Tutti noi abbiamo il desiderio di stare bene, forse anche quello di essere felici, anche se spesso la parola felicità ci sembra esagerata e non realizzabile.
Per realizzare il benessere che auspichiamo utilizziamo molte strategie: alcune consapevoli e altre inconsapevoli ma potremmo dire che il filo comune di queste diverse strategie, in fondo, è lo stesso: evitare il dolore e aggrapparci al piacere.
In fondo da qui nascono e qui terminano tutti i nostri problemi.
Aggrapparsi o evitare?
Nel corso della nostra vita impariamo delle modalità per trattare le nostre emozioni negative. Le modalità che possono produrre depressione, ansia, disturbi dell’umore o riduzione dell’affettività, sono due: aggrapparsi allo stato di benessere o ad un ideale ed entrare in allarme quando la realtà differisce dalle nostre aspettative oppure evitare le situazioni che ci producono emozioni negative e turbamento, finendo però in questo modo per restringere moltissimo il campo della nostra esperienza.
Sulla base di queste due modalità molto frequentemente costruiamo degli schemi di risposta standard.
Cosa significa?
Significa che il ripresentarsi di situazioni simili ci porta a strutturare una risposta non adeguata al momento presente ma una risposta generale che attiviamo ogni volta che accadono un certo tipo di situazioni. Queste risposte diventano spesso schemi di comportamento che producono un insieme di sensazioni fisiche, emotive e stati mentali ripetitivi che, a lungo andare hanno l’effetto di strutturare un umore costante e non collegato al presente ma collegato ad un filo rosso di eventi traumatici.
Facciamo un esempio: immaginiamo una persona che, durante l’infanzia ha avuto dei genitori emotivamente poco affidabili. Sicuramente questo non ha permesso lo sviluppo di un senso di sicurezza interiore. E’ stato indubbiamente un aspetto traumatico e problematico della propria crescita ma non significa che tutte le persone siano – allo stesso modo – imprevedibili. Il rischio è che, una volta adulto – al ripresentarsi di ogni nuova relazione – riemergano nuovamente ansie legate all’inaffidabilità emotiva e che nascano comportamenti difensivi che possono essere del tutto inadeguati per la situazione presente.
Allorché il cuore è rinchiuso in una rigida gabbia toracica, l’amore di una persona non è libero, bensì illimitato e confinato. Alexander Lowen
Insomma i nostri schemi funzionano come profezie autoavverantesi: nascono da qualcosa di vero, dopodiché li trasformiamo in qualcosa di “vero per sempre”. Ossia ci aggrappiamo a quella difesa senza riuscire a cogliere il presentarsi di situazioni nuove.
Ma questo non è l’unico modo in cui si manifesta l’aggrappamento. Non ci aggrappiamo solo a dei sistemi difensivi un po’ obsoleti, spesso ci aggrappiamo – con i pensieri – alle situazioni che ci hanno prodotto disagio, rimuginandoci sopra. Oppure ci aggrappiamo alle situazioni che ci hanno fatto piacere. L’anno passato abbiamo fatto una bellissima vacanza con una coppia d’amici? L’anno successivo ripetiamo la vacanza ma i nostri amici – oppure noi stessi – sono/siamo meno in forma, hanno avuto dei problemi oppure la località che abbiamo scelto è meno attraente. La memoria delle belle vacanze dell’anno prima rischia di essere un problema aggiuntivo. Un ideale con cui misuriamo la realtà. Anche se è passato un anno, le cose sono cambiate, vorremmo ripetere esattamente la stessa vacanza dell’anno precedente.
Evitare
Per questa ragione spesso finiamo per evitare situazioni a rischio di dolore o delusione. Saggio atteggiamento, direte voi. Non tanto visto che l’evitamento spesso comporta restrizioni anche gravi alla libertà di movimento. Possiamo arrivare a evitare gli ascensori, evitare certe persone, evitare certe situazioni, evitare certi cibi, arrivando ad avere un raggio di azione estremamente ridotto e una conseguente riduzione della vitalità emotiva. Non si tratta certo di suggerire di mangiare qualcosa a cui siamo allergici ma di affrontare il dolore alla radice, anziché evitando la situazione che ci fa entrare in contatto con il dolore stesso.
In poche parole, anziché evitare situazioni che possono deluderci perché non esplorare quali sono le illusioni che abbiamo al riguardo? Oppure, anziché evitare la paura – che è una delle emozioni che portano più evitamento – perché non affrontarla alla radice?
“Avere grounding significa essere in contatto con la realtà….Tuttavia il processo di grounding non è un compito facile. Vi sono ansie profonde che l’ostacolano…la paura che se ci si lascia andare non ci sarà nessuno a sostenerci…Chi apre il proprio cuore agli altri scopre rapidamente di non essere solo. Quasi tutti rispondono con calore ad una persona il cui cuore sia aperto. Ma per raggiungere questa apertura dell’essere, la persona deve superare le ansie che ha in relazione al senso di solitudine ed imparare così che non hanno più rilevanza.” Alexander Lowen (1972, p.35)
Questa modalità difensiva – ossia l’evitamento – spesso struttura una forte risposta ansiosa. Evitiamo qualcosa che ci fa paura ma viviamo come se fossimo in un giallo, visto che, d’improvviso, ogni cosa può far riemergere quella sensazione che vorremmo evitare.
La strada vulnerabile
Crescere significa imparare a difendersi. Abbandoniamo, con il tempo, la vulnerabilità dell’infanzia.
Ma le difese sono qualcosa di più dell’imparare a difendersi: sono barriere che rimangono sempre alzate, indipendentemente dalla loro reale necessità. Sono barriere che continuiamo, giorno dopo giorno, a rinforzare attraverso il corpo e che, progressivamente, limitano la nostra mente ricostruendo sempre le stesse risposte e riattivando sempre le stesse modalità difensive.
Le difese inoltre costruiscono dei “vuoti percettivi”, si specializzano per sentire solo alcuni stimoli ed escludono tutti gli altri, riducendo così lo spettro delle sensazioni provate.
Diventiamo così invasi da un flusso di pensieri ed emozioni relative al passato e al futuro, perdendo la vividezza dell’esperienza vissuta in prima persona, nell’attimo presente della nostra vita.
Per lavorare su questi aspetti uno degli strumenti base del protocolli mindfulness è quello di espandere la consapevolezza, per tornare, il più possibile, ad una capacità originaria di percezione degli eventi, regolando l’ansia e l’umore attraverso la consapevolezza del respiro.
Questo sostiene la capacità di notare prima possibile i segnali della ripetizione delle nostre modalità disfunzionali di regolazione emotiva e la capacità di decentrarsi rispetto ai pensieri negativi, attivando modalità di risposta che, progressivamente, indeboliscano il ripetersi di modalità difensive che, nate con la migliore intenzione, finiscono per produrre un danno maggiore del beneficio.
Il protocollo MBCT sostiene anche la capacità di lasciar andare intesa come abbandono della routine difensiva e delle rimuginazioni mentali, che, attraverso la ripetizione e il ricordo, sostengono un eccesso di difesa a scapito della possibilità del cambiamento.
Il pilota automatico
Cosa c’entra in tutto questo il pilota automatico?
Tutti noi sappiamo cosa vuol dire fare certe cose automaticamente. A volte è molto pratico poter preparare la cena senza troppa fatica, arrivare in ufficio “senza pensarci” e, come si dice spesso “andare di default” nel fare certe cose che conosciamo molto bene.
Il problema è che quando attiviamo il nostro pilota automatico nutriamo quella scissione mente/corpo che è alla base di molti dei nostri disagi emotivi.
Come sappiamo per Reich, e successivamente per Lowen, la dissociazione mente-corpo è alla base di qualsiasi fenomeno difensivo. Nella clinica psicodinamica solo in anni recenti si è venuti a riconoscere che questo livello dissociativo è più frequente di quanto si tendeva a pensare e costituisce spesso una entità subclinica presente in moltissimi disturbi.
La base di questa dissociazione è proprio quello che descrivevo prima. Stacchiamo la mente perché consideriamo banale il compito che stiamo facendo e lasciamo che il corpo lo esegua. La prima caratteristica è quindi una assenza di connessione tra la mente e il corpo e una assenza di consapevolezza rispetto a quello che viene sperimentato a livello corporeo. La nostra attenzione è interamente risucchiata dai pensieri.
Questo ci priva di molte importanti informazioni legate all’esperienza in corso e permette l’insinuarsi dei processi disfunzionali di pensiero. Quei processi legati alle nostre modalità abituali di risposta prendono automaticamente il sopravvento. Ci allontaniamo quindi dal presente della nostra esperienza per funzionare con modalità abituali pre-costituite che possono essere anche molto inadeguate rispetto al momento presente.
Riportare la consapevolezza nel corpo non è un’impresa così banale come possa sembrare. Questa dissociazione infatti è molto radicata e solo quando proviamo a tornare indietro ci rendiamo conto di quante volte , nelle nostre giornate stacchiamo l’attenzione da ciò che stiamo facendo per andare avanti in modo automatico. Questi momenti sono quelli in cui la mente vaga durante la consapevolezza del respiro, giusto per fare un esempio.
La pratica informale
E’ per questo motivo che ogni protocollo mindfulness sottolinea l’importanza della pratica informale. Lo scopo di ciascun protocollo infatti non è tanto quello di motivare alla meditazione – anche se molto spesso accade – ma quello di sviluppare una diversa modalità di essere presenti nel presente della nostra vita. Di riportare a quella conoscenza non discorsiva che è la consapevolezza.
Di trovare un modo per ridurre quella scissione di base tra il corpo e la mente che è così tipica della nostra cultura e del nostro essere abituati a dimorare nel regno del fare anzichè nel regno dell’essere.
© Nicoletta Cinotti 2014
Lascia un commento