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abbraccio

Ma che santo era San Valentino?

10/02/2018 by nicoletta cinotti

Siamo abituati a festeggiare San Valentino come festa degli innamorati. Ma come mai è stato scelto proprio lui? Valentino fu nominato vescovo giovanissimo – a 21 anni – e fu decapitato a 97 anni, proprio il 14 febbraio, per aver celebrato il matrimonio tra una giovane donna cattolica e un soldato pagano. Insomma un tipo controcorrente. E noi, in amore siamo controcorrente?

Dov’è che impariamo ad amare?

Non possiamo negare che il nostro modo di amare nasca nella nostra famiglia e, spesso, andare controcorrente e non ripetere schemi che sono stati disfunzionali non è la cosa più semplice del mondo. Perchè amare significa mettere insieme le mani anche nella struttura dei nostri desideri e delle aspettative che abbiamo rispetto alla realizzazione del desiderio.

Raramente vediamo l’amore da questo punto di vista: sappiamo che è legato al desiderio ma preferiamo concentrarci sull’aspetto della sua realizzazione o lamentarci della mancata realizzazione che guardare all’archeologia dei nostri desideri.

L’archeologia del desiderio

Cosa succedeva, da bambini, quando volevamo qualcosa? Come riuscivamo a realizzare i nostri desideri? Eravamo espliciti nelle richieste? Eravamo tormentosi nei capricci? E cosa succedeva con gli adulti significativi della nostra vita? Abbiamo imparato a chiedere o a nascondere? Abbiamo imparato la fiducia o l’ansia?

Anche se da bambini quello che chiediamo sono giocattoli o contatto fisico, consolazione o gratificazione, tutti questi elementi vanno a strutturare le nostre convinzioni su come può realizzarsi la nostra vita affettiva futura. Tendiamo, in questo, ad essere abbastanza ripetitivi. Ci aspettiamo che accadano le stesse cose, anche se lottiamo perchè succedano cose diverse.

In questa archeologia del desiderio risiede anche un altro paradosso: spesso sono proprio le esperienze che ci hanno causato più dolore nell’infanzia che diventano, una volta adulti, le fonti di pacere ed eccitazione erotica.

Liberarsi spietatamente del passato

Così, se abbiamo avuto un genitore donnaiolo, che ha fatto soffrire nostra madre, possiamo diventare una donna seduttiva che cambia continuamente partner. Per non correre il rischio di ritrovarsi nella stessa situazione di nostra madre, diventiamo come nostro padre, per scoprire che, anche quella, non è una grande soluzione.

La dipendenza fisica ed emotiva dai nostri genitori è molto duratura nel tempo e spesso supera il nostro effettivo bisogno di sicurezza. Per non perderli siamo disponibili a reprimere i nostri desideri e la nostra aggressività e possiamo riportare le stesse modalità anche nelle relazioni affettive adulte. Mischiando così il nostro bisogno di sicurezza alla nostra vita affettiva adulta rischiamo di trovarci con relazioni affettivamente sicure e sessualmente insoddisfacenti. Realizziamo quella sicurezza che non abbiamo avuto da bambini a patto di vivere una vita sessuale infantile. Oppure viviamo una vita sessuale adulta lasciando affamato il nostro bisogno affettivo.

Ciò che il linguaggio nasconde, è detto dal mio corpo. Il mio corpo è un bambino testardo, il mio linguaggio è un adulto molto civile. Roland Barthes

Un aspetto che evidenzia l’irrazionalità del nostro desiderio è il fatto che ciò che ci eccita di più spesso viene dalle ferite e dalle frustrazioni della nostra infanzia, perchè – come dice Esther Perel – proprio quello che nell’infanzia ci ha causato dolore diventa una delle maggiori fonti di piacere quando siamo adulti.

Eliminare la vulnerabilità dalla vita?

Da bambini impariamo molte cose, la maggior parte delle quali è retta dal nostro bisogno di sicurezza. Per sentirci amati e al sicuri siamo disponibili a perdere il controllo, a sottometterci, a domare il nostro spirito. A reprimere i nostri desideri e la nostra aggressività. Poi diventiamo adulti e non sappiamo più se vale la pena pagare un prezzo così alto per rimanere al sicuro. E inizia il conflitto tra il nostro bisogno di libertà e il nostro bisogno di dipendenza. Alcuni di noi avrebbero voluto genitori più vicini, altri meno intrusivi e così abbiamo imparato che, in qualche misura, mantenere un legame richiede una quota di rinuncia alle nostre necessità e un insieme di regole che riteniamo vere sul mantenimento dei rapporti affettivi. Molte di queste convinzioni non sono esplicite ma scritte nel corpo, molte delle nostre consolazioni non sono a parole ma a gesti.

Il corpo ci ricorda quello che abbiamo dimenticato e forse è proprio per questo che, nel sesso, affiorano le nostre paure più profonde e i desideri più persistenti: una avidità senza confini, come il terrore di essere divorati. L’abbandono come l’onnipotenza. Tutti lì: nel metroquadrato in cui viviamo l’incontro sessuale. Dove vorremmo rischiare e, contemporaneamente, eliminare la vulnerabilità della vita.

Dobbiamo essere capaci di legarci senza il terrore dell’annullamento e dobbiamo saper vivere la separatezza senza il terrore dell’abbandono. Esther Perel

Pensare a se stessi o proteggere il legame?

Tutte le reminiscenze della nostra storia intima entrano nella costruzione dei legami e ci mettono in un apparente paradosso. Abbiamo bisogno di intimità ma quando diventiamo intimi perdiamo quel senso di separatezza che è fondamentale per avere un  legame sano, lungo e felice. Abbiamo bisogno di essere uno per diventare noi. Senza la qualità dell’uno non siamo noi e se siamo troppo uno non diventiamo noi. Nessuna formula magica ma un continuo oscillare tra vicinanza e distanza, Intimità e separazione. E questo fa sì che i nostri desideri – relazionali e sessuali – diventino una sorta di codice di comportamento. Mi ama se fa quello che sta nel MIO codice di comportamento. Non mi ama se fa quello che sta nel SUO codice di comportamento. Trasformando così i desideri – che dovrebbero essere uno spazio creativo e libero – in aspettative rigide, pretese e test caratterizzati da pesantezza emotiva, senso di colpa, noia e ansia.

E qui la rabbia gioca un ruolo centrale per diverse ragioni. La prima è che la rabbia restituisce un senso di separatezza e fa da contrappunto alla dipendenza, alimentando la distanza necessaria. Nello stesso tempo se diventa eccessiva porta una minaccia nella relazione: quella della rottura. Inoltre la rabbia esprime un aspetto singolare della relazione: l’intimità alimenta il desiderio ma la sessualità richiede meno fusionalità e più separatezza. Richiede che ognuno dei due faccia la sua parte. Se siamo subito fusionali non nasce il desiderio ma solo l’intimità: che non è poco ma non è sufficiente per una relazione che voglia essere vitale. Se ci fidiamo l’uno dell’altro possiamo essere separati senza tenere che questo comporti un problema. Più il legame è forte più possiamo esplorare e deformarlo, essere aggressivi e tornare insieme. L’idea che più si è intimi più si è disinibiti è una teoria: vera qualche volta. Spesso molto sbagliata perchè l’intimità elimina la separatezza e spegne il desiderio: ci fa tornare bambini soddisfatti perchè amati e lascia che la nostra parte adulta vada in giro a cercare dell’altro.

In fondo San Valentino aveva ragione: era una buona idea sposare una cristiana con un pagano perchè è una buona idea non eliminare la separatezza.

Quando arriva un figlio?

Quando arriva un figlio ci innamoriamo…del figlio, che soddisfa moltissimo il nostro bisogno di intimità. Spesso il desiderio del partner sembra, per una giovane madre, un’altra persona a cui dover dare attenzione, dopo che prolungate ore di contatto fisico hanno ampiamente pareggiato il bisogno di intimità: non aspetta altro che di aver del tempo per se stessa, da sola, e non un nuovo contatto fisico.

Questo cambia, quasi sempre la forza di gravità della relazione. È un amore che unisce ma anche che riduce lo spazio della coppia a favore dello spaio della famiglia. Una volta questo non aveva grandi conseguenze perchè i legami erano strutturati per prolungarsi – felici o meno – per tutta la vita. Oggi non è così: per quanto i genitori siano senz’altro più disponibili e paritari nella passione per i figli, non sono disponibili a rinunciare all’aspetto romantico ed erotico di una relazione. Nessuno dei due.

E spesso la soluzione sembra essere iniziare una nuova relazione. Così moltiplichiamo le coppie: da una parte siamo coppia genitoriale, anche in ottimo modo, e dall’altro partner. Da una parte il desiderio ristagna, dall’altra cresce. Non si può forzare il desiderio ma si può coltivarlo e cercare di farlo è una buona condizione per una relazione sicura, anche con i figli. In questo senso i padri diventano troppo spesso madri, dimenticano che una parte del loro ruolo è quello di interrompere la relazione simbiotica con i figli e non di rafforzarla, aggiungendo anche la loro simbiosi. Quando nasce un figlio un uomo ha bisogno di ricominciare a corteggiare la moglie, accettando un inevitabile spazio di frustrazione. Corteggiarla con nuove modalità. E tenere il bambino per due ore è un bel modo per corteggiare la mamma, magari offrendole un abbraccio al rientro: sarà più chiaro ad entrambi perchè – dopo due ore di babytherapy – si ha meno bisogno di contatto fisico e più bisogno di parole, di qualcuno che ci distolga dalla voce infantile che facciamo quando parliamo con i bambini, che sembra mandare in pappa anche i neuroni, oltre che il desiderio sessuale.

La vita non ruota attorno ai figli

Anche i figli hanno bisogno di separatezza: la quantità di attenzione che certi bambini ricevono sarebbe sufficiente ad una mandria. E invece è tutta verso un unico figlio, che spesso è anche unico nipote di due famiglie: 8 persone che danno attenzione ad un unico bambino è un modo certo per alimentare l’ansia da prestazione e lo stress da overcompensazione. Non mi capita più, come succedeva all’inizio della professione, di seguire persone con trauma da deprivazione. L’80% delle persone che seguo hanno un trauma da sovrainvestimento. La vita non può ruotare attorno ai figli: non gli facciamo un favore, non ci facciamo un favore. Il genitore più autonomo deve aiutare il genitore prevalente a spostare l’attenzione anche su altro. Il lavoro non può essere un intermezzo alla cura dei figli  e l’agenda non può essere dominata dalle feste dei bambini, dalle cene con i genitori degli amici dei figli (che non ti stanno neanche tanto simpatici), dalle vacanze nel gruppo delle famiglia. Una coppia deve rimanere una coppia anche se ha un figlio.

Censurando la nostra vita di coppia a favore di quella dei genitori passiamo ai nostri figli una scomoda eredità e un senso di colpa: quello di essere stati la causa della fine della relazione tra i loro genitori. La causa non sono loro: la causa è la mancanza di fantasia e il desiderio di trovare condizioni nuove, in situazioni nuove.

Un regalo per San Valentino? La fantasia

Se hai letto fino a qui è perchè hai voglia di avere un’idea per San Valentino. Cosa regalo? Personalmente trovo tristissimo andare al ristorante, pieno di copie di noi stessi. Lo trovo tristissimo non perchè non ami andare la ristorante ma perchè è una consuetudine, come la rosa gambo lungo, il profumo e i cioccolatini. Del resto le donne abbondano in cravatte, sciarpe, penne, rasoi, dopobarba e profumi. Tutte cose che finiscono nel cassetto. Il famoso cassetto delle cose di cui non sai che fare.

Io proporrei, per San Valentino ma anche per la festa della mamma, del papà, il santo patrono, l’anniversario di matrimonio e quello di fidanzamento, il primo giorno (e l’ultimo giorno) uno dei regali più belli e rischiosi del mondo: la fantasia. Usa la fantasia, realizza una fantasia, metti la fantasia, per un giorno, nel tuo rapporto. Corri il rischio di essere frainteso, esplora la vulnerabilità del mostrare il tuo desiderio – sì perchè niente più della fantasia parla del desiderio – ed esci dalla consuetudine. Male che vada sarà un altro dei tanti regali sbagliati ma, almeno, avrai detto chi sei e che cosa vuoi. E se, invece, andrà bene, andrà veramente molto bene perchè avrai avuto la possibilità di essere te stesso e di essere intimo, avrai avuto libertà e relazione, ispirazione e piacere.

© Nicoletta Cinotti 2018 Foto © mauriziopeddis

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Amore e passione tra Mindfulness e bioenergetica

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Cosa succede quando incontriamo un cucciolo (di uomo o di animale)?

03/07/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ti sarai trovato tante volte a sorridere guardando un bambino per strada. Forse è stato solo uno sguardo fugace che ti ha fatto scappare un sorriso. Oppure hai visto un cane fare qualcosa di buffo e, anche in quel caso, ti è scappato un sorriso.

Chiunque abbia avuto un figlio, chiunque abbia curato un cucciolo, sa perché questo succede. Anche se succede indipendentemente dall’essere genitore o dall’avere un animale. Accade perché attivano un senso materno, paterno. E, tra i tanti aspetti che la genitorialità risveglia accade il più semplice e toccante: ci fa tornare al corpo. Ci abbracciamo, strofiniamo, giochiamo per terra, camminiamo all’aperto. Facciamo quelle cose semplice che il corpo ama. Più liberi e semplici che in qualsiasi altro momento.

Finalmente la testa va in vacanza e il corpo prende spazio per giocare, in queste situazioni. È una forza irresistibile che va al di là del conoscersi. Può esser risvegliata da un bambino che incontriamo per strada come da nostro figlio. Che meraviglia svegliarsi al mattino e fare la pratica degli abbracci. Come prima cosa toccarsi, dire qualcosa di assolutamente assurdo e affettuoso, Sentire l’odore della pelle che ha attraversato la notte. Solo dopo un po’ torniamo quegli esseri pensanti e intelligenti. Quei primi istanti però sono di vera gioia: perché il nostro corpo è svegliato dal corpo dell’altro.

Ecco, se mandassimo la testa a riposo un po’ più spesso, la nostra vita sarebbe così: un risveglio del corpo.

Ci sono così tanti modi in cui l’essere madre mi ha cambiato. Ma spesso penso che nessuno è più importante che questo: mi ha riportato al corpo dopo anni in cui ero prevalentemente nella testa e mi ha reso responsabile per altri corpi in modo profondo e definitivo. Courtney E. Martin

Pratica di mindfulness: Abbraccio qualificato

© Nicoletta Cinotti 2017 Verso un’accettazione radicale

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Stringimi forte

25/11/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quante volte in una relazione d’amore abbiamo detto, o pensato, stringimi forte. Stringimi forte, tanto forte che non possa più andarmene. Tanto forte che le mie ali diventino un’ombra.

Tanto forte da diventare una cosa sola.

In ciascuno di noi c’è l’idea che l’amore sia quello stato di fusione che abbiamo sperimentato nell’infanzia, quando tra le braccia dei nostri genitori abbiamo provato cosa vuol dire sentirsi protetti, sicuri, certi di una appartenenza all’altro. Non è così che si ama una volta diventati adulti. Una volta diventati adulti abbiamo esigenze personali che entrano in collisione e desideri e bisogni che ci fanno avvicinare. La fusione dell’infanzia deve lasciar aperta la porta all’autonomia, all’indipendenza e al piacere di ritrovarsi. Se continuiamo a cercare quella fusione, se ci crediamo, stringimi forte può diventare un abbraccio fatale, Un abbraccio dal quale non riusciamo più a liberarci anche quando la relazione è finita. Anzi la relazione può finire solo quando la morte ci separa.

Il punto è che le storie d’amore – in questa epoca in cui si sono indeboliti i collanti esterni al rapporto – non sono per sempre. Sono storie che nascono sulla base di un sentimento – l’amore – e quel sentimento si basa su un’emozione che può finire. Non è una colpa, non è un fallimento. Le cose cambiano, anche noi cambiamo e se basiamo una relazione sul sentimento dell’amore è importante essere consapevoli che l’amore è soggetto a trasformazione. E che non è detto che sia per sempre.

Allora stringimi forte, fammi sognare deve essere anche un altro impegno: lasciami libera, fammi volare. Lascia che io sia la persona che sono. Perchè sennò “stringimi forte” può diventare l’inizio di un possesso che non prevede la fine di un amore. E i femminicidi avvengono proprio lì: quando quell’amore è finito e lei richiede le sue ali in cambio.

Come amanti stiamo finemente in equilibrio su una corda. Quando incominciano a soffiare i venti del dubbio e della paura, se andiamo in panico e ci aggrappiamo l’uno all’altra o se ci muoviamo inaspettatamente e cerchiamo di proteggerci, la corda oscilla di più e il nostro equilibrio diventa persino più precario. Per stare sulla corda dobbiamo regolare le nostre mosse in base a quelle dell’altro e rispondere reciprocamente alle emozioni. Se stiamo connessi, allora ci teniamo reciprocamente in equilibrio. Siamo in equilibrio emotivo. Sue Johnson

Pratica di mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2016 Mindfulness e Bioenergetica Foto di ©paccianid

 

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Note sulla via di ritorno dal ritiro

10/09/2016 by nicoletta cinotti 2 commenti

Domenica 4 settembre
Mi voglio ricordare delle stelle, dei momenti tutti insieme in cerchio a meditare, delle camminate sul monte, dei momenti di silenzio e di solitudine, del vento che profuma di pini e del rumore delle foglie nel bosco; dei miei tentativi di urlare;  degli occhi di J., del suo viso bellissimo, della sua vulnerabilità, della sua commozione e delle sue parole per me; mi voglio ricordare dei momenti di commozione, della fatica a stare con il giudizio, della tenerezza e compassione che mi hanno permesso di andare oltre il giudizio e di trovare spesso un tesoro o di prendere serenamente consapevolezza che c’è qualcuno con cui non ho facilità a condividere; mi voglio ricordare delle parole di E., della nostra vicinanza, della verità che le ho affidato, della sua commozione; mi voglio ricordare dei momenti di intimità e condivisione, del lavoro sul corpo, di M., della sua grande famiglia, del suo dolore e del l’imbarazzo che abbiamo condiviso prima di abbandonarci alla nostra voce; degli occhi di G., del suo affetto materno e del suo sapersi perdonare e avere fiducia; mi voglio ricordare del lago, del mio ostacolo alla felicità che ho lanciato lontano e della paura di non sapere amare; mi voglio ricordare della fatica, degli occhi gonfi, del pensiero critico, della voglia di isolarmi, del piacere di condividere, degli occhi e dell’abbraccio sicuro di F. e di quanto è incredibile ma vero che ognuno pensa e crede di essere meno di quello che è.

E questo spesso è il suo più grande limite alla felicità.

Mi voglio ricordare della profondità degli animi che ho incontrato, dei diversi dolori e della comune intenzione che tutti abbiamo di essere felici. Di quanto è per tutti difficile essere gentili con se stessi, di quanto pesa la testa sulle spalle, di quanto il dubbio ci tormenti tutti. Mi voglio ricordare che il dubbio è un prodotto della mente per distrarci dalla verità del corpo e delle emozioni. Che più grande è il dubbio più abbiamo paura di riconoscere la nostra verità e che in quei momenti, tornare al respiro nella pancia e al corpo ci salva; che spesso scegliamo l’infelicita’ perché è più sicura, perché conosciamo bene tutte le storie e le ragioni che la alimentano e fa meno paura della imprevedibile e sconosciuta felicità. Mi voglio ricordare che ho paura di essere felice. Ma che sono coraggiosa. Che so amare. Che merito di esprimere tutta me stessa. Che so cogliere la bellezza negli altri e so ammorbidire il mio cuore.
Mi voglio ricordare che ogni giorno è’ un’opportunità di vivere la nostra unica, selvaggia e imperfetta vita; che imparare a stare con quello che c’è scegliendo di essere grati per il bello che abbiamo invece di concentrarci su quello che ci manca è una strada per la felicità; che la gratitudine apre la porta alla commozione, abbatte i nostri muri e ci insegna a difenderci solo quando ce n’è bisogno. Che i muri che alzo mi impediscono di ricevere. Mi voglio ricordare che gratitudine, gentilezza, tenerezza, fiducia, pazienza e amore sono i semi per la mia felicità. Che i semi vanno coltivati. Che il percorso è a volte faticoso. Che la mia felicità non può e non deve dipendere dalla felicità di chi amo. Che prendendomi cura della mia felicità mi rendo libera e rendo felice chi amo. Mi voglio ricordare di non fare del male intenzionalmente a nessuno.
Che il mio corpo è’ un tempio, che merito di darmi dignità e che ho ballato Brahms su un sentiero di montagna come non avevo mai fatto prima.

S. una partecipante al ritiro che ringrazio per queste note, così musicali. Foto di ©alexcurrie

© www.nicolettacinotti.net Addomesticare pensieri selvatici

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Lasciò andare

05/03/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Lasciò andare.
Senza un pensiero o una parola, lasciò andare.
Lasciò andare la paura.
Lasciò andare i giudizi.
Lasciò andare la confusione di opinioni che sciamavano nella sua testa.
Lasciò andare l’indecisione e tutte le ragioni “giuste”.Totalmente e completamente,senza esitazione o preoccupazione,
Ha lasciato andare senza chiedere consigli.
Non ha letto un libro su come lasciare andare …non ha cercato nelle Scritture.
Ha lasciato andare semplicemente. Ha lasciato andare tutti i ricordi che la trattenevano e l’ansia che le impediva di andare avanti. Ha lasciato andare i piani e i progetti su come le cose sarebbero state, se fossero state giuste.
Non ha promesso di lasciar andare. Non ha scritto la data.
Non ha fatto alcun annuncio pubblico o messo inserzioni sul giornale.
Non ha controllato le previsioni del tempo o letto il suo oroscopo del giorno.
Ha solo lasciato andare.
Non ha analizzato se avrebbe dovuto lasciar andare.
Non ha chiamato gli amici per discutere la questione.
Non ha fatto un percorso spirituale in cinque tappe o una preghiera speciale.
Non ha proferìto parola. Ha solo lasciato andare.
Nessuno era in giro quando è successo. Non ci sono stati applausi o congratulazioni. Nessuno se ne è accorto.
Nessuno è stato ringraziato.Come una foglia che cade da un albero, ha solo lasciato andare.
Senza nessuno sforzo.
Senza nessuna lotta.
Né bene né male.
Era quello che era, ed è proprio questo.
Nello spazio del lasciar andare, ha lasciato che tutto sia.
Un piccolo sorriso è apparso sul suo viso.
Una leggera brezza ha soffiato attraverso di lei.
E il sole e la luna splendono sempre.
Rev. Safire Rose
Trad. Nicoletta Cinotti

 

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Autoritratto

14/02/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Non mi interessa se c’è un Dio
o molti dei.
Voglio sapere se appartieni o ti senti
abbandonato.
Se conosci la disperazione o riesci a vederla in altri.
Voglio sapere
se sei preparato a vivere nel mondo
col suo rude bisogno
di cambiarti. Se puoi guardare indietro
con fermezza
e dire è qui dove sto. Voglio sapere
se sai
come fonderti con quell’ardente fervore del vivere
cadendo verso
il centro del tuo desiderio. Voglio sapere
se sei disposto
a vivere, giorno per giorno, con la conseguenza dell’amore
e l’amara
indesiderata passione della tua sicura sconfitta.

Mi è stato detto in quell’ardente abbraccio, anche
gli dei parlano di Dio.

David Whyte

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