività fisica che già conosci e che ti impegni un po’ per la sua difficoltà. Alzando il volume del corpo abbassi quello della mente ed eserciti l’attenzione selettiva: stai attento ai movimenti e al loro corretto svolgimento. A quel punto, avrai un maggiore rilassamento e un maggior senso di apertura, ossia sarai disponibile, in modo naturale, per una consapevolezza aperta

La storia della scimmia, la banana e la wanting mind

Sappiamo tutti che le scimmie adorano le banane e che il loro saltare da un ramo all’altro, in eterno movimento, assomiglia al vagare della nostra mente che cerca di trovare qualcosa di buono o, almeno qualcosa di sicuro. Le scimmie sono astute, veloci e golose, così per catturarle viene usata una trappola particolare. La trappola consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato. La noce di cocco contiene una banana, che la scimmia può prendere infilando la mano nel buco. A quel punto la scimmia non può togliere la mano se non rinunciando a prendere la banana. Quella banana ha il costo della sua libertà e del suo desiderio. Se rimane incastrata può venir catturata, se lascia la banana rinuncia a qualcosa che desidera.
Quando la nostra wanting mind è attiva si comporta come quella scimmia. Ci fa andare con determinazione verso qualcosa che desideriamo e sottovaluta quale può essere il prezzo che paghiamo per realizzare quel desiderio perché rimaniamo incastrati nel desiderio e ci fa credere che rinunciare sarebbe un disastro. Possiamo desiderare che la nostra vita sia diversa, oppure che il nostro aspetto fisico o il nostro lavoro siano diversi, non ritenendoli sufficienti per portarci appagamento. Questo senso di povertà interiore e di mancanza è una delle manifestazioni della wanting mind che ci illude di aiutarci a realizzare una vita migliore e ci porta invece sempre più vicini ad un senso di mancanza e povertà.
I desideri alimentano la nostra abitudine alla distrazione, collegando la wandering mind con la wanting mind. La prima ci fa desiderare qualcosa – magari proprio mentre meditiamo – e la seconda inizia a cercare il modo per realizzarli. La nostra wanting mind è continuamente stimolata dalla pubblicità, dai social che alimentano i nostri desideri

La mente che paragona: l’ultimo aiutante della mente di povertà

La nostra mente di povertà è nutrita dalle emozioni del sistema difensivo, come rabbia e paura, e da alcune emozioni del sistema di ricerca delle risorse, come l’invidia e la gelosia. Invidia e gelosia sono emozioni ubiquitarie: possiamo provarle anche nei confronti di qualcuno che amiamo e la vicinanza affettiva è proprio una delle caratteristiche più specifiche di queste due emozioni difficili. Non proviamo gelosia o invidia per qualcuno che sentiamo molto lontano da noi e con una vita molto diversa dalla nostra. Le proviamo nei confronti del nostro vicino di casa che abita un appartamento simile al nostro o nei confronti dei nostri fratelli e sorelle o del nostro partner.
È difficile ammettere di provarle e per questa ragione spesso si accompagnano con vergogna e senso di colpa: non solo ci fanno sentire poveri ma addirittura miseri. L’invidia poi è considerata il sentimento opposto alla gratitudine: più proviamo invidia e meno ci sarà facile accedere a quella grande risorsa promotrice di cambiamento che è la gratitudine.
La gelosia e invidia, sono una miscela complicata di desiderio, risentimento, infelicità e apprensione, sono difficili anche da definire. La gelosia nasce dalla paura ci venga sottratto qualcuno o qualcosa che riteniamo che ci appartenga, mentre l’invidia ci fa desiderare qualcosa che appartiene ad un’altra persona. Sia invidia che gelosia sono emozioni del sistema di ricerca delle risorse e per questa
ragione se la nostra wanting mind è molto attiva, è probabile che prima o poi compaiano anche queste due emozioni nel nostro panorama interiore. Si accompagnano con le affermazioni più tipiche della nostra mente di povertà come, “lei o lui hanno questo e quest’altro e io non ho niente”; sappiamo che non è vero ma nel momento in cui lo pensiamo lo “sentiamo” aderente alla nostra realtà.
Il confronto, e quindi la comparing mind, potrebbe anche essere utile se ci spinge ad agire per conto nostro per migliorarci ma l’invidia è per sua natura ostile. La parola deriva dal latino invidere, considerare con cattiveria, rancore. A differenza della sua cugina, l’avidità, che è un’emozione tipica della wanting mind, l’invidia non si limita a desiderare l’oggetto del suo desiderio, ma macchia l’intero progetto, negando agli altri ciò che hanno e, quando tutto il resto fallisce, svalutando o distruggendo l’oggetto desiderato. È tra i sette peccati capitali ed è l’unica, tra queste, che non porta piacere a chi la prova tanto è considerata uno stato mentale non salutare.

Riconoscere la mente di povertà

A questo punto può sembrare inevitabile fare qualcosa per uscire dalla nostra mente di povertà. Nelle prossime settimane te ne parlerò ancora ma per adesso perché non riconoscere quando entra in funzione la nostra mente di povertà e guardarla con curiosità e interesse? Se ci rendiamo conto di come funziona per noi la wandering mind, la wanting mind e la comparing mind incominciamo ad avere qualche idea in più su come la nostra mente costruisce quel senso di infelicità senza ragione che tanto colpisce la nostra vita.

Tutta la pratica di mindfulness, nei diversi programmi e protocolli, ha questo nobile intento: aiutare a riconoscere, nominare, esplorare quello che succede senza identificarsi. Il vero cambiamento nasce quando, avendo compreso, visto, ascoltato nominato, facciamo anche l’ultimo passo: non ci identifichiamo e ci rendiamo conto che, tutto questo, è solo un gioco della nostra mente che è old fashion anche se è piena di upgrade!

Nicoletta Cinotti 2023

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Dare limiti, stare nei limiti

08/01/2023 by nicoletta cinotti

Per me la scrittura è collegata alla verità. Forse è per questo che non riesco a scrivere romanzi (magari potrei fare un’autobiografia alla Didion❤️ o come la Ernaux chissà…). Comunque volevo avvisarti: il contenuto di questo articolo potrebbe essere doloroso. Parlerò di come dare limiti e stare nei limiti rispetto al proprio bisogno e ai bisogni degli altri. Mi sembra un tema abbastanza difficile no?

È un tema da Crocerossa. Se non hai un po’ di visione eroica di te non entri in questo argomento facilmente. Stai alla larga dai bisogni eccessivi come dai virus influenzali e rimani immune anche senza vaccini. Io invece ho una pericolosa propensione per il soccorso.

Recuperare le assenze

Quando qualcuno partecipa ad un mio protocollo può recuperare le assenze in una successiva edizione. Sembra facile ma non lo è perché questa offerta, apparentemente generosa, spesso suscita avidità. E le persone anziché dirmi, sì grazie, mi chiedono qualcosa in più, qualcosa di cui avrebbero bisogno. Questo è il primo punto nel dare i limiti. Se sei egoista non ti viene chiesto molto ed è facile dire di no. È la generosità che, paradossalmente, solleva la necessità di mettere dei limiti, proprio perchè ti sei messa o messo a disposizione dell’altro.

[box] Primo punto: la generosità deve avere dei limiti. Verifica di essere a tuo agio con questo aspetto se non vuoi trovarti nei guai, cioè nel dare più di quello che vorresti[/box]

Quando dai un limite

Quando dai un limite – che sia un limite giusto o ingiusto – diventi sempre un po’ cattiva. Il che non sarebbe un problema se non fosse che questo suscita anche una certa quota di senso di colpa. Il senso di colpa sì che è un problema e interferisce con la capacità di mettere un limite, perchè non tolleriamo che l’altro ci consideri cattivi o cattive (peggio ancora, le donne sono condannate alla bontà!). Il senso di colpa porta parecchie distorsione percettive:

  • ci fa credere che non saremo più amate e amabili
  • ci fa credere che il bisogno dell’altro sia più grande del nostro
  • ci fa andare oltre al nostro limite personale
  • ci fa vergognare di dire la verità che sarebbe: non posso fare di più

[box] Punto due: prendi confidenza con il tuo senso di colpa. Ti sarà utile nella vita[/box]

[box] SCEGLIERE COME COMUNICARE LE EMOZIONI

Q A volte le nostre emozioni sono comunicate in modo non verbale. Negarlo non ha alcuna utilità.
Q Possiamo scegliere di esprimerci valutando quali sono gli aspetti emotivi in gioco, senza sottovalutare che possono esserci più emozioni contemporaneamente e con diverso effetto relazionale.
Q Possiamo proteggerci scegliendo cosa comunicare a seconda del grado di intimità relazionale e dello stress emotivo che può sopportare la relazione.
Q È difficile essere sempre riflessivi. Se abbiamo esagerato verbalmente non è necessario ipercompensare spinti dal senso di colpa. Però è necessario capire come è possibile riparare il danno relazionale. Chiedere scusa significa provare interesse e compassione per il dolore che abbiamo causato e provare self-compassion per il dolore che ci ha spinto a reagire.[/box]

Mai dare troppe spiegazioni

Il senso di colpa ci spinge a dare spiegazioni, in genere troppe spiegazioni. Meglio mettere il limite e stare in quel bordo difficile senza aggiungere troppe spiegazioni che al 100% apriranno qualche sprazzo di polemica. Abbiamo diritto a mettere un limite senza diventare aggressivi ma anche senza diventare vittime del nostre stesso limite. L’importante, quando metti un limite, è che sia chiaro che quel limite riguarda te e che non stai mettendo un’indicazione di comportamento all’altro. Non posso fare di più è molto più efficace che chiedere all’altro di non fare altre richieste. Un linguaggio gentile è molto più assertivo di un linguaggio esplosivo. Inoltre ci sono dei segnali – prevalentemente fisici – che stiamo arrivando a toccare il limite della nostra disponibilità: stanchezza, senso di esaurimento, tensione fisica, rabbia, ansia, pensieri rimuginativi, risentimento. Tutti segnali che è meglio mettere un limite prima di arrivare al burn out.

[box] Punto tre: tutti noi abbiamo dei limiti. Achille aveva il tallone, noi magari tutta la gamba ma non fa tanta differenza quando arrivi al limite.[/box]

Ma io li conosco i miei limiti?

Questa per me è la parte più difficile e dolorosa.Io so stare dentro a dei limiti che ho dato prima: i limiti del setting psicoterapico, i limiti dei protocolli o dei ritiri. “Mettendo le mani avanti” dopo mi è più facile ricordare che avevo dato un limite e che chiedo che venga rispettato. Ma nella vita non puoi sempre mettere le mani avanti perché a volte non sai proprio dove mettere le mani rispetto alla situazione che ti trovi davanti. In quel caso è indispensabile fare continuamente a sé stessi questa domanda, dolorosa, “quali sono i miei limiti in questa situazione?”. Mi aiuta la pratica (parlo della meditazione Dare e ricevere compassione. Trovi una versione qui) ma non risolve il “dolore del limite”. Un dolore che è legato alla separazione: è come se fosse un taglio del cordone ombelicale. Più sei legato o legata emotivamente a quella persona è più il taglio è tenuto e desiderato. È libertà ma anche separazione. È libertà ma anche solitudine.

[box] Punto quattro: mettere un limite è come tagliare il cordone ombelicale: non possiamo evitare di nascere[/box]

In fondo è come quando ti tagli i capelli: accettabile perché sai che ricresceranno ma la paura che sta dietro i limiti è la paura che non ricrescerà quello stesso legame e che, poi, ti mancherà. È la paura più antica, la paura della perdita, che non ha altra soluzione che l’attraversamento. Non ci sono strisce pedonali. Devi attraversarla. Io la sto attraversando proprio adesso e spero che non sbuchi una macchina all’improvviso!

© Nicoletta Cinotti 2023

 

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È possibile coltivare saggezza?

26/06/2022 by nicoletta cinotti

È possibile sviluppare saggezza?

Nelle due settimane precedenti abbiamo delineato la tipologia caratteriale delle persone che sono propense a cercare la bellezza in quello che vedono e, all’opposto quelle che sono propense a vedere i problemi. In ogni caso tutti noi abbiamo bisogno di imparare a vedere con chiarezza e invece spesso rimaniamo abbagliati dalle nostre illusioni. Sono queste illusioni che ostacolano la naturale crescita della nostra saggezza che, almeno in teoria, dovrebbe essere uno dei vantaggi dell’età

Come si formano le illusioni?

Le illusioni hanno principalmente tre origini: nascono dalla distrazione, dalla negazione e dalla percezione errata. La distrazione contribuisce alle nostre illusioni perché non ci permette di cogliere il panorama complessivo. Ci permette di sintonizzarci solo con il compito immediato scambiandolo per tutta la realtà. La distrazione è quella che ci fa guardare il dito che indica la luna invece della luna.

Questo inganno sta alla base di tutti gli stati mentali non salutari. L’attaccamento nasce da una sensazione di mancanza che ci rende incapaci di vedere l’abbondanza della nostra vita. L’avversione nasce dalla ricerca di sicurezza, una ricerca che ci fa credere che l’ostilità possa salvarci. L’inganno genera una mancanza di radicamento nella realtà del presente per collocarci nell’irrealtà dei nostri pensieri.

 

L’inganno della distrazione

L’inganno della distrazione succede quando siamo persi nei nostri pensieri. È l’esperienza di guidare fino a destinazione, parcheggiare l’auto e rendersi conto di non aver alcun ricordo del percorso fatto o nessuna consapevolezza della giornata appena trascorsa. È il fatidico pilota automatico che ci fa vivere nella trance dell’inadeguatezza.

A breve termine, il pilota automatico permette di estendere la memoria operativa e di imparare delle abitudini, grazie alla ripetizione. La mente collega le azioni necessarie e ci permette di concludere con velocità e grazia il nostro compito abituale. Facilmente, però, le abitudini prendono il sopravvento, perché sono collegate tra loro come anelli di una catena. Così succede che usciamo di casa con l’intenzione di cambiare strada per fare una commissione prima di arrivare in ufficio ma ci ritroviamo a percorrere lo stesso itinerario senza aver fatto la commissione perché, distrattamente, abbiamo seguito la nostra abitudine.

Se non stiamo attenti, gli automatismi prendono il sopravvento e possono assumere il controllo della nostra vita in tanti modi diversi, apparentemente insignificanti. Con il passare del tempo queste catene di abitudini innescate dal nostro pilota automatico possono togliere sapore e consapevolezza. Allenarsi alla consapevolezza riduce la possibilità di cadere in questo inganno.

Inoltre, il pilota automatico ci fa perdere tutte quelle esperienze che non sono né piacevoli né spiacevoli, alimentando attaccamento e avversione. Perdiamo la consapevolezza delle esperienze neutre, quelle in cui guardiamo con calma ed equanimità agli eventi. Ogni giorno potremmo chiederci quanto è vitale la nostra attenzione: un’attenzione priva di energia è un’attenzione che viene risucchiata dagli automatismi.

L’inganno della negazione

Per molti anni ho sognato di essere cieca. Erano sogni confusi, in cui mi muovevo a tentoni in un mondo che non vedevo. Ho impiegato molto tempo prima di capire che quei sogni erano avvertimenti: stavo negando qualcosa della realtà perché non mi piaceva. Era un modo di addormentare il dolore che prima o poi rivelava tutti i suoi limiti. Oggi, quando sogno di essere cieca so che devo fermarmi fino al momento in cui vedo quello che sto negando. Non è una situazione insolita. Vedo molte persone prese dal negare quello che è sotto gli occhi di tutti. Ed è difficile e doloroso togliere qualcuno dalla trance della negazione.

Ci vuole il soccorso del coraggio per affrontare le nostre paure, per cominciare una psicoterapia, per scegliere qualcosa di diverso, rompendo le nostre abitudini. Il coraggio non è lasciare la paura ma prenderla in braccio, sentirne il peso e procedere insieme. Il coraggio nasce dalla compassione che guarda il dolore senza negazione e senza rinuncia.

Queste parti negate, che pure esistono nel nostro panorama interiore, possono diventare aspetti esiliati della nostra personalità che ci spingono ad agire, quasi a nostra insaputa, per realizzare proprio quello che temiamo di più.

Forse ti chiederai come questo sia possibile. Il punto è che la nostra mente non conosce negazione e quindi tutto ciò che esiste è affermativo. Credere che “non” vorremmo mai fare una cosa viene tradotto come una propensione a fare quella stessa cosa. Abbiamo bisogno di riconoscere quello che è presente e di lasciarlo fluire. Lasciar andare è anche un modo per stare nelle verità che ci spaventano quel tanto che ci è necessario per conoscerle senza negarle.

L’inganno della percezione erronea

La nostra percezione erronea della realtà ci porta a negare l’impermanenza e ci invita ad avere delle false convinzioni rispetto alla felicità.

La prima convinzione sbagliata è che per sopravvivere sia importante fare attenzione a tutte le minacce. Sicuramente questa convinzione ha permesso l’evoluzione della specie ma ci mette in una continua condizione di lotta: trascorriamo molto tempo a preoccuparci di cose che non accadranno mai. La seconda convinzione riguarda l’appartenenza a un gruppo. La nostra socialità è cambiata e oggi i gruppi di appartenenza non sono più solo gruppi reali ma anche virtuali. Dobbiamo confrontarci con un ideale di noi già altissimo e con ideali presentati media- ticamente altrettanto alti. Ci confrontiamo con amici reali e virtuali e ne usciamo perdenti con grande facilità. L’evoluzione ha modellato il nostro cervello in un modo che, psicologicamente, ci fa soffrire: confrontarci, valutarci, criticarci sarà uno stimolo al miglioramento ma è anche una tortura quotidiana.

La parola felicità ha due significati diversi. Quello comune è “sentirsi bene” e sappiamo tutti come questa sensazione sia volubile: più cerchiamo di stare bene a lungo e più incontriamo ostacoli e difficoltà. L’altro significato della parola felicità è “vivere una vita ricca di significato”, in accordo con i nostri valori. Questa non è una sensazione fugace, è piuttosto una sensazione duratura che possiamo coltivare e costruire. Quindi, quando parliamo di felicità, qual è la felicità a cui stiamo pensando? Rispondere a questa domanda è importante perché, se pensiamo alla prima accezione della parola, è meglio essere preparati al fatto che si tratta di una felicità leggera come una piuma. L’altra felicità, invece, è leggera come un uccello che sa scegliere la direzione nella quale andare.

L’altra percezione erronea è quella che ci fa credere al carattere duraturo delle esperienze, sia di quelle piacevoli che di quelle spiacevoli. Le prime facciamo di tutto per trattenerele, le seconde di tutto per scacciarle. In realtà però, anche senza la nostra interferenza, le situazioni piacevoli e spiacevoli sono soggette a cambiamento. Non possiamo far durare nulla nemmeno un momento di più della sua fine naturale. La saggezza nasce qui: quando accettiamo la relatà del cambiamento. In una semplice frase “Non è sempre così”.

“«Avete mai visto un uomo o una donna di ottanta, novant’anni–vecchi, fragili, con passi esitanti, denti rotti, pieni di rughe e di macchie sulla pelle? E non vi è mai venuto in mente che succederà anche a voi? Avete mai visto un uomo o una donna gravemente ammalati, sofferenti e afflitti, sollevati da questi e messi a letto da altri, e non vi è mai venuto in mente che anche voi siete soggetti a malattia? Avete mai visto il cadavere di un uomo o di una donna uno o due giorni dopo la morte, gonfio, bluastro o nerastro, pieno di organi in decomposizione, e non vi è mai venuto in mente che anche voi siete soggetti a morte, che non potete sfuggirle?»”Ajahn Chan

Le illusioni che coltiviamo sulla permanenza e sulla felicità ci impediscono di crescere in saggezza e ci fanno perdere la prospettiva. Aprono un tabù: il tabù della conoscenza di chi siamo davvero.

A Sukotai, in Thailandia, c’era un enorme Buddha di terracotta che aveva attraversato più di cinque secoli di storia. Non era una statua particolarmente bella ma la sua longevità la faceva venerare e ammirare. Ad un certo punto i monaci si accorsero che presentava delle crepe e che avrebbe avuto bisogno di un restauro. Fu così che scoprirono che il Buddha di terracotta era solo uno schermo per proteggere il Buddha vero, interamente d’oro, contenuto al suo interno.

Forse noi siamo come quel Buddha. Quello che chiamiamo Io è la nostra maschera di terracotta che serve per proteggere la parte più preziosa, interna. Solo le crepe che apre la vita permetteranno alla brillante nobiltà del nostro oro di mostrarsi alla luce del giorno. Liberarsi dalle illusioni, far crescere la nostra saggezza è come togliersi la maschera per riconoscere la qualità sublime del nostro oro interiore.

© Nicoletta Cinotti 2022

Svela il tuo oro interiore. Partecipa alla pratica del lunedì alle 8 a.m!

(Clicca sulle parole sottolineate)

 

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Cosa aspettarsi dalla mindfulness?

19/12/2021 by nicoletta cinotti

[box] Prima di addormentarci dovremmo ripetere, “Ho vissuto molte vite. Sono stato un principe e uno schiavo. Molti amori ho tenuto sulle ginocchia e mi hanno tenuto sulle ginocchia molti amori. Tutto ciò che è stato di nuovo sarà”. W.B. Yeats[/box]

La sospensione del giudizio

Credo che abbiamo tutti la passione di sapere come andrà a finire. Una passione che ci spinge ad andare avanti fino alla fine del libro, fino alla fine del film. A volte questa sospensione – il fatto di non sapere come andrà a finire – è così attivante che preferiamo mettere noi la parola fine per non rimanere nel sentimento del non sapere. Lo facciamo in tanti modi ma il più comune è quello di mettere un’etichetta, quello di dirci che tanto abbiamo già capito qual è la conclusione e che non vale la pena continuare ed insistere. Costruiamo così una saggezza basata sulla ripetizione, una conoscenza statica che non permette che accada qualcosa di nuovo. Blocchiamo la possibilità dell’esplorazione e la possibilità della conoscenza che viene dall’esplorazione.

La mente del principiante

Abbiamo il pregiudizio che non sapere sia una condizione di svantaggio e quindi cerchiamo di evitare di metterci nella situazione di essere impreparati. Una condizione che può suscitare vergogna o imbarazzo. Ma la mente del principiante che coltiviamo nella pratica di mindfulness è una mente abile. Una mente che, attraverso la sospensione, valuta ed esplora tutte le possibilità a nostra disposizione. Temiamo la mente del principiante perché veniamo da una cultura dove non sapere equivale ad avere poco valore. La sospensione del giudizio è  importante e ci fa due regali: il primo regalo è non arrivare a frettolose conclusioni. Il secondo regalo è non giudicare come negativo il fatto di non sapere. Anzi, nello zen non sapere è la più grande intimità perché, non sapendo, siamo invitati a rimanere presenti e intimi con l’esperienza in corso

Due storie zen, apparentemente opposte

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più!».

«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».

Eno decise di farsi monaco e, dopo aver affidato la madre ad alcuni amici, si recò sul monte Hobai, dove sorgeva il monastero del quinto patriarca, Konin. Le sue origini modeste gli impedirono di diventare monaco e fu assegnato alle cucine, con l’incarico di pestare il riso. Un giorno il maestro invitò i discepoli a esprimere per mezzo di una breve poesia quel che avevano compreso dello Zen. Jinshu, il più sapiente e intelligente dei discepoli, compose questi versi:

Il corpo è l’albero dell’illuminazione.
Lo spirito è come uno specchio brillante.
Incessantemente noi li puliamo
perché non si ricoprano di polvere.

Si accinse a recarsi nella camera del maestro per consegnarglieli, ma, colto da un dubbio, preferì appenderli all’esterno del dojo. Il maestro, passando, li vide e, dopo averli letti, disse a Jinshu che erano belli, e che certamente avrebbero favorito in molti il risveglio.
Eno, l’analfabeta, chiese a un suo compagno di leggergli quella poesia, e decise allora di comporre a sua volta dei versi; lui li dettò, e il compagno li trascrisse:

Non c’è albero dell’illuminazione
né specchio brillante
Poiché intrinsecamente tutto è vuoto.
dove può dunque depositarsi la polvere?

Quindi se non c’è niente e se l’invito è a sospendere il giudizio cosa aspettarsi dalla mindfulness? Non è un po’ scoraggiante aspettarsi di risolvere i problemi e di trovare soluzioni se siamo invitati all’intimità del non sapere?

Eppure quell’intimità con il non sapere è proprio la chiave. Arriviamo alla mindfulness convinti di sapere qual è il nostro problema e di avere bisogno di una soluzione. Oppure siamo convinti che dovremmo imparare a rilassarci o a regolare le nostre emozioni per poterle controllare meglio. E, in effetti, c’è anche chi propone la pratica della mindfulness attraverso i protocolli, proprio in questo modo: un metodo di rilassamento, una soluzione alternativa anche se non si sa a cosa sia davvero alternativa.

La vera alternativa

La vera alternativa è che la pratica di mindfulness, così come viene proposta nei protocolli è, prima di tutto una domanda e solo dopo è una risposta.

La prima domanda è una domanda su come stanno davvero le cose. Per risolvere un problema prima dobbiamo sapere se quello è davvero il nostro problema o se ne è, invece, solo un sintomo. Possiamo abbassare la febbre ma averlo fatto non significa aver curato la malattia. Ecco la mindfulness cerca di capire in senso metaforico “qual è davvero la malattia in questione e come e cosa facciamo perché questa malattia guarisca” Questa domanda – che potrebbe essere sinteticamente riassunta in “Cos’è questo?” – è la domanda a cui cerca di rispondere il protocollo MBSR. È la base: se non conosciamo la base non potremo mai arrivare all’altezza!

Una volta che sappiamo cos’è che non funziona abbiamo bisogno di avvicinarci al fuoco, al cuore della nostra difficoltà. Di solito se abbiamo una difficoltà costruiamo un muro difensivo per tenerla a bada e ben distante. Possiamo rimuginaci sopra ma evitiamo di andarci vicino, timorosi del fuoco che nessuno ci ha insegnato a custodire. Facciamo quello che narra una storia sufi

La storia del fuoco

C’era una volta un uomo che contemplava l’operato della natura. A forza di concentrazione e di attenzione, finì per scoprire il modo di accendere il fuoco.

Quest’uomo si chiamava Nur. Decise di viaggiare di comunità in comunità per condividere la sua scoperta con la gente.

Nur trasmise il segreto a molti gruppi. Alcuni trassero beneficio da questa conoscenza. Altri, pensando che fosse pericoloso, lo cacciarono ancor prima di aver avuto il tempo di capire il vantaggio che potevano trarre da quella scoperta.

Passarono i secoli. La prima tribù che aveva imparato ad accendere il fuoco aveva affidato il segreto ai suoi sacerdoti, i quali vivevano nell’opulenza e detenevano tutti i poteri, mentre il popolo rimaneva al freddo.

La seconda tribù finì per dimenticare l’arte di accendere il fuoco, e ne idolatrò gli strumenti. La terza adorava un’immagine dello stesso Nur: non era stato lui a portare l’insegnamento?

La quarta tribù conservò, nelle sue leggende, la storia della creazione del fuoco; alcuni vi prestavano fede, altri no.

Solo i membri della quinta comunità si servivano veramente del fuoco, che permetteva loro di scaldarsi, di cuocere il loro cibo e di fabbricare ogni tipo di oggetto utile per vivere.

 

Servirsi del fuoco

Ecco se con il protocollo MBSR abbiamo capito come accendere un fuoco – il fuoco della consapevolezza – il protocollo MBCT ci permette di servrici del fuoco per scaldarsi, per cucinare, per illuminare la nostra vita.

Questo non significa che il fuoco smetta di bruciare o di essere pericoloso ma fare come la tribuù che ne affidò la cura ai sacerdoti o come la tribù che ne dimenticò l’uso sarebbe assurdo.

Però a volte il nostro fuoco brucia perchè non sappiamo come condividerlo con gli altri e ci muoviamo in modo inadeguato proprio quando dovremmo scaldarci con altri e con altri imparare a cucinare. Ecco perché c’è l’invito per portare la mindfulness nelle relazioni e per portarla attraverso quelli che sono i legni che possono ardere o scaldare: le parole.

L’educazione all’accoglienza

A volte quello che è mancato è proprio la base. Quell’educazione all’accoglienza del reale, delle cose come sono e non come dovrebbero essere.

Quell’accoglienza permette di non sentirci soli, non perché siamo in compagnia ma perché non ci siamo persi. Quell’accoglienza permette di rispondere alla domanda “Di che cosa ho bisogno?“, senza paura che avere bisogni significhi valere meno. Abbiamo dimenticato che educazione non è percorrere la strada della forza ma la strada dell’accoglienza verso la vulnerabilità. Adesso, che stiamo diventando tutti più vulnerabili, perché più esposti alla pandemia, all’incertezza, all’instabilità relazionale, adesso sappiamo che saper mostrare compassione verso sé stessi e verso gli altri, restituisce l’energia della cura. restituisce una sincera possibilità di reparenting nei confronti delle nostre parti esiliate. O, forse, dell’esilio che abbiamo costruito nei nostri confronti. Di quella nevrosi di base che nasce dalla necessità di essere approvati. Una nevrosi che si cura attraverso la conoscenza di sé.

© Nicoletta Cinotti 2021 I protocolli mindfulness: iscrizione a prezzo ridotto fino al 31/12/2021

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Movimenti Mindful: svegliare il corpo

28/02/2021 by nicoletta cinotti

Essere consapevoli del corpo può sembrare la cosa più semplice del mondo. Poi iniziamo a praticare mindfulness e scopriamo che le cose non stanno proprio così. Se stiamo fermi non lo sentiamo, se camminiamo siamo distratti da molte sensazioni, se siamo in piedi o a terra e facciamo movimento mindful possiamo accorgerci di colori, contrazioni e zone collassate che non sapevamo nemmeno lontanamente di avere.

C’è un modo per aiutarci ad entrare in contatto con il corpo? C’è qualcosa che può permetterci di considerarlo qualcosa in più dello strumento necessario per vivere? O di una attraente espressione della nostra personalità? La risposta è facile: ovviamente sì. i mezzi per realizzarlo però non sono così scontati.

Iniziamo con la gentilezza

L’inizio richiede gentilezza. Non stiamo allenando il corpo per una performance. Ci mettiamo nella condizione di ascoltarlo. Per questa ragione partire con movimenti semplici e lenti può essere la cosa migliore. La vera domanda però è quanto riusciamo a stare attenti mentre ci muoviamo e quanto riusciamo a tenere l’attenzione sul corpo senza entrare in una modalità di controllo. Basta stare attenti? No però può essere il primo di quattro passi:

  • incoraggiarci alla lentezza, un aspetto necessario se vogliamo essere in grado di tenere l’attenzione sul corpo
  • sviluppare una consapevolezza non giudicante nei confronti delle sensazioni – piacevoli, spiacevoli e neutre – che possono emergere
  • accettare la qualità di sforzo che può accompagnarsi al movimento
  • tutto questo sostiene e incoraggia la capacità di tenere l’attenzione sul corpo

Distinguere tra consapevolezza corporea e rilassamento

Tendenzialmente quando iniziamo a portare l’attenzione al corpo il commento delle persone è orientato a valutare se è stato possibile rilassarsi. Questo è un pregiudizio abbastanza forte e nasce dall’idea che essere rilassati sia uno stato mentale migliore che essere consapevoli della tensione. Dal punto di vista della pratica di mindfulness non è così. Sforzarsi per rilassarsi è paradossale. A volte portare l’attenzione al corpo può condurre al rilassamento ma non è scontato né indispensabile. Diventare consapevoli di una tensione è il primo passo per iniziare a prendersene cura. Le ragioni per cui è importane la consapevolezza corporea sono molteplici (e prescindono dal rilassamento):

  • la consapevolezza corporea è un evento in continuo cambiamento che ci ancora al momento presente;
  • le sensazioni fisiche sono porte d’ingresso per riconoscere le sensazioni emotive;
  • le sensazioni fisiche accompagnano i processi di pensiero e, a volte, attivano pensieri ripetitivi;
  • la consapevolezza corporea riduce l’eccessiva identificazione con gli stati mentali negativi;
  • ci permette di apprezzare il fatto che il nostro corpo continua a funzionare, nonostante il nostro modo stressante di vivere;
  • ci permette di incontrare in modo delicato quello che tendiamo ad evitare emotivamente.

La tensione oscura i dettagli dell’esperienza

Sono poche le persone che sanno fare una passeggiata. È un’attività che richiede resistenza, abbigliamento comodo, scarpe vecchie, uno sguardo alla natura, buon umore, curiositàbuoni silenzi, buone parole e nient’altro. La cosa più difficile è nient’altro. Ralph Waldo Emerson

Evitare di sentire il corpo ha una ragione primariamente pratica: evitare di sentire le emozioni. Tutto sommato è più accettabile avere una tensione alle spalle che sentire la rabbia. Avere un vuoto allo stomaco che sentire la paura. Per questa ragione limitiamo progressivamente la lunghezza del nostro respiro: nella speranza di ridurre la sensibilità del corpo. In effetti funziona ma ha un costo alto perché la tensione cronica oscura la possibilità di percepire i dettagli dell’esperienza e ci fa attivare degli schemi di comportamento automatici e a bassa consapevolezza. Reagiamo alla nostra vita anziché rispondere con sensibilità e perdiamo il sapore, il senso, a volte anche il gusto della vita stessa. Sviluppare consapevolezza corporea non è imparare qualcosa di nuovo: è rispolverare qualcosa di vecchio che abbiamo dimenticato. Riportarlo alla luce però richiede pratica. Pratica della percezione del corpo da fermo e in movimento. Per strano che possa sembrare percepire il corpo in movimento è difficile. Tendiamo a sentire gli effetti del movimento ma non a sentire il corpo.

[box] Ricordi quando hai imparato ad andare in bicicletta? Ricordi quando hai imparato a sciare, a suonare uno strumento, a pescare? Non c’era solo la tecnica ma c’era il dialogo tra il tuo corpo e i movimenti che sono necessari per padroneggiare la nuova abilità. Potresti provare a muoverti per pochi minuti al giorno come se dovessi imparare di nuovo a farlo? [/box]

Passare dalle parole al corpo e dal corpo alle parole

Quando è nata la psicoterapia era definita una talking cure, la cura attraverso le parole. Oggi la definirei un dialogo tra corpo e parola dove l’aspetto più difficile è proprio sincronizzare la mente – espressa verbalmente – e il corpo, sentito percettivamente. Non è necessario fare esercizio fisico per lasciar parlare il corpo però è necessario dargli spazio. Siamo in grado di dargli spazio? Siamo in grado di aspettare che le parole nascano dal corpo? Siamo in grado di permettere alle parole di tornare al corpo?

Portare la consapevolezza al corpo è più facile se iniziamo da qualcosa che è già presente. Per esempio un gesto abituale a cui associare la “temperatura psicologica”. Cosa vuol dire? Qual è la disposizione di base, il nostro umore, quando iniziamo a muoverci? Siamo stanchi o irritati? Siamo disponibili al movimento o svogliati? Abbiamo paura di farci male o di sentire? Rispondere a queste domande sposta l’attenzione dall’obiettivo all’intenzione per cui ci muoviamo. Anche le persone più attente al corpo spesso si muovono con una logica di performance. Per questo amo la bioenergetica: niente performance, nessuna posizione specifica da raggiungere. Solo l’intenzione di sentire. Abbassare il livello prestazionale e alzare la consapevolezza dell’intenzione aiuta a considerare il corpo in modo non strumentale. Non è una macchina proprio come la nostra mente non è un computer. La parola esercizio può trarci in inganno: muoversi non è un compito. È una necessità, un’esperienza, un bisogno.

Semplificare

Come possiamo ritornare al corpo senza entrare nella prestazione? Io ho provato a semplificare. Partiamo dai piedi, da come stiamo in piedi. In fondo camminare è stata una delle prime conquiste. Per farlo abbiamo dovuto mettere in equilibrio il bacino sulle nostre gambe e poi accettare che il nostro movimento non è in linea retta ma è in uno spazio. Protendersi è la conquista successiva che richiede di rimanere radicati e di aprirsi verso l’esterno, l’altro, gli altri, il mondo. Protendersi richiede di aprire il cuore: movimento complesso sotto tutti i punti di vista. Un movimento che ci fa perdere l’equilibrio continuamente: sarà per questo che preferiamo un cuore difeso? Quando lo facciamo ci accorgiamo che le braccia e le spalle non sono accessori. Sono aspetti che permettono il contatto, la tenerezza ma anche la difesa e l’aggressione. Poi arriva la cima: il delicato equilibrio della testa sul collo. L’appoggio del cranio sull’Atlante, la prima vertebra cervicale, una staffa che sostiene la nostra testa con la collaborazione dei muscoli del collo. Infine il viso che esprime le emozioni e l’equilibrio tra il nostro essere radicati a terra e protesi verso il cielo. Questo è il percorso concreto del ciclo delle 10 classi d’esercizi bioenergetici. Perché ho voluto accompagnarle con lo yoga? Perchè quando abbiamo acquisito consapevolezza e capacità espressiva, quando abbiamo restituito voce al corpo e corpo alle parole allora abbiamo bisogno di sentirci padroni del movimento, capaci di flessibilità e forza. Capaci di perdere l’equilibrio perchè questa è la vera strada per ritrovarlo.

Quando abbiamo iniziato a camminare abbiamo accettato di cadere. Molte volte. Senza per questo smettere di imparare a camminare. Se desideriamo rispolverare la nostra consapevolezza corporea abbiamo bisogno di imparare a tornare principianti, a perdere l’equilibrio per ritrovarlo.

Scarica il pdf di accompagnamento “Svegliare_il_corpo” ( 2016 pdf)

© Nicoletta Cinotti 2021

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/10-classi-di-yoga-e-bioenergetica/

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