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mindfulness per bambini

Due viaggiatori

10/09/2023 by nicoletta cinotti

Ci sono sempre due viaggiatori?

Quante volte abbiamo l’impressione che ci sia una parte di noi che rema contro? Quante volte ci ritroviamo ad auto-sabotarci con una piccola – o almeno apparentemente piccola – dimenticanza? Moltissime volte, almeno per me. Volte in cui ho perso un biglietto aereo, altre in cui ho perso le chiavi (le mie chiavi sono distribuite in almeno 5 posti diversi tra amici, parenti e vicini). Perché succede? Perché siamo consapevoli del gioco che vogliamo giocare con la volontà ma non sempre siamo consapevoli di quello che vuole la nostra parte interiore: quella che va in ansia. Quella che ripete sempre gli stessi errori. Quella che vorrebbe essere vista ma che ha, anche, paura di mostrarsi.

Così potremmo facilmente dire, in molte occasioni, che ci sono due viaggiatori. Uno va avanti e l’altro indietro. Uno o una fa il gioco della volontà e l’altro o l’altra fa il gioco inconscio. E che, spesso, non sappiamo chi ci rappresenta di più. A volte ci sabotiamo con la volontà, altre volte con l’inconscio.

Ma come mai ci sono due viaggiatori? E, soprattutto, ci sono sempre due viaggiatori?

La voce autocritica

Non so se avete mai osservato che i bambini danno voce ai loro personaggi. A volte si raccontano che cosa stanno facendo. Lo fanno perché c’è una parte più grande che guida un’altra parte che sta crescendo. La parte “grande” ha spesso le sembianze del genitore interno. Le regole di quel genitore magari non sono ancora le regole del bambino ma lui le sta introiettando e se le ripete così, dando voce ai personaggi del gioco. O raccontandosi sommessamente cosa deve fare. Per gli adulti a volte è così, anche se sono cresciuti. Solo che, nello sviluppo, questa voce interna è diventata una voce che fa parlare il nostro caro, vecchio Super-Io. La parte doveristica di noi, che è sempre un po’ più severa  o crudele di quello che sarebbe necessario. A questo dobbiamo aggiungere un altro aspetto di divisione: spesso separiamo la mente dal corpo. Lo facciamo per essere più produttivi. A volte impariamo a farlo per trattare il dolore emotivo che, altrimenti, potrebbe essere troppo intenso. Altre volte lo facciamo perché mettiamo su il nostro caro, vecchio, pilota automatico.

Insomma è quasi certo al 100% che i viaggiatori sono almeno due. A volte anche più di due. La buona notizia però è che non dobbiamo ridurli ad uno. Non c’è bisogno di scegliere tra un giocatore e l’altro. Basta essere consapevoli della presenza di entrambi e, soprattutto, smettere di usare l’autocritica per imparare qualcosa di nuovo. È un metodo che non funziona: è ufficiale

 Costruiamo muri dietro ai quali nascondersi, per proteggerci dall’essere feriti, per tenere dentro il nostro dolore. Sfortunatamente questi muri ci imprigionano. Alexander Lowen

È un metodo che non funziona: è ufficiale

La nostra fiducia nel rimprovero, nell’autocritica è molto alta. Eppure non funziona per una semplice ragione. Perché parte dall’idea di cancellare qualcosa che esiste. E cancellare qualcosa che esiste è molto dispendioso, spesso inutile e superfluo. Perché quello che esiste si ribella e vuole essere visto e sentito. Vuole tornare a farsi vivo. Molto meglio partire da quello che esiste e chiedere che cosa vuole dirci. E, forse, accettare che la direzione non può essere sempre e solo dettata dalla volontà ma, anche, dalla spontaneità. Quello che viene spontaneo non sempre è da correggere. Spesso è da seguire per comprendere la direzione naturale di crescita.

In questo senso Lowen mette una distinzione fondamentale tra sforzarsi e fluire. Quello che facciamo con sforzo è retto dalla volontà, quello che facciamo con spontaneità ha la qualità del fluire. Andiamo con ordine però: come possiamo imparare a partire da quello che ci viene spontaneo, senza diventare stupidamente spontaneisti?

Quando un’attività ha la qualità del fluire appartiene all’essere. Quando ha la qualità dello spingere appartiene al fare. […] Un’attività che per essere svolta richiede una pressione è dolorosa perché […] impone uno sforzo cosciente grazie all’uso della volontà”.Alexander Lowen

Imparare da quello che ci viene spontaneo?

Intanto credo sia utile fare una precisazione: spontaneo può voler dire molte cose. Alcune salutari e altre poco salutari. Ci può venir spontaneo fumare, anche se sappiamo che ci fa male. Oppure ci può venire spontaneo abbuffarci di cibo quando siamo nervosi, anche se ci fa male. Quindi sappiamo che possiamo avere comportamenti spontanei che non vorremmo e comportamenti volontari che invece preferiamo: per esempio possiamo preferire quando stiamo a dieta o quando riusciamo a smettere di fumare. Come imparare allora a partire dagli aspetti spontanei anziché dalla volontà?

Con piccoli passi: 4 per la precisione

a) Osservare quello che c’è senza giudicare. Non c’è cambiamento possibile se non sappiamo dove siamo: ecco perchè la mappa è importante. A volte siamo poco sinceri con noi stessi, ci diciamo che siamo arrivati e invece non siamo nemmeno partiti. Ci raccontiamo tante cose per proteggerci dagli attacchi dell’autocritica e così non cambiamo proprio perché non siamo in grado di dire dove siamo esattamente con precisione e gentilezza. La precisione serve per essere onesti e la gentilezza per non diventare autocritici.

b) Mettere l’intenzione: vorremmo cambiare ma facciamo fatica a definire la direzione del nostro cambiamento. Mettere l’intenzione è un modo per identificare che direzione vorremmo dare al nostro cambiamento. Più la nostra intenzione è definita, più ci è possibile convogliare le nostre energie. Mettere l’intenzione però – precisazione necessaria – non significa lottare per un risultato. Significa piuttosto riconoscere che noi possiamo desiderare un risultato ma poi dobbiamo sapere che le cose possono prendere una piega diversa, significa mettere in dialogo la realtà con il nostro desiderio.

c) Esercizio e flusso: imparare dall’esperienza. È meglio esercitarsi tanto per cambiare o è meglio coltivare un diverso atteggiamento e fidarsi che il cambiamento arriverà spontaneamente? Questo aspetto è tanto importante che gli dedichiamo il prossimo paragrafo, quello intitolato Grazie e Grinta

d)Seguire il processo: il cambiamento non è un atto unico ma un processo e quindi dobbiamo ripartire dall’osservare gli avanzamenti e le pause, o anche i ritorni indietro, senza giudicarli ma con l’intenzione di imparare dal processo la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.

Grazia e grinta

Come forse avrai capito amo lo sport. È una malattia di famiglia. Tanto di famiglia che, qualche anno fa, mio nipote ebbe una sincope da over-training. Cosa vuol dire? Vuol dire che allenarsi è importante ma che, se esageriamo, entriamo in stress e questo non porta molto lontano. Porta ad uno stress nocivo proprio come tutti gli altri stress. Diversi miei pazienti hanno avuto micro-fratture da stress: l’osso reagisce al sovraccarico di allenamento con una micro fratturazione. Eppure allenarsi è importante. Ma che relazione ci può essere tra l’allenamento e il fluire?

L’allenamento è certamente la base, quotidiana. non solo per gli sportivi ma per chiunque voglia imparare una nuova abilità. Il flusso però è quella condizione in cui, siamo così liberi nella mente, che quello che abbiamo imparato fluisce con grazia. Apparentemente senza sforzo e permette un risultato in cui le nostre capacità possono esprimersi pienamente.

A volte ci sono principianti che ottengono, la prima volta, ottimi risultati. Liberi da ansia da prestazione, possono lasciar uscire pienamente le loro capacità. Nessuno si aspetta molto e loro possono divertirsi. Poi iniziano ad allenarsi e i loro risultati peggiorano. Perché l’aspettativa di un risultato crea una sorta di ansia performativa. Capita non solo per lo sport ma per tutte le nostre attività, anche per la meditazione. Quello di cui avremmo bisogno è di un allenamento regolare ma non eccessivo e mantenere la testa sgombra per poter fluire. Insomma non aggrapparsi al risultato ma onorare il processo. La grinta sta nella capacità di dire di no. La grazia sta nella capacità di dire di sì. E insieme grazia e grinta sono la nostra forza e la nostra capacità di resa: abbiamo bisogno di un  cocktail, personale, di entrambe.

Dire di sì e dire di no.

È una parola, direte voi. proprio così. Anzi due: si e no. Quando formiamo la nostra personalità lo facciamo per contrapposizione. Per questo i bambini incontrano la fase del NO. Tanto fastidiosa quanto necessaria. Il no in questione non riguarda tanto l’oggetto specifico su cui si esercita, quanto la possibilità di affermare la propria personalità. Ti dico no perché voglio che tu sappia che io esisto come entità separata da te. Ho una forza, una volontà e un desiderio. A volte i bambini lo usano a sproposito. Molte volte lo usano molto a proposito. E quel no ci permette di imparare com’è il loro carattere. Cosa fanno quando sono stanchi, cosa desiderano e cosa, invece, rifiutano. Nessun genitore può accettare tutti i NO dei bambini ma ogni buon genitore sa che deve dare al bambino la possibilità di dire No e di sapere che quel no verrà rispettato. Quando diciamo no lo accompagniamo con una tensione muscolare. Una attivazione che è tanto più forte quanto più immaginiamo che incontreremo opposizione. Ci prepariamo a combattere e quindi attiviamo i muscoli. Le persone che hanno incontrato molta opposizione – o che hanno molto desiderio di imporre la propria volontà – le vedi subito dalla loro tonicità muscolare. Una tonicità che potrebbe portare alla rigidità. E molto spesso avviene che la rigidità sia solo un muscolo ipertonico.

Dire di sì è tutta un’altra storia

Dire di sì è una storia diversa. Possiamo dire di sì perché aderiamo a quello che ci viene proposto. Perché ci piace e ci rende felice. Oppure dire di sì perché i nostri genitori hanno una personalità troppo forte per noi. Oppure perché, davvero, abbiamo paura a dire di no. In questo modo svilupperemo un’attitudine arrendevole e articolazioni flessibili. A volte troppo flessibili. Tanto flessibili che ci ritroveremo a dire e fare cose che non vorremmo giusto per compiacere. il segnale? Il tono muscolare che cede troppo facilmente.

Eppure dire sì, davvero, è bellissimo: lo è quando è fatto in piena consapevolezza. Lo è quando è autentico e sentito. È la parola più bella della cerimonia del matrimonio. Quel sì è meraviglioso perché dichiara l’accettazione che non nasce dal nostro accondiscendere, non nasce da una sconfitta ma da una scelta. Quel sì dice “ti scelgo in piena dignità e consapevolezza” (o almeno dovrebbe). Spesso rinunciamo al No per la paura che questo comporti il non essere amati. Rinunciamo a rispettare il nostro no perchè temiamo di sentirci in colpa. E allora quel sì non è accettazione ma rinuncia.

 Il primordiale senso di colpa nasce dalla sensazione di non essere amati. L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore. Alexander Lowen

Il linguaggio del corpo

In bioenergetica lavoriamo molto con queste due parole il “sì” e il “no”. Le accompagniamo con esercizi e movimenti perché hanno – forse più di ogni altra parola – una radice strettamente corporea. Spesso le persone trovano imbarazzante tornare a quei gesti, a quelle parole, a quei suoni che associano ai bambini. Preferiscono comportarsi da bambini nella vita reale, piuttosto che far crescere la loro parte bambina nella stanza della terapia. Eppure l’accettazione significa anche e soprattutto questo: partire da dove siamo e scoprire che possiamo andare in tutto il mondo!

© Nicoletta Cinotti 2023 Il protocollo MBSR online

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Spiriti affamati e sguardi da principianti

29/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono molte ragioni per cui possiamo avere fame: a volte è un fatto letterale. Altre volte però abbiamo tutto e continuiamo a sentirci affamati. Di una fame che il cibo non sazia. E che il successo non colma.

È la fame di contatto, di relazioni nutrienti. Di sentimenti autentici. Quella fame che, a volte, ci porta alla spasmodica ricerca di nuove relazioni. Nella speranza che accada quello che finora non è accaduto, se non per brevi momenti: saziarci.

Non ci rendiamo conto che, perché accada, il punto non è ricevere dall’altro quello di cui abbiamo bisogno. O quello che vogliamo. Non è avere un legame inossidabile. Piuttosto è necessario accogliere l’inevitabilità del cambiamento. Se ci aggrappiamo al ricordo dei momenti piacevoli che abbiamo vissuto e cerchiamo di riprodurli, rimarremo affamati. Perché il piacere è in continuo cambiamento. E, in una relazione questa mutevolezza e imprevedibilità diventano segni che interpretiamo, spesso, troppo spesso, come ferita e fallimento.

Ogni giorno può portarci piaceri nuovi. Nessun giorno può riportarci piaceri vecchi.

Se accogliamo l’inevitabilità di questo processo che ci rende vulnerabili al nuovo, accogliamo anche il potenziale di crescita delle nostre relazioni. E diamo il benvenuto alla relazione che c’è oggi. Non cerchiamo invano quella che c’era ieri, perché altrimenti rimarremo affamati, a bocca asciutta. Con la sensazione di aver perso qualcosa anche se, invece, lo abbiamo proprio di fronte a noi.

Così ogni giorno potremo ritrovare quello spirito da principiante di quando ci siamo innamorati. Quando ogni cosa era una sorpresa perché appena ci conoscevamo. Perché ogni giorno – dentro e fuori dalla relazioni – è interamente nuovo e aspetta di essere vissuto con uno sguardo da principiante.

Il nostro sforzo è quello di aggrapparci a quello che vogliamo e alla paura di perderlo. È la tensione legata a questo aggrapparsi che produce sofferenza. Gregory Kramer

Pratica di mindfulness: Pratica di accettazione

© Nicoletta Cinotti 2023 Reparenting ourselves: Diventare genitori di sé stessi. Ritiro di bioenergetica e mindfulness

 

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La riflessione: un modo per vedere i propri film

12/12/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Parlo spesso dei pensieri: eventi mentali del momento presente che, a volte, ci trascinano in un altrove pieno di fantasmi e fantasie. Non dobbiamo certamente scacciare i pensieri né, tantomeno, diffidare dei nostri processi mentali. Abbiamo solo bisogno di riconoscere quelli che sono i nostri film e quella che è la realtà.

A volte questa distinzione non è facile perchè i nostri film hanno una grande forza di persuasione. Ci sembrano più veri della realtà. Ci sembrano la parte più intelligente e geniale di noi. Allora abbiamo bisogno di metterli alla luce della riflessione per vedere se sono davvero così reali.

Possiamo farlo immaginandoli proprio come un film. Noi al cinema, seduti in prima fila. Guardiamo il film che ci siamo fatti come spettatori seduti in prima fila. Guardiamo cosa succede a vederlo così da vicino. Poi spostiamoci a metà sala e guardiamo cosa succede vedendo lo stesso spettacolo con maggiore distanza. Forse potremmo cogliere elementi diversi che erano coperti dalla vicinanza.

E infine guardiamo lo stesso film da una posizione in fondo alla sala. Potremmo scoprire che cambia ancora la visione e la prospettiva con cui guardiamo allo stesso evento. Non è un processo di distanziamento. È l’apertura di uno spazio tra noi e i nostri pensieri. Uno spazio in cui possa avvenire la riflessione. Uno spazio in cui possiamo vedere prospettive diverse. Perchè la riflessione è l’apertura di uno spazio in cui essere liberi dalla reattività e dalla compulsione che i pensieri producono.

Così, se ci affidiamo alla riflessione, possiamo davvero sapere quanto è vero il nostro film e quanto la parte che attribuiamo agli altri sia proprio corretta. E faremo film da Oscar: quelli che nascono dalla riflessione lo sono sempre.

Qui sotto trovi una pratica guidata su questo tema: Il cinema

https://www.nicolettacinotti.net/wp-content/uploads/2016/12/Cinema.m4a

 

Il processo della riflessione ha tre fasi: il riconoscimento che significa penetrare nel proprio vissuto. L’ammissione dei propri film che significa riconoscere i propri meccanismi di difesa e la rivoluzione, quando riusciamo a cambiare il significato della nostra esperienza. Liberamente tratto da Brenè Brown

© Nicoletta Cinotti 2022 Il protocollo MBCT online. Early bird fino al 31 Dicembre

 

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Il peso del costante sforzo del controllo

12/09/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Che cosa sta iniziando ora? Che cosa finisce ora? Amiamo essere consapevoli della continuità d’esistenza eppure, anche semplicemente nel nostro respiro, qualcosa emerge, qualcosa finisce. Qualcosa di nuovo sta iniziando e qualcosa sta finendo nella nostra vita.

Per contrastare questo cambiamento non controllato creiamo molte tensioni, molti aggrappamenti, molti sforzi. Come se sapessimo che è meglio ciò che c’è già di quello che sta arrivando. Che è meglio ciò che vogliamo noi di quello che accade senza volerlo. In realtà non lo sappiamo: è solo un vuoto di fiducia che ci fa trattenere nel passato, nel conosciuto. È un vuoto di fiducia che ci spinge al controllo.

Ci spinge verso il rimanere e fa sobbalzare il cuore ogni volta che arriva un imprevisto. Ogni volta che qualcosa sfugge al nostro controllo. A volte sostituiamo questa mancanza di fiducia ripetendoci, quasi come un mantra, “Andrà tutto bene”. Ma quella non è fiducia è scaramanzia.

La fiducia è quella che ci fa incontrare lo sconosciuto con consapevolezza e accettazione. La fiducia è quella che non ci fa reprimere per avere una vita alla perfezione ma ci fa aprire all’esperienza in corso. La fiducia è quella che sostituisce la possibilità alla sicurezza e l’interesse all’illusione. La fiducia apre porte che la certezza lascia sbarrate e coglie, sotto l’apparente girare a vuoto, la ricchezza del divenire, del permettere, del lasciar essere.

In questo preciso istante invitate voi stessi a entrare nel momento senza nulla da portare a termine, senza dover essere qualcuno di speciale o dover raggiungere qualcosa. Invitate voi stessi a lasciar cadere il peso del costante sforzo di controllare le cose. Gregory Kramer

Pratica di mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2022 Mindfulness ed emozioni: laboratorio di bioenergetica e self-compassion

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I due poli tra cui oscillano le nostre emozioni

16/02/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Le emozioni che proviamo oscillano tra due poli: il corpo e la mente. Le emozioni di base – paura, gioia, tristezza, rabbia, disgusto – sono emozioni che sentiamo nel corpo in maniera più chiara, anche quando il nostro corpo è stato messo sotto silenziatore. Perchè attivano schemi muscolari che riguardano i grandi muscoli rossi legati al controllo volontario.

Ci sono però moltissime emozioni secondarie, che iniziamo a provare successivamente, dopo lo sviluppo del linguaggio verbale, che sono meno percepibili dal punto di vista corporeo e più percepite come pensieri. Sono emozioni che attivano i muscoli involontari o quelli con maggiore fibra bianca. Sono emozioni come il biasimo, il disprezzo, il senso di colpa, il senso di indegnità, il sospetto, l’impazienza e così via. La lista potrebbe essere molto lunga ma, in sintesi, potremmo dire che sono emozioni in cui è presente un elemento secondario di valutazione cognitiva. Spesso le percepiamo come pensieri di valutazione razionale o cognitiva. Tradotto vuol dire che abbiamo ragione: lo dico in senso ironico perchè la caratteristica di queste emozioni e che si accompagnano ad una spiegazione di perchè è giusta la nostra emozione e sbagliata la posizione dell’altro. Utilizzano un aspetto del pensiero critico per diventare auto-referenziali (non ho nulla contro il pensiero critico: è l’uso improprio che è pericoloso)

In questo modo l’identificazione con queste emozioni diventa molto forte e difensiva, anche perchè vengono percepite come “razionali”. Perchè sono pericolose? Perchè producono isolamento dagli altri, visto che diventano molto assorbenti. Siccome sembrano pensieri ma non sono pensieri, non hanno la volatilità e la durata delle altre emozioni: permangono più a lungo, sono ricorrenti e innescano una rimuginazione. Sono le convinzioni che stanno alla base dei nostri schemi disfunzionali di risposta. Se le emozioni corporee durano pochi minuti, queste possono durare tutta la vita e condizionare il nostro modo di stare nelle cose e nel mondo. Sono quelle che ci fanno dire che una cosa non vale niente anziché dire che non ci piace. Alimentano il rilevatore di discrepanza quello che ci fa soffrire per il dolore per ciò che non è accaduto, quello che ci fa arrabbiare perchè la realtà non è come vorremmo.Possono prendere le emozioni di base e trasformarle in una generalizzazione che va bene per tutte le cose ma che non è mai davvero aderente alla realtà.

Spacchettare queste emozioni e riconoscerle nelle loro componenti emotive, nella tonalità affettiva che le ha generate e nei processi mentali che alimentano non è facile eppure è l’unico modo per restituire le nostre emozioni alla loro dimora: il cuore. E per restituire alla nostra mente quello spazio libero da pensieri da cui nascono le buone idee.

Prima ci creiamo un’idea riguardo a come vogliamo siano le cose, o a come pensiamo che dovrebbero essere; poi le confrontiamo con la nostra idea riguardo a come le cose sono in quel preciso momento. Se risulta esservi una differenza tra come le cose sono e come vogliamo che siano diamo origine a pensieri e azioni mirati al tentativo di colmare il divario. Segal, Williams, Teasdale

Pratica di mindfulness: Il panorama della mente

© Nicoletta Cinotti 2018 Il protocollo MBSR 

Foto di © Maulamb

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La differenza tra punti difettosi e punti vulnerabili

08/01/2018 by nicoletta cinotti Lascia un commento

C’è una amica che tutte le volte che si accorge di aver sbagliato qualcosa oppure di avere un tratto di personalità disfunzionale mi chiama – un po’ come se fossi un meccanico dell’anima – e mi dice con aria preoccupata “Dobbiamo fare qualcosa”. In parte potrebbe sembrare che questo sia un sano atteggiamento riflessivo, Un modo per imparare dall’esperienza e quindi anche dagli errori.

Temo però che non sia così: temo che sia la pretesa di fare – di se stessa – un’opera perfetta. Una pretesa che non appartiene solo alla mia amica: recentemente ho abbandonato l’idea di avere una migliore curva lombare. Recentemente ho fatto la pace con la mia abitudine a stare in silenzio, anche quando sono in mezzo alle persone. Siamo tutti un po’ così: vorremmo migliorare quelli che consideriamo i nostri difetti perchè li riteniamo responsabili della nostra infelicità. Ci sembra che questo strida con il nostro impegno al miglioramento o con la responsabilità verso il cambiamento: vorremmo diventare un’opera perfetta.

Penso che ci sia una curva naturale di miglioramento e un processo auto-regolato di crescita ma non avviene su quello che vogliamo noi, con la volontà. Accade – un po’ misteriosamente – attraverso quelli che Pema Chodron chiama soft spot: i punti vulnerabili. Ecco perchè è importante considerare i nostri punti vulnerabili con tutto rispetto e distinguerli dai punti difettosi.

I punti difettosi sono punti in cui la nostra pelle è più spessa, la nostra corazza più dura. Sono le aree in cui si concentra la nostra difesa psichica e fisica. I punti vulnerabili sono quelli in cui siamo teneri, perchè la vita ci ha assottigliato. Ci ha limato come se fossimo cesellati. La nostra energia di crescita andrà lì. Lascerà forse un po’ più morbidi i punti difettosi e si muoverà verso i punti vulnerabili che sono la nostra area di sviluppo prossimale.

Così, quando cerchiamo di rafforzare la nostra vulnerabilità e di correggere i nostri difetti, rischiamo di sottrarre energia al processo naturale di cambiamento. Un processo che non è spontaneo: richiede la coltivazione della pratica. La pratica però è come un seme, cresce se lo curi ma non sai come sarà una volta spuntato: sai solo che seme hai seminato.

Avremo sempre bisogno di percorrere il processo del perdono per tutte le inadempienze relazionali che potremo fare perché non siamo infallibili e feriamo in particolare le persone che amiamo. Questa è una caratteristica ineliminabile della condizione umana. Desmond Tutu

Pratica di mindfulness: Lasciar andare (Meditazione live) Oppure ci vediamo stamattina, Lunedì 8 Gennaio alle 7.30 per la diretta FB (Clicca qui)

© Nicoletta Cinotti 2018 A scuola di grazia e non di perfezione

Foto di © Rosa Piepoli

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