Se dovessi dire qual è la difficoltà più frequente rispetto al lasciar andare direi che è la sensazione di non essere pronti. Che le cose debbano essere ancora concluse, ancora migliorate. È una considerazione singolare perchè può portare a tenere in vita il desiderio per una relazione già finita, può spingerci a fantasticare su qualcosa che ormai è immodificabile, come se il nostro pensiero, tenendolo in vita, potesse permetterci di cambiare qualcosa che non è andato nella direzione giusta.
Dietro a questi tentativi – a volte disperati a volte comici – c’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa, che se avessimo fatto, detto o agito diversamente, il risultato sarebbe stato profondamente diverso.
Questo pensiero, questa sensazione, questa spinta, questo impulso, questo dolore, questa paura, questa rabbia, questo dubbio, questa tensione non dovrebbero essere qui. Questa è la voce che sta dietro alla nostra sofferenza. Jeff Foster
Giudicare sulla base del risultato
Giudicare sulla base del risultato è una grossa tentazione. Il risultato ci sembra la destinazione finale che svela il senso di quello che è avvenuto. Al risultato concorrono tante variabili, molte delle quali totalmente fuori controllo. Eppure continuiamo a considerare che quel risultato sia solo nostro e quindi il segno personale della nostra riuscita e sconfitta. È per questo che non può bastare la diagnosi psicologica che non tenga conto del contesto culturale e sociale in cui viviamo. Il punto non è migliorarci o migliorare fino a che non si raggiunga la qualità desiderata. Il punto è considerare che oltre a noi ci possono essere in gioco altre forze, interne alla persona con la quale siamo in una relazione, e forze culturali, di gruppo, di appartenenza ad una schema di pensiero. Peccato che a volte ci impegniamo a prescindere dalle circostanze e a prescindere dalla volontà e collaborazione delle altre persone coinvolte. È così che un partner diventa uno stalker: non accetta il risultato finale. Vuole avere ancora una possibilità di cambiare le cose o, almeno, di cancellare il fallimento, cancellando la persona che lo rappresenta. Giudicare sulla base del risultato è sempre un atto egoico: è un nostro merito o una nostra colpa.
Lascia andare quella voce interna dura e appuntita. È un eco del passato, Che non afferma nessuna verità su questo momento. Lascia andare il giudizio su di te, il vecchio e abituale modo di rimproverarti per ogni inadeguatezza immaginata. Permetti che il dialogo interno cresca amichevole e tranquillo. Spostati dalla critica interiore e la vita ti sembrerà improvvisamente molto diversa.Danna Faulds
Come sarebbe se considerassimo anche il ruolo dell’ambiente, delle circostanze, della volontà delle altre persone coinvolte? in che cosa si trasformerebbe la nostra determinazione? Come sarebbe se procedessimo a partire dalla nostra intenzione, mettendola in dialogo con la realtà? Come sarebbe se accettassimo le cose così come sono, così come sono andate, senza cercare di evitare il dolore del fallimento, il dolore della fine?
Quando cerchiamo di sfuggire il dolore, inizia la sofferenza: ci dividiamo in due. Una parte soffre e un’altra parte vuole essere fuori della sofferenza. Così ci frammentiamo: siamo metà dentro e metà fuori, rifiutando chi siamo e desiderando di essere altrove, proprio dove non riusciamo ad essere: questa è la vera sofferenza della nostra vita. Il vero problema è che coltiviamo l’idea, la falsa credenza che in noi ci sia qualcosa di sbagliato e così ogni fallimento, ogni evento che non risponde alle nostre aspettative non solo ci ferisce ma anche lo temiamo. Temiamo che dimostri – una volta per tutte – una sorta di difetto di base che cerchiamo costantemente di migliorare.
Lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso
Siamo cresciuti nell’ottica positivista del miglioramento e così ci siamo dimenticati che, mentre affermiamo la nostra intenzione di migliorarci, affermiamo anche la nostra idea di essere inadeguati. Inoltre il perfezionamento richiede grinta, determinazione, sforzo. Richiede di non mollare fino a che non si arriva a destinazione, a prescindere dal senso del limite. Anzi, varcando il senso del limite per andare oltre a ogni costo. In gioco c’è la nostra autostima: per questo non siamo tanto disponibili a lasciar andare.
Perchè lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso: entriamo in quello che c’è. Non significa rinunciare al cambiamento, al dinamismo, allo scorrere. Lo facciamo a partire da questo ingresso, radicale, nel presente. In fondo lasciar andare è una dichiarazione di non reattività: assaporo tutto fino in fondo, certo che da quel luogo nasca la spinta per il passo successivo. Non lotto ma accolgo e poi lascio che la forza di quello che accade mi porti in una direzione creativa. In una direzione in cui la mia creatività non è contro alla creatività della vita ma ne è parte.
Nell’ Aikido c’è un movimento in cui rispondiamo all’avversario trasformandolo in un alleato e usando la forza del suo attacco come spinta per andare avanti. Lasciamo andare la difesa ed entriamo nell’energia dell’evento. Cosi lasciar andare diventa essere nella forza della marea, come dice Danna Faulds
Lascia andare i modi in cui pensavi che si sarebbe svolta la tua vita: l’attaccamento ai piani, ai sogni o alle aspettative – lascia andare tutto. Conserva le forze per nuotare con la marea. La scelta di combattere ciò che hai ora di fronte avrà come risultato solo fatica, paura e tentativi disperati di fuggire da quella stessa energia che tanto desideri. Lascia andare. Danna Faulds
Aggrapparsi nel corpo e nella mente
Spesso pensiamo che quello che accade nel corpo e quello che accade nella mente non abbiano nessuna relazione. E’ un pensiero che nasce dalla nostra separazione tra corpo e mente. Se ristabiliamo l’originario senso di unità possiamo accorgerci che i movimenti sono speculari a ciò che proviamo mentalmente. Nutrono e sostengono le nostre idee e i nostri pensieri.
Aggrapparsi è uno dei movimenti che è più facile cogliere nella sua connessione corpo-mente ed è uno dei movimenti antagonisti al lasciar andare. Lasciar andare è praticare l’instabilità: aggrapparsi è cercare di bloccare il flusso
Quando non possiamo avere ciò che desideriamo, la tensione dell’insoddisfazione perdura. Questo aggrapparsi accade sia per qualcosa che ci piace che per qualcosa che non ci piace. Se ci piace non vorremmo che finisse, se non ci piace non accettiamo che sia andata così e ci aggrappiamo all’idea di modificarlo. Ci aggrappiamo internamente ed esternamente e non solo come risultato del momento che viviamo, piacevole o spiacevole. E’ il risultato anche di tutti i momenti passati di piacere e dispiacere. Impariamo ad aggrapparci come estensione del nostro desiderio di sicurezza e l’alimentiamo con la nostra determinazione e volontà, con la fatica che abbiamo ad accettare che le cose siano come sono.
Nutriamo l’illusione che insistendo, aggrappandoci al nostro desiderio di ottenere un risultato, ci sarà possibile cambiare l’esito delle cose.
Il disarmo della tenerezza
La tenerezza ci permette di tornare principianti, ci rende dis-armati. Non solo perchè abbiamo lasciato andare, non solo perchè ci siamo permessi di sciogliere e fluire. È proprio perchè non sappiamo prima quello che succederà dopo che può emergere un senso di tenerezza rispetto a quello che accade.
Chi è tenero non vuole farcela a tutti i costi, vuole sentire come sta e sentire come stanno gli altri, è sorella e fratello, non è genitore, non è maestro. La tenerezza sa stare alla pari, fianco a fianco, non è frontale. Chandra Livia Candiani
E se, alla fine, non fosse proprio la tenerezza quella che perdiamo quando non lasciamo andare?
© Nicoletta Cinotti 2023
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