Mindfulness: 56 giorni per la felicità
Lasciar andare e non rimuginare
“La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non cercare di resistere a questi cambiamenti. Resistere crea solo dolore. Lascia che la realtà sia la realtà e che le cose prendano il loro corso naturale.” –Lao-Tzu
Lasciar andare è un monito che, nel tempo, è diventato quasi uno slogan. Declinarne il significato ci aiuta a far chiarezza rispetto alle tante sfumature che questa parola può assumere. Certamente non è un invito alla superficialità: è piuttosto un invito a lasciare che il dolore e la gioia abbiano il loro corso naturale.
Molto spesso cerchiamo di trattenere il piacere come se non avessimo più fiducia che potrebbe ripresentarsi. Oppure rimuginiamo in continuazione su un’offesa riattivando così ripetutamente le emozioni ad essa connesse e prolungando la ferita nel tempo.
La pratica di mindfulness incoraggia a fare l’opposto: a fare in modo che non sorgano condizioni negative e a lasciarle andare con semplicità quando sorgono; a sostenere e promuovere la possibilità che emergano stati mentali positivi. Tutto espresso con semplicità nella frase di Thich Nath Hahn che già conosciamo “E’ a causa della natura impermanente del dolore che possiamo trasformarlo. E’ a causa della natura impermanente della felicità che possiamo nutrirla”.
Lasciar andare e non rimuginare
Mi occupo da sempre di depressione: non è solo per professione ma anche per familiarità. Mi è familiare fin dall’infanzia, quando studiavo il viso di mia madre per capire come andava. O quando mi alzavo appena si alzava lei – all’alba – per prendere l’odore del giorno. Credo che una parte dell’amore che avevo per mia madre sia osmoticamente fluito nella passione con cui mi occupo di depressione.
Una delle frasi tipiche della mia professione è che diventiamo psicoterapeuti per salvare i nostri genitori. Io non volevo salvarla ma almeno capirla. Devo a questo desiderio la costanza con cui studio, la diffidenza nei confronti dello scoraggiamento, la reticenza a dire ad un paziente che non posso seguirlo. La fatica a rinunciare alla cura.
La depressione è la malattia del “non lasciar andare”. Avviene un evento negativo – piccolo o grande che sia – e con la depressione, anziché sciogliersi, il dolore si solidifica e diventa un tormento e una ruminazione. Questo tormento e questa ruminazione non sono solo una difficoltà, visto che offrono quella profondità che permette, talora, l’accesso alla radice della creatività. Ma portano a perdere il senso delle proporzioni e, soprattutto, il senso dello scorrere della vita, delle cose, delle emozioni. In qualche modo congelano il passato e lo trasformano in un eterno presente.
Mia madre è rimasta tutta la vita dentro ad un bombardamento, di quella guerra che ha segnato la morte in massa dei civili: una morte di civili che continua tuttora in tante e diverse parti del mondo. Nessuno dei miei spettacoli d’arte varia l’ha mai veramente distolta da quel passato ma io ho imparato a conoscere le sue sfumature e a dosare distanza e vicinanza con rispetto per lei e per me. E accettato che non la conoscerò mai davvero.
La depressione, l’illusione e la felicità
Negli approcci psicoterapici classici la depressione è messa in relazione con un lutto primario che si riacutizza in occasione di perdite successive. Lowen e l’analisi bioenergetica, accettano questa posizione ma affermano che la depressione è, primariamente, il frutto del crollo di una illusione. E che la rimuginazione e il non lasciar andare altro non sono che il tentativo di rendere reale quell’illusione e di non arrendersi alla verità dei fatti. Un tentativo che viene rinforzato dallo strutturarsi di una posizione corporea ed energetica. Senza la possibilità di cambiare il corpo, i tentativi di uscire dalla depressione sono indeboliti.
Costruiamo delle illusioni che sono una promessa di felicità futura o un tentativo di negare una realtà dolorosa. Nascono da un desiderio compensativo di quello che è stato il tradimento di uno dei nostri diritti di base: il diritto di essere amato, il diritto di essere autonomo, il diritto di essere rispettati e il diritto alla propria sessualità. Ci illudiamo che – se saremo “bravi”(qualunque sia il significato che assume per noi questa parola) – questo diritto e questa promessa di felicità si realizzeranno. Attorno a questo diritto negato strutturiamo un insieme di contrazioni corporee che sono difensive ed espressive di questo desiderio. Anche qui mindfulness e bioenergetica usano un termine comune: ci aggrappiamo a queste illusioni, a questi hang ups, e quando l’illusione crolla crolliamo anche noi, entrando in depressione. Queste illusioni sono strettamente in relazione con la nostra struttura caratteriale – e quindi con il nostro corpo – e, una volta illuminate dalla realtà – rivelano tutta la loro incapacità di renderci felici. Ci fanno sentire ancora di più in trappola. Il problema è che le nostre illusioni costruiscono concetti solidi della vita e ci lasciano immobili. Sulla riva della nostra esistenza.
Lasciar andare implica non continuare a desiderare quello che vogliamo ottenere e non rimanere legati a quello che già abbiamo, o semplicemente a quel che pensiamo di dover avere. Lasciar andare significa anche non rimanere ancorati a quel che odiamo, a quello verso cui proviamo una fortissima avversione. Jon Kabat Zinn
Pema Chodron, una insegnante di meditazione molto nota, usa la metafora del fiume per esprimere la differenza tra fluire e rimanere arroccati nelle proprie posizioni. La nostra ricerca di sicurezza ci lascia immobili sulla riva mentre la vita vera scorre. Tanto più riusciamo a vincere la paura, tanto più siamo in grado di stare nel flusso, al centro del fiume, e permettiamo che avvenga il cambiamento, che dichiariamo di desiderare ma che, molto spesso, ostacoliamo con le nostre contrazioni, con il nostro controllo. Le difese che costruiamo ci mettono al sicuro – sulla riva – ma ci lasciano anche fuori dal flusso e dalla possibilità di lasciar andare.
Costruire tante strutture
Il nostro lavoro ha una struttura, così come le nostre relazioni, il nostro giro di frequentazioni, le nostre modalità di relazione e la nostra agenda. La struttura è necessaria a darci sicurezza e a garantirci crescita ma nello stesso tempo può ancorarci troppo sulla riva e spingerci a provare rabbia, frustrazione e stress rispetto a ciò che sfugge al nostro controllo. Lasciar andare è strettamente connesso al non trasformare il nostro dolore in sofferenza: la sofferenza della delusione.
In questo senso cosa significa andare con il flusso? Significa accettare le cose che arrivano senza entrare in una modalità reattiva. Prendere la vita per quello che offre piuttosto che cercare di modificarla in modo che ti dia esattamente quello che desideri. Significa non affrettarsi a dire e a pensare che qualcosa è negativo o positivo ma sperimentarlo con apertura e curiosità.
“Scorri con ciò che accade e lascia che la tua mente sia libera. Rimani centrato e accetta qualsiasi cosa tu stia facendo. Questo è la massima realizzazione.” – Chuang Tzu
C’è un vademecum del lasciar andare?
Credo che, teoricamente, possiamo comprendere la bontà del lasciar scorrere perché la mente sia libera di cogliere e accogliere il presente, la sua novità. Realizzarlo però è tutt’altro che semplice. Così ho pensato di condividere quegli appunti che sono nati via via, dalle mie meditazioni sul lasciar andare. Non sono tanto organici ma sono abbastanza vissuti da essere, spero, facilmente comprensibili.
La prima scoperta sull’argomento lasciar andare è stato il corpo: difficile lasciar andare quando qualcosa è contratto e aggrappato. Perché ad una contrazione corporea corrisponde inevitabilmente una contrazione mentale. Così l’aspetto del corpo nella mindfulness e nei protocolli è tutt’altro che secondario. Quando lavoriamo bene con il corpo otteniamo una mente sgombra – almeno per un po’ di tempo – proprio perché abbiamo lasciato andare la tensione. Ovviamente per lasciar andare è necessario un passaggio: occorre prima sentire e questo non è sempre facile. Così svegliare il corpo è il primo elemento del lasciar andare e cedere, anziché contrarre, il secondo.
Possiamo davvero controllare?
La contrazione corporea nutre una illusione: quella del controllo, grande antagonista del lasciar andare. Quando desideriamo avere precisione tendiamo l’attenzione e tendiamo il corpo. Spesso questo diventa contrazione. Abbiamo effettivamente bisogno di precisione molte volte. Di quello che Kabat Zinn chiama “calibrare gli strumenti” ma, come dice spesso, è necessaria una certa quota di gentilezza perché questa precisione e questo calibrare gli strumenti non diventino controllo. La distinzione in alcuni casi è quella espressa con eleganza da Lowen, tra padronanza e controllo. La padronanza ci permette di sentire che stiamo esprimendo una nostra capacità e che non ne siamo trascinati. Il controllo assume invece il dominio dell’azione e diventa un atto di prepotenza, tanto più prepotente quanto più è nutrito da self control. La padronanza è una forma dell’espressione di sé e ci porta quindi in quel dominio dell’essere che accompagna la nostra pratica. Il controllo è attività e fare incessante.
Abbandonare questa illusione non è facile perché nasce dalla paura e dalle forme sottili che la paura assume. Dietro al mio alzarmi, appena sentivo mia madre muoversi, non c’era solo il desiderio di strappare un tempo tutto nostro, quando gli altri della famiglia ancora dormivano. In quel tempo segreto c’era anche la paura che stesse male, che fosse triste o nervosa. C’era il desiderio di evitare “la catastrofe” o di prepararsi ad affrontarla per tempo. Così abbandonare il controllo nei confronti di mio figlio e del suo diverso modo di muoversi nel mondo è stato andare incontro ai fremiti della mia paura e accorgermi di quante sfumature avesse: dall’indifferenza all’azione, dalla velocità al distacco. Ri-conoscerla è stato il primo atto di vero coraggio che ho fatto. E allentando il controllo – stavo scrivendo smettendo ma non so quanto sia vero – potevo permettermi di risentire per entrambi – mia madre e mio figlio – quella bellissima declinazione dell’amore che il controllo strangola: la tenerezza.
Forse la tenerezza è davvero il sentimento che scioglie la rigidità del corpo. Per me più ancora del cedere. Perché in quell’abbandono e in quell’abbraccio si mantiene quel contatto e quel riconoscersi che vado cercando. Nicla Vassallo, filosofa della conoscenza, in una delle sue interviste dice che l’uomo è tale non perché ha il linguaggio ma perché esercita una funzione di conoscenza. Questo per me è verissimo con la sfumatura delle tenerezza e della gentilezza. Altrimenti la conoscenza mi fa paura e mi isola. Così entrare in dialogo con il controllo è un altro passo del mio lasciar andare che si accompagna al conoscere come atto di esperienza che comprende l’abbandono alla mutevolezza e al cambiamento
Se abbiamo intenzione di usare la mente per osservarla e familiarizzare con essa e, infine, arrivare a comprenderla, dobbiamo anzitutto imparare i rudimenti necessari e stabilizzarla, così che possa prestare attenzione in modo stabile e costante nel tempo, fino a diventare consapevole di quel che accade sotto la superficie della sua attività. Jon Kabat Zinn
Il respiro: uno spazio poetico ma non lirico
Il ritmo del respiro è un continuo rimando al lasciar andare. Senza una buona espirazione finiamo soffocati e per quanto possiamo trattenere, prima o poi abbiamo bisogno di cedere al lasciar andare dell’espirazione. Vero è che abbiamo infiniti modi per trattenere il respiro e che, come giustamente dicevano Reich e Lowen, questi modi hanno uno scopo essenziale: limitare il sentire. Così riportare l’attenzione al respiro, senza correggerlo o modificarlo, è davvero l’alfabetizzazione del lasciar andare, l’alfabetizzazione al sentire nuovamente. Promuove la consapevolezza in modo poetico ma non lirico: ci mette di fronte ai nostri ostacoli e alle nostre interruzioni. Ci permette di rallentare innescando il passaggio dall’attività simpatica all’attività parasimpatica del Sistema Nervoso Autonomo: questo rallentamento permette i processi di consapevolezza. Il respiro è un’ottima metafora del lasciar andare e dell’essere consapevoli. Infatti è un atto involontario – non possiamo decidere di non respirare – che può essere volontariamente modificato. Così, semplicemente respirando, pratichiamo in ogni momento il lasciar andare. Illuminazione banale che ha reso la mia pratica confortante per moltissimo tempo. Mi confortava perché lasciavo andare il controllo, la paura, la rabbia, gli stereotipi, le narrazioni precostituite e altre cose ancora. Senza bisogno di pratica formale, in ogni momento.
La mindfulness è una modalità dell’essere che richiede un lavoro costante. E’ una disciplina che già di suo si estende a tutti gli aspetti della vita, contemporaneamente al suo svolgimento. Jon Kabat Zinn
Riderci sopra
Tutti noi abbiamo paure irrazionali. Io non amavo il mare sabbioso perché avevo paura delle tracine, pesci con spina velenosa sul dorso che si nascondono sotto la sabbia e che possono pungere chi li calpesta. Da specificare che non sono mai stata punta da una tracina, comunque, per prudenza, sceglievo se possibile gli scogli, oppure, se ero in spiaggia, iniziavo a nuotare praticamente dalla riva, con scene che, già di per se stesse, erano piuttosto comiche.
Il top sull’argomento fu raggiunto durante una vacanza in Corsica. Degli amici avevano un gommone che, nell’intenzione della compagnia, avrebbe garantito pesce fresco tutti i giorni. In realtà credo che riuscissimo a pescare solo i pesci che avevano già scelto, di loro iniziativa, di morire. Ma questo andava bene. Se non che, durante una di queste uscite di pesca saltò, quasi di sua iniziativa, dentro il gommone, una tracina. Al mio grido “la tracina!” seguì il delirio nel piccolo equipaggio di uomini, donne e bambini. Un assalto di pirati avrebbe avuto meno conseguenze. Non so se tutti avessero terrore delle tracine o se fosse stata l’intensità del mio grido a produrre quel caos. Risi così tanto che da allora non riesco più a prendere sul serio la mia paura. Il nostro equipaggio sostituì il più tradizionale “All’arrembaggio” con “Alla tracina!” suscitando sempre una incontenibile ilarità.
Questo sguardo comico nei confronti di ciò che accade mi ha aiutato tantissimo. A volte domandarmi “Come vedrò questa cosa tra un giorno, una settimana, il prossimo anno?” è stato sufficiente per ristabilire una prospettiva più adeguata e lasciar andare con più semplicità. So che la mia tendenza a scherzare può risultare fastidiosa ma il gioco, per me, vale la candela.
La legge dell’impermanenza è una legge di armonia. Jack Kornfield
La lettera nella bottiglia
Nei libri che leggevo nell’infanzia compariva spesso il messaggio chiuso nella bottiglia e affidato al mare. Oggi questo mezzo sembra scomparso, forse sostituito dal vuoto virtuale della rete. In ogni caso questa è una delle ragioni per cui scrivo e una delle cose che mi aiutano di più a lasciar andare. Non ho capito bene perché ma ci sono dei pensieri che, fino a che non li scrivo, compaiono ripetutamente. Alla fine, una volta scritti, avviene un piccolo miracolo, formano catene associative, concetti e approfondimenti che, se non avessi praticato la scrittura, non sarebbero avvenuti. Non sono un’esperta di scrittura ma farlo mi aiuta a riflettere e riflettere mi aiuta a lasciar andare. Leggere è un altro tipo di processo riflessivo per me, più simile al mantenere l’attenzione, al fare una inspirazione. Mentre scrivere mi mette in uno stato, anche mentale, di flusso. Non so se questo valga per tutti e credo che la scuola possa avere qualche responsabilità rispetto al nostro atteggiamento nei confronti della lettura e della scrittura. Per alcune persone l’idea di scrivere è come prendere una medicina amara che è meglio evitare. Per me è paragonabile al camminare, che è l’altra pratica, di questo vademecum sul lasciar andare.
La meditazione camminata è un invito fortissimo al lasciar andare, soprattutto quando, finito il breve tratto prescelto di cammino, mi giro e, con un piccolo movimento, tutto lo scenario cambia. Rimango sempre sorpresa dalla forza di quella semplice rotazione della prospettiva. Un attimo e niente di quello che vedevo prima sembra esistere ancora. Tutto lasciato alle spalle. Quello è un momento di imperscrutabile felicità.
Nulla è diverso e tuttavia tutto è diverso; perché c’è stata una rotazione nel nostro modo di osservare, nel nostro modo di essere, nel nostro modo di sapere. Jon Kabat Zinn
© Nicoletta Cinotti 2015
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Quello che per te avviene con la scrittura, in me avviene con l’espressione artistica…come spiegarlo? grazie per le tue parole…
Da piccoli non si hanno gli strumenti per capire i genitori. Non possiamo. Da grandi, nella mia esperienza, neanche. Ma possiamo capire i genitori che abbiamo dentro, quelli che sono diventati sangue del nostro sangue. Quelli che ci fanno rimanere sulla riva del fiume perché “è troppo pericoloso”. Ma anche quelli che ci vogliono bene e che vogliono che ci tuffiamo solo quando siamo pronti, quando siamo sicuri. Quando non ci lasceremo travolgere, ma nuoteremo nella direzione della corrente. Grazie Nicoletta per la tua presenza quotidiana.