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rimuginare

Emozioni: come nascono, come cambiano

16/09/2023 by nicoletta cinotti

Mi capita spesso di sentirmi chiedere la differenza tra emozioni e sentimenti oppure di sentirmi chiedere perché le emozioni sono più importanti dei fatti. Ho pensato quindi che un po’ di chiarezza potesse essere utile.

Intanto proviamo a vedere che cosa produce un’emozione

che cosa produce un'emozioneUn’emozione è frutto di 4 elementi continuamente in interazione tra di loro. Tutti questi elementi possono formare l’innesco all’emozione così come viene percepita.

I pensieri sono quelli che contribuiscono a rendere l’emozione più continuativa nel tempo e la legano alla nostra storia personale e relazionale. Le sensazioni fisiche danno il felt sense ed è quello che attiva o meno il segnale di pericolo. I sentimenti ci parlano invece della nostra storia relazionale e personale e danno un colore e un tono all’umore oltre che alla singola emozione. Gli impulsi sono le nostre tendenze di base, diverse da persona a persona anche se condivise da tutti gli esseri umani.

Il ruolo del corpo

Fino a non molto tempo fa non credevamo che il corpo avesse un ruolo nell’esperienza emotiva. Oggi sappiamo che non è così: ciò che accade nella mente non ha una esistenza autonoma ma è una parte fondamentale del corpo stesso e tra il corpo e la mente c’è un continuo scambio di informazioni reciproche. Molto di ciò che il corpo sente è influenzato dai pensieri e, contemporaneamente, tutto quello che pensiamo è mosso da ciò che accade nel corpo, come ha originalmente illustrato Alexander Lowen.

Johannes Michalak, dell’università della Ruhr, e il suo gruppo di ricerca, ha studiato le differenze di movimento tra un gruppo di persone depresse e un gruppo di controllo, attraverso 40 microsensori posizionati in tutto il corpo. Le persone depresse avevano meno mobilità dalla vita in su e una camminata con oscillazioni laterali, una posizione ingobbita e pendente in avanti. Non solo. Se il gruppo di controllo era invitato a simulare per un certo periodo di tempo questa posizione, pur non essendo depressi, il loro umore cambiava.

Minaccia interna e minaccia esterna

Non consideriamo diversamente una minaccia interna e una minaccia esterna. In presenza di un pericolo, il corpo si prepara a rispondere e la sua risposta muscolare condiziona il profilo di attivazione mentale e le emozioni che possono emergere. In questo modo attiviamo un circolo vizioso tra la mente e il corpo che rende difficile produrre emozioni diverse senza passare dal cambiamento delle tensioni fisiche.

Fortunatamente le emozioni sono variabili e quindi possiamo passare da una all’altra velocemente ma se le nostre tensioni fisiche sono stabili avremo più probabilità di provare sempre le emozioni che le hanno generate. Oppure, quelle stesse emozioni dureranno più a lungo.

Le costellazioni emotive

In superficie sembra che le emozioni siano poco collegate le une alle altre. In realtà le emozioni si muovono in gruppi coerenti di stati emotivi nei quali un singolo elemento dello schema innesca tutto il resto.

Ci capita di rado di provare solo tensione o solo tristezza. Queste finiscono per intrecciarsi con vulnerabilità, rabbia, amarezza, gelosia, dolore: tutti sentimenti che possono essere orientati verso gli altri o verso noi stessi.

Nel corso della nostra vita queste costellazioni possono combinarsi strettamente con determinati pensieri, sensazioni fisiche, comportamenti e così il passato comincia ad avere un effetto pervasivo sulle esperienze emotive del presente.

Il problema del perché

Una delle caratteristiche della mente umana è quella di cercare spiegazioni per quello che prova. Non ci basta sentire una emozione: abbiamo bisogno di sapere perché proviamo quella specifica emozione. La domanda “perché” è forse una delle domande più importanti nella storia dell’umanità. Ci ha permesso una crescita culturale e scientifica che ha disegnato la nostra possibilità di progresso. Non sempre però questa domanda ci aiuta. Soprattutto è una domanda che non ci permette di comprendere tutto e che rischia, invece, di diventare un chiodo fisso.

Quando siamo infelici è naturale cercare di scoprire perché ci sentiamo così e di trovare una maniera di risolvere il problema che ha causato la nostra infelicità. Solo che le emozioni non possono essere risolte: possono solo essere provate. Una volta che ne hai riconosciuto l’esistenza e hai lasciato andare la tendenza a spiegarle o a sbarazzartene, è molto più probabile che svaniscano da sole.

Quando si cerca di risolvere il problema dell’infelicità (o di qualunque altra emozione negativa) si mette in uso uno degli strumenti più potenti della mente: il pensiero razionale critico. Funziona così: ci si vede in un posto (infelici) e si sa dove si vorrebbe essere invece (felici). A quel punto la mente analizza la distanza fra le due alternative e cerca di elaborare il modo migliore per collegarle fra loro. Allo scopo utilizza la sua modalità del fare, detta così perché riesce bene a risolvere i problemi e a portare a compimento le azioni. Penman, Williams

La modalità del fare

La modalità del fare opera riducendo progressivamente la distanza che c’è tra il punto in cui siamo e quello in cui vorremmo essere. Lo facciamo frammentando il problema in parti più piccole, cercando di risolvere ognuna di queste parti per avvicinarsi all’obiettivo del benessere che andiamo cercando.

Rispetto alla  nostra vita emotiva questa modalità è controproducente: non possiamo costringerci a provare emozioni diverse da quelle che proviamo e la regolazione cognitiva non ha efficacia sulle emozioni. Rischiamo che questa modalità ci porti a farci domande senza soluzione: “Cosa c’è in me che non va?” Perché ho sbagliato?” Perché continuo a fare sempre questi errori?”. In questo modo entriamo in una modalità rimuginativa che non permette la fisiologia del cambiamento emotivo.

Le persone sono sinceramente convinte che se si preoccuperanno a sufficienza della propria infelicità finiranno per trovare una soluzione, che basterà solo fare un ultimo sforzo, ragionare ancora un po’ sul problema… La ricerca invece mostra il contrario: di fatto rimuginare riduce la nostra capacità di risolvere i problemi. Ed è assolutamente inutile per gestire difficoltà emotive. È evidente: rimuginare è il problema, non la soluzione.

© Nicoletta Cinotti 2023 Mindfulness ed emozioni

Ultimi giorni per iscriversi al Protocollo MBCT, Mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive

Il Protocollo MBCT: Protocollo per la prevenzione delle ricadute depressive

 

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Le domande secche

26/07/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando accade qualcosa di doloroso ci coglie lo stupore. Un attimo più o meno lungo di sospensione, seguito da una catena di domande secche, senza risposta. Che lasciano il respiro sospeso, in cerca di un luogo dove atterrare.

Il dolore apre le liste: le liste di quello che abbiamo fatto e di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, distratti, incuranti o inconsapevoli. La lista delle domande che vorremmo avessero una risposta certa. Certa perché abbiamo bisogno di capire quello che è successo con la speranza che questa comprensione ci restituisca serenità.

In realtà questo proliferare di domande è un modo per trasformare le emozioni in pensieri. Sono domande secche perchè non hanno una risposta. Ci lasciano asciutti, Producono dubbi e paranoie. Rinforzano la fiducia nella ragione, anche se sappiamo benissimo che non sempre trova una risposta e che, molto spesso, quando trova una risposta è più frutto delle nostre ansie che della verità. È qui che arriviamo a dirci, “ma io sono razionale”, “ho bisogno di capire prima di andare avanti”, “Ho bisogno di capire prima di fare qualcosa”. Come se non sapessimo che quello che possiamo capire, sapere, conoscere è una frazione limitata della realtà.

Le cose accadono. E prima di sapere perché e per come accadono, sarebbe utile occuparsi di noi. Confortarsi, se siamo addolorati, come faremmo con il dolore di un bambino: senza spiegazioni. A bassa voce perchè il cuore non ha bisogno di un volume alto. Ha bisogno di tenerezza, di contatto, di vicinanza. E quando invece ci facciamo travolgere dal fiume delle domande ci isoliamo nei nostri pensieri e nelle nostre paranoie, rendendo a noi stessi e agli altri molto difficile la consolazione. Con – solus – la radice di consolazione, sottolinea l’interezza della persona. Perchè la vera consolazione è sapere che, malgrado tutto, siamo interi e apparteniamo alla vita. Anche se non la capiamo, la nostra vita, ne facciamo parte.

Allora tutte le nostre domande, tutti i nostri rovelli interiori, il nostro incessante rimuginare che scambiamo per razionalità si rivela per quello che è: solo un flusso di emozioni travestite da pensieri.  Emozioni, vi prego, tornate ad essere quello che siete: sabbia che scivola tra le dita.

I pensieri negativi arrivano spesso sotto forma di domande secche, che danno il tormento, logorano l’anima ed esigono una risposta immediata:”Perchè sono infelice? Cosa mi succede quest’oggi? Dov’è che ho sbagliato? Quando finirà tutto questo? Penman, Williams

Pratica di mindfulness: La meditazione del fiume

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBCT online

 

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Lasciar andare e non rimuginare

25/05/2019 by nicoletta cinotti 2 commenti

Mindfulness: 56 giorni per la felicità

Lasciar andare e non rimuginare

“La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non cercare di resistere a questi cambiamenti. Resistere crea solo dolore. Lascia che la realtà sia la realtà e che le cose prendano il loro corso naturale.” –Lao-Tzu

Lasciar andare è un monito che, nel tempo, è diventato quasi uno slogan. Declinarne il significato ci aiuta a far chiarezza rispetto alle tante sfumature che questa parola può assumere. Certamente non è un invito alla superficialità: è piuttosto un invito a lasciare che il dolore e la gioia abbiano il loro corso naturale.

Molto spesso cerchiamo di trattenere il piacere come se non avessimo più fiducia che potrebbe ripresentarsi. Oppure rimuginiamo in continuazione su un’offesa riattivando così ripetutamente le emozioni ad essa connesse e prolungando la ferita nel tempo.

La pratica di mindfulness incoraggia a fare l’opposto: a fare in modo che non sorgano condizioni negative e a lasciarle andare con semplicità quando sorgono; a sostenere e promuovere la possibilità che emergano stati mentali positivi. Tutto espresso con semplicità nella frase di Thich Nath Hahn che già conosciamo “E’ a causa della natura impermanente del dolore che possiamo trasformarlo. E’ a causa della natura impermanente della felicità che possiamo nutrirla”.

Lasciar andare e non rimuginare

Mi occupo da sempre di depressione: non è solo per professione ma anche per familiarità.  Mi è familiare fin dall’infanzia, quando studiavo il viso di mia madre per capire come andava. O quando mi alzavo appena si alzava lei – all’alba – per prendere l’odore del giorno. Credo che una parte dell’amore che avevo per mia madre sia osmoticamente fluito nella passione con cui mi occupo di depressione.

Una delle frasi tipiche della mia professione è che diventiamo psicoterapeuti per salvare i nostri genitori. Io non volevo salvarla ma almeno capirla. Devo a questo desiderio la costanza con cui studio, la diffidenza nei confronti dello scoraggiamento, la reticenza a dire ad un paziente che non posso seguirlo. La fatica a rinunciare alla cura.

La depressione è la malattia del “non lasciar andare”. Avviene un evento negativo – piccolo o grande che sia –  e con la depressione, anziché sciogliersi, il dolore si solidifica e diventa un tormento e una ruminazione. Questo tormento e questa ruminazione non sono solo una difficoltà, visto che offrono quella profondità che permette, talora, l’accesso alla radice della creatività. Ma portano a perdere il senso delle proporzioni e, soprattutto, il senso dello scorrere della vita, delle cose, delle emozioni. In qualche modo congelano il passato e lo trasformano in un eterno presente.

Mia madre è rimasta tutta la vita dentro ad un bombardamento, di quella guerra che ha segnato la morte in massa dei civili: una morte di civili che continua tuttora in tante e diverse parti del mondo. Nessuno dei miei spettacoli d’arte varia l’ha mai veramente distolta da quel passato ma io ho imparato a conoscere le sue sfumature e a dosare distanza e vicinanza con rispetto per lei e per me. E accettato che non la conoscerò mai davvero.

La depressione, l’illusione e la felicità

Negli approcci psicoterapici classici la depressione è messa in relazione con un lutto primario che si riacutizza in occasione di perdite successive. Lowen e l’analisi bioenergetica, accettano questa posizione ma affermano che la depressione è, primariamente, il frutto del crollo di una illusione. E che la rimuginazione e il non lasciar andare altro non sono che il tentativo di rendere reale quell’illusione e di non arrendersi alla verità dei fatti. Un tentativo che viene rinforzato dallo strutturarsi di una posizione corporea ed energetica. Senza la possibilità di cambiare il corpo, i tentativi di uscire dalla depressione sono indeboliti.

Costruiamo delle illusioni che sono una promessa di felicità futura o un tentativo di negare una realtà dolorosa. Nascono da un desiderio compensativo di quello che è stato il tradimento di uno dei nostri diritti di base: il diritto di essere amato, il diritto di essere autonomo, il diritto di essere rispettati e il diritto alla propria sessualità. Ci illudiamo che – se saremo “bravi”(qualunque sia il significato che assume per noi questa parola) – questo diritto e questa promessa di felicità si realizzeranno. Attorno a questo diritto negato strutturiamo un insieme di contrazioni corporee che sono difensive ed espressive di questo desiderio. Anche qui mindfulness e bioenergetica usano un termine comune: ci aggrappiamo a queste illusioni, a questi hang ups, e quando l’illusione crolla crolliamo anche noi, entrando in depressione. Queste illusioni sono strettamente in relazione con la nostra struttura caratteriale – e quindi con il nostro corpo –  e, una volta illuminate dalla realtà – rivelano tutta la loro incapacità di renderci felici. Ci fanno sentire ancora di più in trappola. Il problema è che le nostre illusioni costruiscono concetti solidi della vita e ci lasciano immobili. Sulla riva della nostra esistenza.

Lasciar andare implica non continuare a desiderare quello che vogliamo ottenere e non rimanere legati a quello che già abbiamo, o semplicemente a quel che pensiamo di dover avere. Lasciar andare significa anche non rimanere ancorati a quel che odiamo, a quello verso cui proviamo una fortissima avversione.       Jon Kabat Zinn

Pema Chodron, una insegnante di meditazione molto nota, usa la metafora del fiume per esprimere la differenza tra fluire e rimanere  arroccati nelle proprie posizioni. La nostra ricerca di sicurezza ci lascia immobili sulla riva mentre la vita vera scorre. Tanto più riusciamo a vincere la paura, tanto più siamo in grado di stare nel flusso, al centro del fiume, e permettiamo che avvenga il cambiamento, che dichiariamo di desiderare ma che, molto spesso, ostacoliamo con le nostre contrazioni, con il nostro controllo. Le difese che costruiamo ci mettono al sicuro – sulla riva – ma ci lasciano anche fuori dal flusso e dalla possibilità di lasciar andare.

Costruire tante strutture

Il nostro lavoro ha una struttura, così come le nostre relazioni, il nostro giro di frequentazioni, le nostre modalità di relazione e la nostra agenda. La struttura è necessaria a darci sicurezza e a garantirci crescita ma nello stesso tempo può ancorarci troppo sulla riva e spingerci a provare rabbia, frustrazione e stress rispetto a ciò che sfugge al nostro controllo. Lasciar andare è strettamente connesso al non trasformare il nostro dolore in sofferenza: la sofferenza della delusione.
In questo senso cosa significa andare con il flusso? Significa accettare le cose che arrivano senza entrare in una modalità reattiva. Prendere la vita per quello che offre piuttosto che cercare di modificarla in modo che ti dia esattamente quello che desideri. Significa non affrettarsi a dire e a pensare che qualcosa è negativo o positivo ma sperimentarlo con apertura e curiosità.

“Scorri con ciò che accade e lascia che la tua mente sia libera. Rimani centrato e accetta qualsiasi cosa tu stia facendo. Questo è la massima realizzazione.” – Chuang Tzu

C’è un vademecum del lasciar andare?

Credo che, teoricamente, possiamo comprendere la bontà del lasciar scorrere perché la mente sia libera di cogliere e accogliere il presente, la sua novità. Realizzarlo però è tutt’altro che semplice. Così ho pensato di condividere quegli appunti che sono nati via via, dalle mie meditazioni sul lasciar andare. Non sono tanto organici ma sono abbastanza vissuti da essere, spero, facilmente comprensibili.

La prima scoperta sull’argomento lasciar andare è stato il corpo: difficile lasciar andare quando qualcosa è contratto e aggrappato. Perché ad una contrazione corporea corrisponde inevitabilmente una contrazione mentale. Così l’aspetto del corpo nella mindfulness e nei protocolli è tutt’altro che secondario. Quando lavoriamo bene con il corpo otteniamo una mente sgombra – almeno per un po’ di tempo – proprio perché abbiamo lasciato andare la tensione. Ovviamente per lasciar andare è necessario un passaggio: occorre prima sentire e questo non è sempre facile. Così svegliare il corpo è il primo elemento del lasciar andare e cedere, anziché contrarre, il secondo.

Possiamo davvero controllare?

La contrazione corporea nutre una illusione: quella del controllo, grande antagonista del lasciar andare. Quando desideriamo avere precisione tendiamo l’attenzione e tendiamo il corpo. Spesso questo diventa contrazione. Abbiamo effettivamente bisogno di precisione molte volte. Di quello che Kabat Zinn chiama “calibrare gli strumenti” ma, come dice spesso, è necessaria una certa quota di gentilezza perché questa precisione e questo calibrare gli strumenti non diventino controllo. La distinzione in alcuni casi è quella espressa con eleganza da Lowen, tra padronanza e controllo. La padronanza ci permette di sentire che stiamo esprimendo una nostra capacità e che non ne siamo trascinati. Il controllo assume invece il dominio dell’azione e diventa un atto di prepotenza, tanto più prepotente quanto più è nutrito da self control. La padronanza è una forma dell’espressione di sé e ci porta quindi in quel dominio dell’essere che accompagna la nostra pratica. Il controllo è attività e fare incessante.

Abbandonare questa illusione non è facile perché nasce dalla paura e dalle forme sottili che la paura assume. Dietro al mio alzarmi, appena sentivo mia madre muoversi, non c’era solo il desiderio di strappare un tempo tutto nostro, quando gli altri della famiglia ancora dormivano. In quel tempo segreto c’era anche la paura che stesse male, che fosse triste o nervosa. C’era il desiderio di evitare “la catastrofe” o di prepararsi ad affrontarla per tempo. Così abbandonare il controllo nei confronti di mio figlio e del suo diverso modo di muoversi nel mondo è stato andare incontro ai fremiti della mia paura e accorgermi di quante sfumature avesse: dall’indifferenza all’azione, dalla velocità al distacco. Ri-conoscerla è stato il primo atto di vero coraggio che ho fatto. E allentando il controllo – stavo scrivendo smettendo ma non so quanto sia vero – potevo permettermi di risentire per entrambi – mia madre e mio figlio – quella bellissima declinazione dell’amore che il controllo strangola: la tenerezza.

Forse la tenerezza è davvero il sentimento che scioglie la rigidità del corpo. Per me più ancora del cedere. Perché in quell’abbandono e in quell’abbraccio si mantiene quel contatto e quel riconoscersi che vado cercando. Nicla Vassallo, filosofa della conoscenza, in una delle sue interviste dice che l’uomo è tale non perché ha il linguaggio ma perché esercita una funzione di conoscenza. Questo per me è verissimo con la sfumatura delle tenerezza e della gentilezza. Altrimenti la conoscenza mi fa paura e mi isola. Così entrare in dialogo con il controllo è un altro passo del mio lasciar andare che si accompagna al conoscere come atto di esperienza che comprende l’abbandono alla mutevolezza e al cambiamento

Se abbiamo intenzione di usare la mente per osservarla e familiarizzare con essa e, infine, arrivare a comprenderla, dobbiamo anzitutto imparare i rudimenti necessari e stabilizzarla, così che possa prestare attenzione in modo stabile e costante nel tempo, fino a diventare consapevole di quel che accade sotto la superficie della sua attività. Jon Kabat Zinn

Il respiro: uno spazio poetico ma non lirico

respiro.001Il ritmo del respiro è un continuo rimando al lasciar andare. Senza una buona espirazione finiamo soffocati e per quanto possiamo trattenere, prima o poi abbiamo bisogno di cedere al lasciar andare dell’espirazione. Vero è che abbiamo infiniti modi per trattenere il respiro e che, come giustamente dicevano Reich e Lowen, questi modi hanno uno scopo essenziale: limitare il sentire. Così riportare l’attenzione al respiro, senza correggerlo o modificarlo, è davvero l’alfabetizzazione del lasciar andare, l’alfabetizzazione al sentire nuovamente. Promuove la consapevolezza in modo poetico ma non lirico: ci mette di fronte ai nostri ostacoli e alle nostre interruzioni. Ci permette di rallentare innescando il passaggio dall’attività simpatica all’attività parasimpatica del Sistema Nervoso Autonomo: questo rallentamento permette i processi di consapevolezza. Il respiro è un’ottima metafora del lasciar andare e dell’essere consapevoli. Infatti è un atto involontario – non possiamo decidere di non respirare – che può essere volontariamente modificato. Così, semplicemente respirando, pratichiamo in ogni momento il lasciar andare. Illuminazione banale che ha reso la mia pratica confortante per moltissimo tempo. Mi confortava perché lasciavo andare il controllo, la paura, la rabbia, gli stereotipi, le narrazioni precostituite e altre cose ancora. Senza bisogno di pratica formale, in ogni momento.

La mindfulness è una modalità dell’essere che richiede un lavoro costante. E’ una disciplina che già di suo si estende a tutti gli aspetti della vita, contemporaneamente al suo svolgimento. Jon Kabat Zinn

Riderci sopra

Tutti noi abbiamo paure irrazionali. Io non amavo il mare sabbioso perché avevo paura delle tracine, pesci con spina velenosa sul dorso che si nascondono sotto la sabbia e che possono pungere chi li calpesta. Da specificare che non sono mai stata punta da una tracina, comunque, per prudenza, sceglievo se possibile gli scogli, oppure, se ero in spiaggia, iniziavo a nuotare praticamente dalla riva, con scene che, già di per se stesse, erano piuttosto comiche.

Il top sull’argomento fu raggiunto durante una vacanza in Corsica. Degli amici avevano un gommone che, nell’intenzione della compagnia, avrebbe garantito pesce fresco tutti i giorni. In realtà credo che riuscissimo a pescare solo i pesci che avevano già scelto, di loro iniziativa, di morire. Ma questo andava bene. Se non che, durante una di queste uscite di pesca saltò, quasi di sua iniziativa, dentro il gommone, una tracina. Al mio grido “la tracina!” seguì il delirio nel piccolo equipaggio di uomini, donne e bambini. Un assalto di pirati avrebbe avuto meno conseguenze. Non so se tutti avessero terrore delle tracine o se fosse stata l’intensità del mio grido a produrre quel caos. Risi così tanto che da allora non riesco più a prendere sul serio la mia paura. Il nostro equipaggio sostituì il più tradizionale “All’arrembaggio” con “Alla tracina!” suscitando sempre una incontenibile ilarità.

Questo sguardo comico nei confronti di ciò che accade mi ha aiutato tantissimo. A volte domandarmi “Come vedrò questa cosa tra un giorno, una settimana, il prossimo anno?” è stato sufficiente per ristabilire una prospettiva più adeguata e lasciar andare con più semplicità. So che la mia tendenza a scherzare può risultare fastidiosa ma il gioco, per me, vale la candela.

La legge dell’impermanenza è una legge di armonia. Jack Kornfield

La lettera nella bottiglia

Nei libri che leggevo nell’infanzia compariva spesso il messaggio chiuso nella bottiglia e affidato al mare. Oggi questo mezzo sembra scomparso, forse sostituito dal vuoto virtuale della rete. In ogni caso questa è una delle ragioni per cui scrivo e una delle cose che mi aiutano di più a lasciar andare. Non ho capito bene perché ma ci sono dei pensieri che, fino a che non li scrivo, compaiono ripetutamente. Alla fine, una volta scritti, avviene un piccolo miracolo, formano catene associative, concetti e approfondimenti che, se non avessi praticato la scrittura, non sarebbero avvenuti. Non sono un’esperta di scrittura ma farlo mi aiuta a riflettere e riflettere mi aiuta a lasciar andare. Leggere è un altro tipo di processo riflessivo per me, più simile al mantenere l’attenzione, al fare una inspirazione. Mentre scrivere mi mette in uno stato, anche mentale, di flusso. Non so se questo valga per tutti e credo che la scuola possa avere qualche responsabilità rispetto al nostro atteggiamento nei confronti della lettura e della scrittura. Per alcune persone l’idea di scrivere è come prendere una medicina amara che è meglio evitare. Per me è paragonabile al camminare, che è l’altra pratica, di questo vademecum sul lasciar andare.

La meditazione camminata è un invito fortissimo al lasciar andare, soprattutto quando, finito il breve tratto prescelto di cammino, mi giro e, con un piccolo movimento, tutto lo scenario cambia. Rimango sempre sorpresa dalla forza di quella semplice rotazione della prospettiva. Un attimo e niente di quello che vedevo prima sembra esistere ancora. Tutto lasciato alle spalle. Quello è un momento di imperscrutabile felicità.

Nulla è diverso e tuttavia tutto è diverso; perché c’è stata una rotazione nel nostro modo di osservare, nel nostro modo di essere, nel nostro modo di sapere.                 Jon Kabat Zinn

© Nicoletta Cinotti 2015

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Questo capitolo è un estratto di Destinazione mindfulness 56 giorni per la felicità acquistabile – come ebook  cliccando sulle parole in azzurro

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La storia del passeggino

20/06/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Qualche tempo fa, camminando per Camogli, ho visto una giovane donna che spingeva faticosamente un passeggino. Camogli, si sa, è piena di scale, salite, discese. Poco adatto ai passeggini: molto adatto ai bambini.

La fatica che faceva però mi sembrava inconsueta. Sorpassandola mi sono accorta che aveva il freno del passeggino tirato. Le ruote quindi facevano attrito sul freno, rendendo la salita davvero faticosa.

Pensando che non se ne fosse accorta le ho fatto notare che c’era il freno alle ruote. Lei mi ha guardato, con quello sguardo misto di imbarazzo, timidezza e fatica che hanno le giovani mamme (quando non sono superdonne) e mi ha risposto “Lo so, lo lascio inserito per ché non si sa mai…se perdessi il controllo del passeggino sono sicura che non scivolerebbe via!”

Francamente avrei voluto dirle che la probabilità di quell’evento non giustificava la fatica che stava facendo. Che l’ipotesi che perdesse il controllo del passeggino, dimenticandosi di inserire il freno, era un rischio trascurabile. Che facendo così, alla fine, avrebbe bruciato i freni rendendoli inservibili proprio nel momento in cui sarebbero serviti. Avrei voluto dirle tante cose. Forse le avrei offerto volentieri un caffè e avrei ascoltato volentieri perché aveva tanta paura. Invece ci siamo guardate per un attimo, sorprese entrambe. Non faccio parte della categoria superdonne, quelle che tirano dritte pensando che tutto il resto del mondo sia fatto di “sfigati”. Abbiamo fatto ancora due passi insieme e poi ci siamo salutate. Soddisfatte di quella silenziosa solidarietà.

Non ero solidale perché anch’io avrei tenuto il freno del passeggino tirato. Ero solidale perché ogni giorno, anch’io, mi ricordo di non tirare il freno, in maniera preventiva, per pericoli che non sono mai accaduti e che, molto probabilmente non accadranno mai. Eravamo solidali perché il freno è un ottimo strumento: da usarsi solo in qualche occasioni. Non sempre.

Eravamo solidali perché, dentro ciascuno di noi, c’è una parte che tira il freno e ci rende più piccoli di quello che siamo. Non si può fare discorsi diretti a quella parte. Bisogna solo ricordarle che lasciar andare non comporta un disastro. Comporta l’apertura alla nostra libertà espressiva. Comporta il rischio squisito di essere vivi.

“La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non cercare di resistere a questi cambiamenti. Resistere crea solo dolore. Lascia che la realtà sia la realtà e che le cose prendano il loro corso naturale.” –Lao-Tzu  

Pratica di mindfulness: Lasciar andare (Meditazione live)

© Nicoletta Cinotti 2017

Questa settimana sarò in ritiro. Questa è la ri-edizione di uno dei post migliori del 2017

 

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Non ci sono scene sbagliate: la scelta della tenerezza

02/12/2017 by nicoletta cinotti

Se dovessi dire qual è la difficoltà più frequente rispetto al lasciar andare direi che è la sensazione di non essere pronti. Che le cose debbano essere ancora concluse, ancora migliorate. È una considerazione singolare perchè può portare a tenere in vita il desiderio per una relazione già finita, può spingerci a fantasticare su qualcosa che ormai è immodificabile, come se il nostro pensiero, tenendolo in vita, potesse permetterci di cambiare qualcosa che non è andato nella direzione giusta.

Dietro a questi tentativi – a volte disperati a volte comici – c’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa. che se avessimo fatto, detto o agito diversamente, il risultato sarebbe stato profondamente diverso.

[box] Questo pensiero, questa sensazione, questa spinta, questo impulso, questo dolore, questa paura, questa rabbia, questo dubbio, questa tensione non dovrebbero essere qui. Questa è la voce che sta dietro alla nostra sofferenza. Jeff Foster[/box]

Giudicare sulla base del risultato

Giudicare sulla base del risultato è una grossa tentazione. Il risultato ci sembra la destinazione finale che svela il senso di quello che è avvenuto. il realtà al risultato concorrono tante variabili, molte delle quali totalmente fuori controllo. Eppure continuiamo a considerare che quel risultato sia solo nostro e quindi il segno personale della nostra riuscita e sconfitta. E così, se non ci piace, continuiamo a modificarlo fino a che non raggiunge la qualità desiderata. Peccato che a volte lo facciamo a prescindere dalle circostanze e a prescindere dalla volontà e collaborazione delle altre persone coinvolte. È così che un partner diventa uno stalker: non accetta il risultato finale. Vuole avere ancora una possibilità di cambiare le cose o, almeno, di cancellare il fallimento, cancellando la persona che lo rappresenta. Giudicare sulla base del risultato è sempre un atto egoico: è un nostro merito o una nostra colpa. In entrambi i casi il ruolo dell’altro è molto secondario, molto svalutato.

[box] Lascia andare quella voce interna dura e appuntita. È un eco del passato, Che non afferma nessuna verità su questo momento. Lascia andare il giudizio su di te, il vecchio e abituale modo di rimproverarti per ogni inadeguatezza immaginata. Permetti che il dialogo interno cresca amichevole e tranquillo. Spostati dalla critica interiore e la vita ti sembrerà improvvisamente molto diversa.Danna Faulds[/box]

Come sarebbe se considerassimo anche il ruolo dell’ambiente, delle circostanze, della volontà delle altre persone coinvolte? in che cosa si trasformerebbe la nostra determinazione? Come sarebbe se procedessimo a partire dalla nostra intenzione, mettendola in dialogo con la realtà? Come sarebbe se accettassimo le cose così come sono, così come sono andate, senza cercare di evitare il dolore del fallimento, il dolore della fine?

[box] Quando cerchiamo di sfuggire il nostro dolore, inizia la sofferenza: ci dividiamo in due. Una parte soffre e un’altra parte vuole essere fuori della sofferenza. Così ci frammentiamo: siamo metà dentro e metà fuori, rifiutando chi siamo e desiderando di essere altrove, proprio dove non riusciamo ad essere: questa è la vera sofferenza della nostra vita.[/box]

Il vero problema è che coltiviamo l’idea, la falsa credenza che in noi ci sia qualcosa di sbagliato e così ogni fallimento, ogni evento che non risponde alle nostre aspettative non solo ci ferisce ma anche lo temiamo. Temiamo che dimostri – una volta per tutte – una sorta di difetto di base che cerchiamo costantemente di migliorare.

Lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso

Siamo cresciuti nell’ottica positivista del miglioramento e così ci siamo dimenticati che, mentre affermiamo la nostra intenzione di migliorarci, affermiamo anche la nostra idea di essere inadeguati. Inoltre il perfezionamento richiede grinta, determinazione, sforzo. Richiede di non mollare fino a che non si arriva a destinazione, a prescindere dal senso del limite. Anzi, varcando il senso del limite per andare oltre. A ogni costo. In gioco c’è la nostra autostima: per questo non siamo tanto disponibili a lasciar andare.

Perchè lasciar andare è, prima di tutto, un atto di ingresso: entriamo in quello che c’è. Non significa rinunciare al cambiamento, al dinamismo, allo scorrere. Lo facciamo a partire da questo ingresso, radicale, nel presente. In fondo lasciar andare è una dichiarazione di non reattività: assaporo tutto fino in fondo, certo che da quel luogo nasca la spinta per il passo successivo. Non lotto ma accolgo e poi lascio che la forza di quello che accade mi porti in una direzione creativa. In una direzione in cui la mia creatività non è contro alla creatività della vita ma ne è parte.

Nell’Aikido c’è un movimento in cui rispondiamo all’avversario trasformandolo in un alleato e usando la forza del suo attacco come spinta per andare avanti. Lasciamo andare la difesa ed entriamo nell’energia dell’evento. Cosi lasciar andare diventa essere nella forza della marea, come dice Danna Faulds

[box] Lascia andare i modi in cui pensavi che si sarebbe svolta la tua vita: l’attaccamento ai piani, ai sogni o alle aspettative – lascia andare tutto. Conserva le forze per nuotare con la marea. La scelta di combattere ciò che hai ora di fronte avrà come risultato solo fatica, paura e tentativi disperati di fuggire da quella stessa energia che tanto desideri. Lascia andare. Danna Faulds[/box]

Aggrapparsi nel corpo e nella mente

Spesso pensiamo che quello che accade nel corpo e quello che accade nella mente non abbiano nessuna relazione. E’ un pensiero che nasce dalla nostra separazione tra corpo e mente. Se ristabiliamo l’originario senso di unità possiamo accorgerci che i movimenti sono speculari a ciò che proviamo mentalmente. Nutrono e sostengono le nostre idee e i nostri pensieri.

Aggrapparsi è uno dei movimenti che è più facile cogliere nella sua connessione corpo-mente ed è uno dei movimenti antagonisti al lasciar andare. Lasciar andare è praticare l’instabilità: aggrapparsi è cercare di bloccare il flusso

Quando non possiamo avere ciò che desideriamo la tensione dell’insoddisfazione perdura. Questo aggrapparsi accade sia per qualcosa che ci piace che per qualcosa che non ci piace. Se ci piace non vorremmo che finisse, se non ci piace non accettiamo che sia andata così e ci aggrappiamo all’idea di modificarlo. Ci aggrappiamo internamente ed esternamente e non solo come risultato del momento che viviamo, piacevole o spiacevole. E’ il risultato anche di tutti i momenti passati di piacere e dispiacere. Impariamo ad aggrapparci come estensione del nostro desiderio di sicurezza e l’alimentiamo con la nostra determinazione e volontà, con la fatica che abbiamo ad accettare che le cose siano come sono.

Nutriamo l’illusione che insistendo, aggrappandoci al nostro desiderio di ottenere un risultato, ci sarà possibile cambiare l’esito delle cose.

Possiamo sentire la fatica che comporta più facilmente se portiamo l’attenzione al corpo, alla morsa dei denti, alla tensione della fronte, delle spalle, del diaframma, delle mani e dei piedi. Queste nostre mani spesso tese come se fossimo aggrappati ad una fune. O piegate come se avessimo dei guantoni da boxe. Questi nostri piedi arroccati come se fossimo pappagalli sul trespolo. Poggiati a terra il minimo indispensabile.

La volontà non scioglie la nostra tendenza ad aggrapparci: solo la tenerezza la raggiunge. Solo la tenerezza ha la saggezza del lasciar andare e la saggezza del riconoscere i limiti. Solo la tenerezza sorride alla nostra prepotenza e guarda avanti, senza lottare.

Due note sul corpo per amore di Lowen

Lowen ha scritto delle pagine bellissime sul lavoro corporeo connesso all’aggrapparsi: uno dei cinque movimenti primari. In effetti aggrapparsi è un movimento tanto primario che è collegato ad un riflesso neuro-fisiologico: il riflesso di Moro. Quando eravamo dei primati sapersi aggrappare – fin dalla nascita – era fondamentale per non cadere nel vuoto e per rimanere a contatto con la madre anche durante i suoi spostamenti. Come dicevo prima però questo non riguarda solo il corpo. O meglio, il corpo dà forma alla mente e quindi se passiamo troppo tempo ad aggrapparci questo diventa uno schema automatico di risposta del corpo – mente. Una modalità che, per Lowen, è associata principalmente al carattere orale.

L’aggrapparsi è connesso al nostro orientamento primario a cercare il piacere e fuggire il dolore: un orientamento che organizza le nostre difese con cinque movimenti basilari che sono tenersi insieme, aggrapparsi, tenere dentro, tenersi sopra e tenersi indietro

Le cose, sull’argomento del piacere, si complicano un po’ quando insorgono le difese. il piacere infatti è strettamente connesso all’esperienza del fluire delle cose, dello scorrere senza interruzioni ma le nostre difese sono, di fatto, delle forme di controllo che limitano proprio il fluire. Ci troviamo quindi in una situazione paradossale: ci aggrappiamo per paura di perdere il piacere o per paura di provare dolore ma questo stesso aggrapparci limita la possibilità di provare piacere. Inoltre il piacere è connesso al protendersi e non possiamo protenderci e, contemporaneamente, stare aggrappati. Ed iniziamo così il conflitto e l’ambivalenza. Vogliamo ma non vogliamo, ci piacerebbe ma abbiamo paura. Vorremmo fare il primo passo ma siamo spaventati dal vuoto. Ecco perchè il movimento dell’aikido che citavo prima è tanto importante: permette che le tre fasi del lasciar andare avvengano.

Il processo del lasciar andare

Quando siamo aggrappati a qualcosa siamo anche, ironicamente, molto competenti. Conosciamo bene il nostro dolore, le nostre difficoltà, ciò che vogliamo. Più siamo aggrappati a qualcosa o a qualcuno, con la convinzione che ci protegga dai pericoli, o che ci garantisca la felicità, più siamo competenti in quella situazione. Anche perchè è una situazione statica. Lasciar andare comporta un rischio – un rischio squisito – non sapere esattamente cosa succederà.

Perché lasciar andare presuppone tre fasi (belle come una danza): aprirsi, protendersi ed entrare in contatto, in intimità con il presente. Non basta aprirsi – aprire le mani, aprire il cuore, aprire la mente – ci vuole anche l’intenzione di esserci, espressa da una protensione – impercettibile  o ampia – perchè avvenga quell’intimità con il presente che nasce dal contatto. Lasciar andare è tutt’altro che un atto statico: è incontrare l’inevitabile cambiamento che avviene quando ci apriamo al vuoto. Perchè la prima cosa che incontriamo lasciando andare è il vuoto e la sua assoluta novità. Torniamo dei principianti, perdiamo le storie già costruite, le narrazioni con le quali ci siamo identificati. Siamo Indiana Jones che vuole arrivare al Sacro Graal; per farlo il primo passo è nel vuoto. È quel primo passo che ci mostra la strada. Senza correre il rischio di cadere nel vuoto la strada non si rivela, la novità non arriva.

Se non corriamo il rischio di tornare dei principianti, se rimaniamo aggrappati alla nostra competenza, il prezzo che paghiamo è quello di frenare la nostra crescita e ostacolare la nostra fioritura. Ecco perchè i momenti più difficili della nostra vita sono, molto spesso, importanti punti di svolta. In quei momenti raccogliamo il coraggio per lasciar andare perchè quello che abbiamo non ci sembra più così interessante. Non ci sembra più così salvifico da rimanerci aggrappati.

Il disarmo della tenerezza

Questo tornare principianti ci rende dis-armati. Non solo perchè abbiamo lasciato andare, non solo perchè ci siamo permessi di sciogliere e fluire. È proprio perchè non sappiamo prima quello che succederà dopo che può emergere un senso di tenerezza rispetto a quello che accade

[box] Chi è tenero non vuole farcela a tutti i costi, vuole sentire come sta e sentire come stanno gli altri, è sorella e fratello, non è genitore, non è maestro. La tenerezza sa stare alla pari, fianco a fianco, non è frontale. Chandra Livia Candiani[/box]

E se, alla fine, non fosse proprio la tenerezza quella che perdiamo quando non lasciamo andare?

© Nicoletta Cinotti 2017

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Quello che gli altri non sanno di noi: il nostro linguaggio nascosto

06/11/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Siamo abituati a pensare che il linguaggio, le parole, siano un terreno condiviso. Se dico “mela” tutti capiscono che sto parlando di un frutto, anche se non tutti pensano alla stessa qualità di mela. Le cose si complicano però quando, oltre a ciò che viene detto, cerchiamo quello che viene compreso.

Perchè ognuno di noi, rispetto a quello che viene detto, fa una sorta di connessione interiore e lo inserisce in quello che già conosce sull’argomento. Quel significato interno rimane implicito, nascosto. Eppure è quello che fa la differenza nelle cose. Facciamo un esempio: “Marco non verrà a cena” afferma la padrona di casa ai suoi ospiti. Può darsi che lei pensi “meno male che non viene visto che è vegano“, può darsi che suo marito pensi ” forse si è offeso perchè l’ho battuto a tennis“. Può darsi che la loro amica pensi “ non è venuto perchè sapeva che c’ero anch’io“. Ognuna delle tre persone – a partire dalla stessa comunicazione – ha associato tre cose diverse e si comporterà in relazione alle tre cose diverse – assolutamente non dette – che ha associato.

Il punto è che funzioniamo così – con il nostro linguaggio nascosto – su tutto e che questo costruisce, dentro di noi, un mondo che gli altri non conoscono ( e che la  Relational FrameTheory cerca di spiegare) e a volte nemmeno noi.

Il fatto che non lo sappiamo nemmeno noi – che non ne siamo consapevoli – fa sì che finiamo per vivere in un mondo che gli altri non vedono, per avere paure che gli altri non comprendono e problemi che molto probabilmente esistono solo nella nostra mente. Finiamo per vivere nel mondo costruito dai nostri pensieri e alimentato dal nostro linguaggio interiore. Poi andiamo in psicoterapia e raccontiamo il nostro linguaggio interiore come se fosse una realtà e così, spesso, rinforziamo le nostre convinzioni proprio attraverso ciò che dovrebbe curarle. Insomma una serie di fraintendimenti ci imprigionano anziché aprirci. Ci soffocano e ci impediscono di vedere le cose per quello che sono: Marco non è venuto a cena!

Abbiamo bisogno di partire da lì: Marco non è venuto a cena significa sospendere il giudizio.

Marco non è venuto a cena significa riconoscere che significato interiore attribuiamo a ciò che è accaduto, ricordando che è il nostro significato e non la realtà: i pensieri non sono fatti.

Marco non è venuto a cena significa riconoscere che abbiamo convinzioni paradossali: sono i nostri schemi disfunzionali di risposta.

Marco non è venuto a cena: possiamo imparare a lasciar andare e non rimuginare

Troppo complicato? Va bene: iniziamo dal riconoscere a che categoria appartengono i nostri pensieri e rimaniamo ancorati alla realtà: soffriremo solo per quello che accade davvero!

Ci ricordiamo deliberatamente che non c’è ragione di irritarci con noi stessi perchè la nostra mente è costantemente occupata a giudicare o perchè ci sentiamo tesi, agitati o spaventati o perchè pratichiamo già da un po’ senza aver ottenuto risultati. Jon Kabat Zinn

Pratica di mindfulness: Il panorama della mente (File audio di pratica)

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