
Quando cominci a toccare il tuo cuore o lasci che il tuo cuore sia toccato cominci a scoprire che non ha un confine, né risoluzioni: scopri che è vasto e senza limiti. Cominci a scoprire quanto calore e gentilezza c’è, così come quanto sia spazioso. Pema Chodron
Forse avrete già sentito raccontare l’episodio in cui un gruppo di meditanti occidentali, in uno degli incontri con il Dalai Lama, cercava di spiegargli l’emozione della vergogna. Un’emozione che nella cultura tibetana non sembra essere presente, eppure un’emozione così pervasiva nella nostra. Quando infine il Dalai Lama comprese di che cosa si trattava e che era associata ad una sorta di odio per se stessi e per qualcosa che avevamo fatto nacque la necessità di far iniziare la pratica di Metta, o Maitri o gentilezza amorevole, includendo noi stessi. Nella tradizione originaria tibetana la pratica di Metta iniziava direttamente con l’augurio rivolto alle persone che amiamo. Adesso, in quella pratica iniziamo rivolgendo quell’augurio direttamente a noi stessi: e non sempre è facile.
Una distanza da noi
La vergogna è una self consciuos emotions, quell’ampia categoria di emozioni sociali che includono aspetti relazionali. Semplificando molto possiamo dire che, quando proviamo queste emozioni, è come se ci vedessimo dall’esterno, da una leggera distanza da noi. Sono emozioni come la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio, l’invidia. Emozioni dolorose che nascono spesso da un confronto tra dove siamo e dove vorremmo essere e sono alimentate dal nostro rilevatore di discrepanza. Quello che succede quanto proviamo queste emozioni è una sorta di auto-giudizio: ci guardiamo dall’esterno e verifichiamo i nostri risultati come inadeguati. Non proviamo solidarietà per le nostre difficoltà ma ci separiamo dalla parte di noi che ha sbagliato, che ha avuto un problema e iniziamo a criticarla. Da un certo punto di vista possono essere la radice del pensiero riflessivo. da un altro punto di vista sono l’espressione del nostro perfezionismo.
Ma dai, io non sono perfezionista!
Ma dai, io non sono perfezionista, voglio solo migliorarmi, non sarà un problema, no? Questa frase, nelle sue infinite varianti, me la sento ripetere spessissimo: direi che non passa settimana che non sia pronunciata da qualcuno. Riconoscere di essere perfezionisti non è facile per tante ragioni. In parte ci sentiamo autorizzati al miglioramento e facciamo fatica a distinguere la sfumatura che c’è tra coltivare la crescita e coltivare il miglioramento. Coltivare la crescita significa partire da noi, dalle nostre potenzialità e dai nostri limiti e coltivare la nostra passione. Coltivare il miglioramento significa avere in mente un modello, uno standard e lavorare per raggiungerlo. Uno parte dall’espressione di sé, l’altra da raggiungere qualcosa di esterno.
In parte confondiamo il perfezionismo con il prestigio degli obiettivi. Non sono perfezionista perchè mica voglio vincere il Nobel! Voglio solo avere la casa in ordine! Ecco non è proprio questo il criterio: non è dato dalla brillantezza della meta il perfezionismo. Si misura piuttosto conla distanza tra dove siamo e dove vorremmo essere. C ‘è una grande distanza? Allora siamo sulla linea del perfezionismo. Ed è in quella distanza che si insinuano le consciuos emotioms, dolorose come le spine dei rovi.
Cosa si infila nella distanza
Hai in mente lo spazio tra il muro e l’armadio? È uno spazio piccolo, poco visibile, dove si accumula la polvere. Immagina che quello spazio sia più ampio, poco visibile e che lì si accumuli una polvere che nessuno pulisce. Poi vengono aperte le finestre, si fa aria e questa polvere inizia a muoversi per la casa. Ecco questa metafora – un po splatter – rappresenta bene il danno delle consciuos emotions. Sono emozioni di sottofondo che spesso si travestono da pensieri. Non le vediamo fino a che non fanno una massa critica e, a quel punto, sono piuttosto difficili da togliere perchè ci siamo dimenticati come e quando si sono formate. Ho usato questa metafora perchè spessissimo sono emozioni che danno la sensazione di sporco: come se fossimo sporchi. Se percepiamo la perfezione come pulizia, associamo l’imperfezione allo sporco. Hai voglia a raccontare la storia del Kintsugi – l’arte delle preziose cicatrici – la sensazione di sporco, permane e disturba. Come se nemmeno l’assoluzione dai peccati potesse riportarci al Paradiso terrestre.
Riparare rotture e guarire cicatrici
Qui entriamo davvero nella stanza della psicoterapia. Una stanza meravigliosa e strana. È la stanza dove le persone portano le loro ferite, le rotture e le frattura con un unica richiesta: guariamole. Adesso vorrei provare però a farti vedere le cose dall’altra parte: dalla parte dello psicoterapeuta, quello che sta nella poltrona di fronte a te. Quello che a volte si commuove, a volte diventa irrequieto e cerca una posizione, a volte sembra indifferente.
Sono lì e sento i racconti, mi faccio toccare dai racconti perchè se non mi toccano non li comprendo. Condivido il dolore, sento la pena e vedo tanta, tantissima crudeltà.
Crudeltà, direte voi? Si, vedo crudeltà perchè spesso mi vengono portati pezzi rotti che appartengono alla persona che me li porta e che pure li disprezza così profondamente che non vorrebbe nemmeno toccarli. Altre volte vedo una distanza così abissale da se stessi che nemmeno sfiora il dubbio che una parte del problema sia quella distanza. Altre volte ancora vedo una tale difficoltà ad apprezzare le piccole gioie e un tale bisogno che tutto sia perfetto che non so da che parte incominciare. Perchè, molto volentieri, le persone farebbero quello che fanno con i loro pezzi rotti: li lasciano dal meccanico e li vanno a riprendere quando sono riparati.
Ah, dimenticavo, della crudeltà fa parte anche l’aspettativa che io sia perfetta: tranquilli non lo sono. Ve lo dico prima, quando vi stringo la mano e affiora la mia timidezza. A volte sono stanca, altre volte ho difficoltà personali e distrazioni o dimenticanze: ci si può fidare di un essere umano a cui, per curare, viene chiesto di essere perfetto e che invece vuole percorrere il territorio dell’autenticità? Non lo so, lascio a voi la risposta.
Il primo movimento: ridurre la distanza
Ecco il primo movimento che cerco di fare è paradossale: uno viene lì e mi lancia al volo il pezzo rotto e io devo convincerlo a riprenderlo in braccio. A guardarlo con compassione, a tenerlo con sé e a consolarlo come farebbe con un bambino (e spesso è proprio un bambino quello che è rotto). Nello stesso tempo devo mostrargli come ha fatto a rompersi e spesso, molto spesso, la cattiva notizia è che l’abbiamo rotto noi. Non è colpa dei soliti genitori, dei partner, della vita. Molto spesso siamo stati noi, con qualche assurda pretesa, ad aver trasformato una leggera ferita in una piaga. Un errore in un fallimento. Perchè odiamo la retromarcia, preferiamo essere convinti di aver ragione. E tutto questo appartiene a tutti noi. A me come alla persona che mi sta di fronte.
Secondo movimento: assicurare il funzionamento
Il secondo movimento è fare in modo che, malgrado tutto, le cose funzionino. Che sia possibile continuare la vita ordinaria, che sia possibile riparare senza perdere troppo tempo. O meglio, solo quello strettamente necessario. È per questo che parlo di grazia: perchè è solo quello che ci permette di andare avanti. La grazia dei momenti in cui cogliamo la bellezza che sta nelle nostre difficoltà ci permette di tenerle di nuovo vicine.
La grazia che sta nel senso di unità e presenza che sperimentiamo anche e soprattutto nei momenti difficili, ci dà la fiducia per andare avanti.
La grazia dell’incertezza e della tenerezza che ci fanno cogliere l’originalità della nostra vita e del suo fiorire. Non è una grazia pazzesca riuscire ad andare avanti malgrado la nostra storia e le nostre difficoltà? Vi assicuro che vedo ogni giorno più miracoli di quanti se ne possa immaginare. Miracoli che mi confortano più di quanto io possa credere. Diversi anni fa uscì un libro, malgrado il titolo, non era freak, Amore, medicina e miracoli, era scritto da un chirurgo – Bernie Siegel – che rimaneva esterrefatto dalla capacità di guarire dei suoi pazienti. È la stessa sorpresa che provo io: miracoli che avvengono non quando stiamo distanti da noi ma quando, per quanto possa essere difficile la situazione, ci immergiamo dentro la nostra vita e torniamo alle risorse della nostra autoregolazione. Quella che Reich riconosceva come il motore della crescita e del cambiamento.
Con Grazia e grinta
Ken Wilber è una delle figure più eminenti nel campo della psicologia transpersonale americana, avevo una cotta per lui da ragazza. Ha dieci anni più di me ed è nato nel mio stesso giorno: è un personaggio originale con un pensiero originale. Ed è anche bello. Non so se a voi capita di avere delle cotte intellettuali: io spesso. Mi innamoro come se fossero persone che abitano nel mio condominio e che incontro tutti i giorni. Gli parlo, interiormente, gli faccio domande e altre amenità del genere. Non vi racconto tutte le sue virtù e tutte le sue lauree che potete vedere qui (oggi non sono più così innamorata peraltro). Molti anni fa raccontò in un libro la storia del suo matrimonio e dell’ospite inatteso che l’aveva attraversato: la malattia di sua moglie, sposata pochissimo tempo prima del primo intervento. Il libro Grazia e Grinta, dà il titolo della Newsletter settimanale. La sostanza di quel bel libro è semplice e complessa insieme: abbiamo bisogno di stare dentro di noi per sviluppare pienamente il nostro potenziale, un potenziale che non esclude imperfezioni e difetti ma che li considera le aree di sviluppo prossimale. E, ancora di più, abbiamo bisogno di accettare che non controlliamo la vita, che le cose accadono e che, a volte la nostra accettazione deve spingersi al punto per noi più estremo: rinunciare ai nostri piani.
Il terzo movimento: avere un piano e rinunciare ad un piano
Quando ascolto le persone e le loro storie devo necessariamente avere un piano: noi lo chiamiamo progetto terapeutico. Posso identificarlo come una intenzione, una direzione verso la quale tendere. Un buon piano però deve essere sempre abbandonabile, sempre modificabile. Altrimenti diventa un obiettivo e alimenta quella distanza da noi che vuole curare.
Mi piacciono le parole di Chandra Candiani sulla tenerezza:
La tenerezza per me è un sentimento forte. Ci si arriva, è un percorso. spesso diventiamo teneri dopo che la vita ci ha stagionato ben bene, stanato, sbocconcellato ma anche dopo aver conosciuto il male che facciamo a noi stessi indurendoci. Leggi di più qui
Senza la tenerezza non c’è crescita: è per questo che i nostri punti vulnerabili sono tanto preziosi. Non solo perchè sono quelli che alimentano la nostra ricerca, ci portano nella stanza della psicoterapia, nel sangha della meditazione. Sono preziosi perchè senza tenerezza non c’è crescita. E la tenerezza ci aspetta a qualsiasi età.
[box] Scheda di pratica informale
Ogni sera, prima di addormentarti risveglia la compassione nei tuoi confronti. Passa in rassegna le difficoltà della giornata e ripeti mentalmente queste parole “Possa questo dolore passare, possano le cose migliorare per me…possa sentirmi meno angosciato. Rick Hanson[/box]
© Nicoletta Cinotti 2018
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