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sharon salzberg

After reading ovvero ciò che accade dopo la lettura

21/12/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Quando qualcuno mi chiede “cosa posso leggere?” vado un po’ in panne. Un buon lettore scrive – di nuovo – ognuno dei libri che ha letto. Li scrive perchè annota qualcosa, perchè si porta via una frase, perchè inizia a parlare, dentro di sé, con l’autore del libro e, alla fine non sai mai se quel libro che ricordi è proprio scritto dall’autore o è ri-scritto dalla tua lettura. Così entro nel disorientamento, cerco di separare il grano dalla crusca e mi avventuro in qualche timido suggerimento, piuttosto incerta sulla bontà di quello che dirò.

Quest’anno però mi lancio: forte dei due incontri di pratica “Meditazione e scrittura” confesso: nessuna persona che scrive può fare a meno di leggere. Così vi faccio il mio elenco bislacco dei libri che, quest’anno, ho tenuto con me più spesso. Alcuni sono nuovi, altri vecchi. E poi ci sono i libri da cui non mi separo mai. È bislacco perchè non è una bibliografia ragionata: è proprio quello che mi ha fatto compagnia in quest’anno e che ho tenuto stretto a me.

Visto che ho sofferto tanto della mia difficoltà a scrivere posso citare subito due libri che mi hanno “salvata”: Il mestiere di scrivere di Luisa Carrada. L’ho tenuto con me insieme al libro, con lo stesso titolo, di Raymond Carver Il mestiere di scrivere. Esercizi, lezioni saggi di scrittura creativa.  Sono libri rovinati dal tempo e dall’uso: hanno anche qualche macchia di caffè. In genere quelli con la macchia di caffè hanno il bollino d’oro!

Poi Luisa ha recentemente pubblicato tre libri, agili e gradevolissimi: Scrivere un’email, Struttura e sintassi e Guida di Stile: scrivere con consapevolezza. Siccome con le mail sono pessima – credo di aver fatto parecchi danni con questo mezzo di comunicazione – ho iniziato da lì e ho letto tutto, nell’ordine in cui ho scritto i titoli, in un crescendo di piacere.

Poi ci sono stati due libri rivelazione. Uno è un vecchio libro pubblicato addirittura alla fine degli anni ’70, “Il gioco interiore del tennis”di  Timothy Gallwey (non scrivo il sottotitolo perchè nella mia ri-scrittura l’ho bocciato!) È bellissimo, anche se non giochi a tennis, forse soprattutto se non giochi a tennis. Racconta come ci siano sempre due giocatori: uno esplicito e l’altro implicito e di come quello implicito, interiore, possa e debba essere ascoltato anziché rimproverato. Facile capire perchè mi è piaciuto tanto.

L’altro libro rivelazione è stato “Grinta. Il potere della passione e della perseveranza” di Angela Duckworth. Racconta una storia, la sua, e una ricerca scientifica attorno al ruolo della determinazione. Il padre di Angela le ripeteva continuamente che non era un genio. E lei, molti anni dopo, ha condotto una ricerca che dimostra che, rispetto al successo accademico e personale, conta di più la determinazione del quoziente intellettivo. Cito una delle frasi di un dialogo immaginario con il padre che riporta nel libro “Papà, sono d’accordo con te. Non sarò un genio e tu conosci un sacco di persone più intelligenti di me. Ti voglio dire una cosa però. Sono cresciuta amando il mio lavoro, proprio come tu amavi il tuo. Io non voglio avere semplicemente un lavoro. Io voglio avere una vocazione che ogni giorno sia un po’ sfidante. Qualcosa che, quando mi butteranno giù, mi farà tornare in piedi. Non sarò la persona più intelligente della stanza ma cercherò di essere la più appassionata” (Traduzione dall’inglese mia e forse anche un po’ di ri-scrittura: ma il significato è rispettato!). Ecco questa frase, scritta nell’introduzione del libro – una parte che, insieme alla bibliografia, leggo sempre – è stata l’ouverture di un bellissimo viaggio di lettura e scrittura.

Per il settore poesia ho letto e riletto “Fatti vivo“, l’ultimo libro di Chandra Livia Candiani. Un libro di poesia che diventa una narrazione, un romanzo. Chandra verrà a raccontarcelo a Genova il 26 gennaio prossimo. Non poteva mancare Bukowski con la raccolta “Sull’amore” perchè Bukowski era uno che in amore non scherzava e dedica poesie intense a tutte le sue donne (che sono tante) e alla figlia, avuta molto tardi e amata teneramente.

E la meditazione? A dire il vero credo che tutti i libri siano meditazione. Perchè attivano un processo di riflessione e un cambiamento interiore Se però penso alla meditazione come argomento comincia il difficile: vi dico solo quelli che quest’anno ho riaperto più spesso e quindi tantissimi e bellissimi libri rimangono fuori. E me ne dispiace. Vi avevo avvisato però che questa è una bibliografia bislacca e appassionata. “Mindfulness relazionale” di Gregory Kramer è sempre con me: un libro che ha avuto una traduzione così bella che è persino migliore dell’originale inglese. Leggo spesso Corrado Pensa – l’unico insegnante italiano della Insight Meditation Society di Barre – e quest’anno sono tornata spesso su “Dare il cuore a ciò che conta”.

Poi ci sono titoli inglesi e ne seleziono solo uno “Love Your Enemies: How to Break the Anger & Be a Whole Lot Happier” a cura di Sharon Salzberg e Robert Thurman. Mi piacciono molto le raccolte e questa ha un tema che tocca davvero la vita di tutti i giorni: qualcuno di noi riesce a non provare mai antipatia? Io no e quindi cerco di ricordarmi qualche elemento che mi aiuti a vedere oltre le mie antipatie che, spesso, nascondono solo la paura di essere ferita.

Concludo con il mio evergreen “Paura di vivere” di Lowen. È stato uno dei primi libri di Lowen che ho letto e, malgrado ormai sia un vecchio libro sotto tanti punti di vista, rimane quello che davvero amo di più. Perchè la paura di vivere è trasversale: colpisce tutti, indipendentemente dall’età e dal successo o fallimento che attraversiamo e quindi abbiamo bisogno di qualcuno che ci racconti, con esempi vivi, cosa vuol dire attraversarla.

Mi scuso per questo lungo post: adesso credo di essermi meritata il fatto che nessuno mi chieda più “Cosa posso leggere?!”

PS: Ogni citazione che faccio nei post quotidiani riporta il link al libro da cui è tratto: basta cliccarci sopra!

Come la scrittura, anche la lettura è organica. Come dice Eudora Welty “é una delusione rendersi conto che i libri sono stati effettivamente scritti da persone, che non sono meraviglie naturali che crescono spontaneamente come l’erba”. E ogni lettore porta se stesso in questo processo che Virginia Woolf chiamava “after reading” ovvero “ciò che accade dopo aver letto. Gail Sher

Pratica di mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2017 Fatti vivo: un reading di poesia con Chandra Livia Candiani

Foto di © MichelaGila

 

 

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Nella lista dei regali mettiamo “tornare a casa”

19/12/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

In questi giorni andiamo in giro con una lista di regali in mente: è questo che rende unico il periodo natalizio. Uno scambio di oggetti che, spesso, è un piccolo o grande, scambio di gratitudine. Ci diciamo grazie in questo modo.

Così corriamo da tutte le parti per arrivare a Natale come se avessimo fatto una brusca frenata. Perchè spesso conosciamo le nostre intenzioni ma facciamo fatica a sottrarle alla tirannia del dovere e alla tirannia del fare. Lasciamo alle nostre intenzioni gli spazi di pausa.

Questo però è anche il momento in cui possiamo inserire noi stessi nella lista dei regali: possiamo farlo in modo totalmente privo di spesa. Possiamo ricordarci, senza rumore, di qual è il nostro bisogno profondo, di cosa serve davvero al nostro cuore.

Possiamo ricordarci, per qualche momento, cosa stiamo curando nella nostra vita e cosa stiamo trascurando. Possiamo incontrare qualche respiro silenzioso e abitare la consapevolezza. Possiamo accedere a quel silenzio interiore in cui è più facile incontrarci. Possiamo farlo: è una nostra scelta. È un po’ come quando viaggiamo: avere tante esperienze è bello, arricchente e stimolante. Poi torniamo a casa ed è in quel momento che comprendiamo il senso vero del viaggio e il senso vero del ritorno.

Possiamo viaggiare a lungo e fare tante cose diverse ma la nostra felicità più profonda non nasce dall’accumulare nuove esperienze. Nasce dal lasciar andare il superfluo e sapere che possiamo sempre essere a casa. Sharon Salzberg

Pratica di Mindfulness: I suoni del silenzio (File audio silenzioso con periodici suoni di campana)

Se vuoi “tornare a casa” ti ricordo la pratica gratuita di Meditazione e scrittura: il mio piccolo regalo per sentire di essere a casa dovunque

Oggi a Chiavari dalle 19.30 alle 21. Iscrizioni su Eventbrite

Domani a Genova dalle 19.30 alle 21. Iscrizioni su Eventbrite

La nostra pratica gratuita sostiene Helpcode: il diritto di essere bambini

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Noi siamo il traffico

11/11/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Qualche tempo fa mi trovavo sul treno che dalla valle dell’Hudson va a New York City. Seduto tra una signora impegnata in una rumorosa conversazione telefonica e un uomo sempre più infastidito dal volume della sua voce. Man mano che il nostro viaggio proseguiva, accompagnato dal suono della voce ferma della donna e dai dettagli dei suoi piani, l’uomo grugniva, si agitava, mormorava. Fino a che arrivò all’esplosione, “Stai facendo troppo rumore!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Guardandolo non potei fare a meno di pensare che anche lui stava facendo la stessa cosa.

Quando siamo catturati dal traffico, bloccati in un ingorgo, ci dimentichiamo che anche noi siamo quel traffico. Che anche noi siamo parte del problema così come, almeno potenzialmente, parte della soluzione. Il lavoro con i nostri antagonisti – con ciò che ci suscita avversione – inizia con l’essere preparati a camminare in un territorio nuovo, esplorando la zona che sta tra le persone che ci sono care e quelle che, invece, rifiutiamo e tagliamo fuori.

Il filosofo Peter Singer chiama questo processo “l’espansione del cerchio della moralità” riferendosi all’allargare il cerchio delle persone nei confronti delle quali nutriamo cura e preoccupazione. Anche se l’altruismo comincia come spinta biologica alla protezione, si evolve poi verso la scelta di cura nei confronti degli altri. La reazione impulsiva nei confronti del rumore degli altri può essere un rumore altrettanto forte che innesca però un circolo vizioso di conflitto che porta solo all’esaurimento.

Designare qualcuno o qualcosa come nemico dà a questa persona una identità immutabile. Quando categorizziamo gli altri come cattivi (o buoni o giusti o sbagliati) possiamo sentirci sicuri perchè sappiamo dove sono loro e dove siamo noi. O pensiamo di saperlo. La vita però è più complessa di così.

Il mio amico Brett – che per un certo periodo ha fatto l’autista di limousine, mi raccontava come si arrabbiava per il comportamento degli altri autisti. Poi, ad un certo punto realizzò che anche lui, qualche volta, faceva le stesse trasgressioni che imputava agli altri.

Relazionarsi con gli altri come se fossero una categoria completamente separata li oggettivizza e crea una tensione che, inevitabilmente, arriva al conflitto. Non ci rende facile avere una relazione e, alla fine, può lasciarci parecchio soli.

Nella situazione del treno con la passeggera che usava il cellulare ad alta voce, un approccio più produttivo sarebbe stato cambiare posto oppure, se possibile, suggerire educatamente di abbassare il tono. Oppure, successivamente, attivare un’azione  positiva, agire contro l’uso del telefono sui trasporti pubblici o a favore dell’istituzione di carrozze silenziose. Invece che reagire contro le persone che ci offendono, possiamo collaborare per trasformare quella situazione in un beneficio per tutte le persone coinvolte.

Non c’è niente di debole o rinunciatario nel non confrontare aggressivamente e direttamente i nostri nemici. Piuttosto è un modo completamente diverso di connettersi con gli altri senza essere intrappolati nel ruolo di vittima o aggressore (…) Possiamo imparare molto quando esploriamo la pausa che c’è tra essere arrabbiati e agire. Sharon Salzberg

Domenica 12 Novembre alle 18 ci sarà il nostro Kindness Lab,  per la Giornata Internazionale della Gentilezza in Via I. Frugoni 15/2.

Ti prego, sii gentile: registrati su Eventbrite!

Cancellati su Eventbrite se non intendi partecipare ma ti sei già iscritto

© Nicoletta Cinotti 2017 Addomesticare pensieri selvatici

Foto di © mariateresa toledo

 

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L’ideale e la prestazione

30/03/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Sono cresciuta con l’idea di cercare di fare le cose meglio possibile. Non perfette – mi veniva rassicurato – ma devi fare tutto il possibile. Solo così puoi stare tranquilla. Non è un’idea originale. Credo che molti di noi abbiano avuto la stessa educazione e molti di noi tendono a cercare di fare il massimo quando portano avanti qualcosa di importante.

Anche nelle relazioni facciamo così solo che, a volte, siamo così presi dal cercare di fare il massimo che non ci accorgiamo che diventa una sorta di gara con noi stessi e con l’ideale di noi con il quale ci misuriamo.

Non facciamo più qualcosa per l’altro: quella precisa persona che è nella nostra vita in quel momento e che amiamo. Facciamo qualcosa di buono in assoluto, vero in assoluto, giusto in assoluto. E così perdiamo il polso della relazione. Non ci accorgiamo più se quello che stiamo facendo – con tutto il nostro sforzo e il nostro impegno – è proprio quello che è importante per la relazione. È proprio corrispondente al bisogno dell’altro.

Lo scopriamo dopo, quando la realtà rompe bruscamente l’illusione che fare il massimo ci metta al riparo da tutte le nostre incertezze. Così possiamo scoprire che fare il massimo non garantisce nessuna speciale sicurezza. Non equivale alla fatidica assicurazione “Tutto andrà bene”. Perché nel frattempo, mentre noi eravamo impegnati nella sfida per raggiungere il nostro ideale, abbiamo perso di vista la realtà e gli infiniti segnali che la realtà ci offre, ogni giorno.

Non abbiamo bisogno di fare il massimo per essere al sicuro. Abbiamo bisogno di avere i piedi per terra, abbiamo bisogno di saper stare nell’incertezza e imprevedibilità. E modulare, come un musicista, la nostra musica con quella degli altri. Nelle relazioni gli assolo non possono occupare troppo spazio, altrimenti diventano solitudine.

Peccato! Fare il massimo sarebbe stato molto più semplice, solo che non funziona.

La chiave della felicità più profonda risiede nel cambiamento della nostra concezione di dove debba essere cercata. Sharon Salzberg

Pratica di mindfulness: La classe del mattino  Poesia del giorno: Due

© Nicoletta Cinotti 2017 Risolversi a cominciare  Foto di ©gibel49

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La generosità e i saldi

16/05/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

La generosità ha una grande forza trasformativa. È un’esperienza che ci rende consapevoli di quello di cui abbiamo davvero bisogno. Ci apre nei confronti di una relazione e ci permette di comprendere che, spesso, dare è il modo migliore di ricevere.

Purtroppo la generosità attiva l’avidità: ossia il fatto che ci sia offerto qualcosa gratuitamente o generosamente non fa aumentare il rispetto verso l’offerta ma fa crescere la sensazione che “dovremmo” prendere di più. È una reazione che nasce dalla profondità del nostro bisogno. Dall’enormità della nostra fame. E, in quel semplice atto di avidità, dimentichiamo che chi ci ha offerto generosamente qualcosa merita gratitudine anziché spoliazione.

È come quando ci sono i saldi: il semplice fatto che qualcosa costi meno ci fa comprare di più, chiedere di più, e prendere anche quello di cui non abbiamo bisogno. Qualcosa che stazionerà nell’armadio a lungo senza trovare dimora. Eppure la generosità è la prima perfezione – paramita – di una mente risvegliata e guida la moralità del nostro comportamento. La generosità crea spazio e ci permette di non attaccarci a ciò che abbiamo. Condivido quello che scrivo per non alimentare un senso di vana auto-importanza. La conoscenza non mi appartiene: è frutto di una trasmissione che include me ma non mi rende depositaria assoluta.

È per questo che quando vedo la generosità derubata mi dispiace: se trovo un articolo copiato senza citarne la fonte, se sento che la mia disponibilità suscita avidità o sottovalutazione del valore mi dispiace. Non per me. Per l’altra persona che ha ricevuto un dono e non ne ha davvero apprezzato il contenuto.

Sarebbe semplice, a questo punto, non essere generosi. Non voglio punire me stessa per qualcosa che fanno gli altri. Percorrere la strada della generosità significa nutrire il lasciar andare, nutrire il non aggrapparsi, coltivare l’abbondanza, la vera abbondanza. Ritirarla perchè qualcuno la usa male sarebbe come far tornare in ombra un aspetto luminoso della nostra vita.

La generosità va solo coltivata. Con saggezza e, soprattutto con libertà dall’aspettativa che, se saremo generosi, saremo amati. Se saremo generosi ameremo, senza obbligo di restituzione. E impareremo che si riceve sempre da dove meno te lo aspetti.

La pratica della generosità riguarda il creare spazio. Vediamo i nostri limiti e li estendiamo continuamente creando così quell’espansività e spaziosità di cui la mente è – profondamente – composta. Questa felicità, rispetto di sé e spaziosità è il terreno appropriato in cui far fiorire la pratica della meditazione. È il luogo ideale da cui partire per una investigazione profonda, perchè questo tipo di spaziosità e felicità interiore dà forza e flessibilità, forza e flessibilità che sono necessarie per guardare veramente ciò che sorge nella nostra esperienza. Sharon Salzberg

Pratica di mindfulness: La consapevolezza del respiro

© Nicoletta Cinotti 2016 Tornare a casa

 

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Equanimità: la quiete spaziosa della mente

10/04/2016 by nicoletta cinotti

L’equanimità è pervasa di gentilezza amorevole, di cura per tutti gli esseri viventi. L’equanimità è l’ultima dei 10 Paramita, le “perfezioni” del Buddismo Theravada. E’ il culmine della pratica e Sharon Salzberg, nel suo libro “LovingKindness”, la descrive meravigliosamente:

L’equanimità è uno spazioso silenzio della mente, una calma splendente che ci permette di essere pienamente presenti, con tutte le mutevoli esperienze che formano il nostro mondo e le nostre vite. Sharon Salzberg

Questa definizione mi piace per diversi motivi.

Innanzitutto, c’è l’espressione “silenzio spazioso”. Quando siamo in una condizione di equanimità le nostre menti sono in silenzio, e c’è spazio per tutto quello che viene fuori; niente è rifiutato.

Un’altra definizione di equanimità, questa di Rebecca Bradshaw, evidenzia questo aspetto della mente, e i suoi vantaggi:

Equanimità è offrire continuamente una casa alla verità del momento presente. Rebecca Bradshaw

Una mente/cuore equanime può connettersi al mondo e a tutti i suoi cambiamenti con equilibrio, portamento, grazia, flessibilità. Con l’equanimità, impariamo a fidarci profondamente della nostra capacità di scorrere nel fiume del cambiamento, a rilassarci in esso.

C’è anche un altro aspetto significativo della definizione di Sharon: l’espressione “calma splendente”.

Non solo le nostre menti sono concentrate e tranquille, ma diventiamo letteralmente fonte di questo stato mentale sano per gli altri intorno a noi; emaniamo questa energia potente. Ecco dove ci porta la pratica.

Molte persone pensano che la pratica della meditazione sia egoista, che invece di star lì seduti si dovrebbe fare qualcosa di utile. Ma cosa potrebbe essere più utile del dar vita a un’atmosfera di calma e tranquillità tutto intorno a noi? Di cosa ha bisogno il mondo più di questo?

Infine c’è la frase “essere pienamente presenti con tutte le diverse e mutevoli esperienze”. Questa potrebbe essere una definizione per la “non sofferenza”.

Soffriamo perché restiamo ancorati alle cose che emergono che troviamo piacevoli e cerchiamo di evitare, o scacciamo vi,a le cose che emergono e che troviamo spiacevoli. Non scorriamo insieme al fiume del cambiamento. Non capiamo né accettiamo che ogni cosa è temporanea, continuamente mutevole. Se siamo equanimi non soffriamo più!

Come la gentilezza affettuosa, l’equanimità ha un “nemico vicino ”, uno stato mentale che si traveste da equanimità. E’ l’indifferenza.

Sfortunatamente, molti testi e maestri traducono il Pali upekka e il Sanscrito upeksham usando questa parola. Queste traduzioni sono scorrette.Esternamente l’indifferenza può sembrare uguale, una calma apparente. Ma l’indifferenza è un rifiuto del mondo, un forte senso di “non interesse”. Non è per niente spaziosa. E’ di fatto stretta ed egocentrica. Non ospita il momento presente, lo ignora.

L’equanimità è pervasa di gentilezza affettuosa, un senso di cura per tutti gli esseri viventi. C’è un altro insegnamento nel Buddismo che include l’equanimità: il Bramha Viharas, la dimora celeste –i quattro stati mentali salutari interconnessi che Buddha invitava a coltivare.

Il primo di questi è la gentilezza amorevole che è anche la nona paramita. Quando un cuore riempito di gentilezza affettuosa incontra il dolore compassionevole, il secondo Brahma Vihara, si rivela. Quando quello stesso cuore incontra la felicità si riempie di gioia compartecipe, il terzo Brahma Vihara.

L’equanimità è l’equilibrio tra le altre tre. Ci impedisce di cadere nell’eccesso, ci mantiene saldi. L’equanimità lega le altre tre insieme.

L’equanimità è il punto finale delle Paramita.

Sulla terra si parte semplicemente con generosità e virtù. Con la rinuncia ci lasciamo andare a qualcos’altro per trovare tempo nelle nostre vite per la pratica. Praticando la saggezza si rivela e iniziamo ad avere comprensione nella vera natura della realtà.Questo ci ispira ad applicare più energia alla pratica, compensata dalla pazienza, con la consapevolezza che niente è immediato. Iniziamo a interagire in una dimensione di veridicità con gli altri, e soprattutto con noi stessi, guardando con onestà le nostre colpe e i nostri aspetti positivi.

Diventiamo decisi, determinati a portare la pratica, prima nelle nostre vite. Siamo colmi di gentilezza affettuosa per tutti gli esseri. Raggiungiamo l’equanimità, uno spazioso silenzio della mente.

©Barry H. Gillespie per Elephant Journal Traduzione di Silvia Cappuccio per www.nicolettacinotti.net

Foto di ©h.koppdelaney

Per approfondire:

The Importance of Sangha

Radiating Kindness Over the Entire World

Resolve: Determined to Achieve the Greater Happiness

Truthfulness: Much More Than Not Telling Lies

Patience: When Practice Seems Difficult

Viryia: Effort in Practice

Wisdom: The Fruit of Practice

Renunciation: The Art of Letting Go

Sila & What It Means to Be Virtuous

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