
Meditare può dare tante gioie, ma a volte è semplicemente faticoso. Ci si deve sedere per praticare con il bello e con il cattivo tempo, quando la giornata sembra fantastica e quando davanti a noi si vede solo un mare di m. Quando le cose vanno alla grande può capitare di pensare che non ce ne sia effettivamente bisogno, tanto stiamo bene. Quando vanno male, vanno troppo male per perdere tempo a meditare, è troppo faticoso. Ma il punto della pratica non è quello di trovar la pace a comando, è quello di imparare a stare, con costanza ed equanimità, con le cose che ci circondano, così come sono nel momento. Il punto è imparare a navigare la nostra barca, che il sole splenda nel cielo o che ci sia una burrasca in corso.
Tante volte ho sentito nelle parole dei miei partecipanti – quanto nei pensieri della mia testa – l’affacciarsi della mente prestazionale. Per me funzionava in un modo abbastanza specifico e giudicante “se non mediti almeno un’ora non stare neanche a sederti”. E ci credevo. Se non faccio una meditazione di qualità non ha senso, ovvio.
Sbagliato.
Torniamo al punto di bello e cattivo tempo e riformuliamolo con “buone condizioni e cattive condizioni”. Ci sono condizioni perfette? No. La nostra mente ci prova sempre a rimandare alle future condizioni perfette, lo fa su questo, lo fa su tantissime cose. “Mediterò quando avrò almeno un’ora di tempo”. “Mi metterò a dieta lunedì”. “Domani vado in palestra, oggi non è il caso”.
Le condizioni perfette non le ho mai trovate, il punto è che ci sono delle condizioni, quelle che abbiamo a disposizione proprio in questo momento. Queste le possiamo sfruttare, le altre potrebbero tenerci in attesa anche tutta la vita. Quindi il punto è sempre lo stesso, con buone e cattive condizioni ci si siede e si pratica. Oggi possiamo 10 minuti? Per tutto il mese possiamo solo 10 minuti al giorno? È curioso come abbia usato, nella frase precedente, la parola “solo”. Suona giudicante “Solo? Ma dai”. Bene, prendiamo nota di quello che la mente fa, e continuiamo per la nostra strada. Dieci minuti al giorno siano, se quello è il tempo che possiamo dare. È con intenzione e costanza che si può imparare a stare di più, non ascoltando giudizi in varie forme, reali che sembrino.
Un altro ostacolo
Un altro ostacolo che spesso ho incontrato ha un nome inglese estremamente accattivante: speedy-busyness. Suona come speedy-business, ed è proprio il gioco di suoni che trovo affascinante. Business sta per commercio, affari, busy invece sta per impegnato, indaffarato. Questo nome indica uno stato della mente piena di affari, impegnata e indaffarata, senza possibilità di frenare. Perché gli affari vanno sbrigati subito, di fretta, non siamo mica qui a perder tempo. Sono sicuro sia una condizione in cui tutti siamo transitati, ma per renderla più chiara farò qualche esempio.
Ci svegliamo al mattino, sappiamo che c’è da sedersi e meditare per il nostro tempo. La prima cosa che facciamo però è aprire facebook, controllare se siamo finiti in qualche tag, già che ci siamo assicurarci non ci si perda qualche contenuto interessante. Poi abbiamo la colazione, prepararci per uscire e rispondere a quelle due mail lavorative. Fatto sta che alla fine non meditiamo, non abbiamo avuto il tempo. Ma lo faremo senz’altro dopo, nella pausa pranzo sappiamo già che avremo i nostri dieci minuti. La mattina si fa più lunga del previsto, magari la pausa pranzo inizia con tre minuti di ritardo, poi con una chiamata e poi una persona fastidiosamente lenta ci blocca dall’ottenere il nostro agognato panino. Vabbè, meno male che la nostra buona intenzione è salda. Quando arriveremo a casa niente potrà distoglierci. La giornata finisce, stanchi rientriamo, ci occupiamo della cena, magari qualche altra mail, convenevoli sociali, e poi non possiamo proprio esimerci da qualche minuto di meritato relax. Toh, si è fatto troppo tardi, ma non è colpa mia, non avevo tempo. Mediterò domani.
Le giustificazioni
Le giustificazioni che popolano questo stato mentale sono così credibili che il grosso delle volte non le chiamiamo neanche “giustificazioni”. Sono proprio delle verità. Ciò non toglie che siano oggetti mentali costruiti ad hoc per non metterci di fronte alla leggera sofferenza data dal “non stai facendo quello che dovresti fare, meditare”. Quindi per non finire al cospetto di quest’ultimo giudizio (un pensiero) ci prostriamo davanti ad una sfilza di giustificazioni credibili (altri pensieri). I pensieri sono una delle nostre droghe preferite, ma l’esperienza è composta da corpo, da emozioni. C’è di più. Possiamo ritornare al punto iniziale “buone condizioni/cattive condizioni”. Quello che in questi casi facciamo è rimandare perché le condizioni non sono buone. Qual è la soluzione? Prestare consapevolezza, notare di essere entrati in un loop mentale, radicarsi nel corpo e prendere atto di quello che c’è. Magari la meditazione della giornata salterà lo stesso, ma non serve massacrarsi di giudizi o fare finta di niente per non massacrarsi di giudizi. Si fa tesoro di quello che è successo, si prende nota e si rinnova l’intenzione di essere consapevoli: si continua, con costanza e pazienza, con il buono e cattivo tempo.
Siamo finalmente arrivati al punto, tre ostacoli sono stati nominati e magari voi avevate aperto questa pagina solo per sentirvi dire i tre trucchi. Ci siamo, scusate lo zelo.
Kalyanamitta
Arriviamo al punto e la prima cosa che si incontra è – magari – una parola sconosciuta. Kalyanamitta è una parola in lingua pali, composta da kalyana (che significa buono/bello) e mitta (che significa amico). “Fare amicizia con il Buono” è una delle traduzioni. Più nello specifico voglio parlare brevemente di amicizia spirituale, amicizia in quest’impresa che è la pratica, supporto in questo viaggio. Cresciamo nella relazione, ci sviluppiamo nel confronto con gli altri. Quando la relazione è stimolante e calda il nostro cervello riceve il cibo della migliore qualità. Quando è invece deprivante e dolorosa, il nostro cervello patisce terribili stenti.
Avere qualcuno con cui condividere la nostra intenzione di praticare, il nostro amore per la meditazione, è una risorsa preziosissima. Meditiamo in silenzio, rivolti all’interno, ma ci sarà capitato di farlo insieme ad altri. Abbiamo probabilmente vissuto su pelle cosa vuol dire farlo insieme a qualcuno, anche se nel silenzio. Potremmo trovare un compagno o una compagna sul posto di lavoro, qualcuno a casa, o un nostro amico o amica. Potremmo frequentare un centro che offre meditazioni di gruppo o una comunità di praticanti che ci aiuta nel sostenere i nostri intenti. La presenza di altri con questa comune e nobile intenzione ci nutre, ci sostiene.
La meditazione del ding
Per questo trucchetto devo ringraziare Lodro Rinzler, scrittore e insegnante di Dharma nella tradizione Shambala. Mettiamoci un timer, una sveglia, qualcosa che suoni ogni tot. Potrebbe essere una volta l’ora, come la nostra campana personalizzata. Niente di drammatico o cacofonico, niente che possa innescarci funesta avversione verso il mondo. Un semplice ding, pulito. Quando suona, quando ce ne accorgiamo, abbiamo l’occasione di tornare al presente, ovunque fossimo finiti. Un minuto di consapevolezza, un secondo di presenza intenzionale e poi si riprende. Un po’ alla volta spostiamo quello che facciamo sul cuscino all’interno delle nostre giornate.
Il richiamo consapevole
Scegliamo qualcosa che spesso facciamo nelle nostre giornate e la usiamo come “scusa” o ancor meglio “richiamo” per tornare consapevoli se già non lo eravamo. Potrebbe trattarsi di essere consapevoli ogni volta in cui ci alziamo o ci sediamo. Potrebbe trattarsi di essere consapevoli ogni volta in cui accendiamo o spegniamo una luce, ogni volta in cui passiamo per una porta, ogni volta in cui indossiamo o ci togliamo qualcosa. Non ci costa nulla e c’è solo di guadagnato. Guadagniamo attimi di consapevolezza per arricchire, anche se di poco, la presenza nelle nostre giornate. Siamo pieni di occasioni come queste.
©Niccolò Gorgoni Foto di ©palladipelo_75