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Tara Brach

Essere senza l’ansia del diventare

12/06/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Se viviamo dei momenti in cui proviamo vergogna è possibile che non si manifesti con il rossore adolescenziale ma con una sensazione più sfumata e sottile: diventa il desiderio di non essere visti.

Un desiderio così intenso e così segreto che a volte noi stessi facciamo fatica a riconoscerlo: diventa la fatica a rispondere al telefono, la fatica ad accettare gli inviti. La fatica ad uscire di casa. E la stanchezza è una scusa sempre pronta, buona per ogni occasione. Una scusa dietro alla quale ci nascondiamo perché, in fondo il desiderio di non essere visti è proprio questo: è il desiderio di nascondersi al contatto con gli altri.

È un  desiderio primitivo che sta dietro a tanti giochi da bambini: il cucù settete come il nascondino. Sta dentro tante avventure in cui il protagonista perde la strada di casa. Non è nutrito solo da un senso di vergogna. A volte è alimentato dalla sensazione di non essere adeguati, non essere capaci, non essere all’altezza della situazione. Eppure, anche nelle sue forme più dolorose, il desiderio di non essere visti esprime qualcosa della nostra saggezza e può diventare il desiderio di essere parte di qualcosa di più grande, senza dover per forza diventare protagonisti. È l’amore della foglia per l’albero. Della goccia d’acqua per il mare. Della cellula per il corpo. È l’amore di essere senza l’ansia di diventare.

La mancanza di auto-accettazione che proiettiamo all’esterno in forma di paura di essere rifiutati ci porta a ritirarci dal contatto con gli altri. Sebbene anche la brama di essere visti si basi su un sentimento di mancanza, il sentirsi inadeguati è la manifestazione più diretta di quella che Tara Brach chiama la trance dell’inadeguatezza. Gregory Kramer

Pratica del giorno: La classe del mattino

© Nicoletta Cinotti 2023 Reparenting ourselves. Diventare genitori di sé stessi

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Senza ansia per l’imperfezione

27/05/2023 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Molte persone mi hanno detto che quando realizzano quanto a lungo sono stati imprigionati in un sentimento di vergogna e odio nei confronti di sé stessi, provano non solo pena ma anche una specie di speranza che offre un nuovo senso alla loro vita. Un po’ come svegliarsi da un brutto sogno, come se, vedere la propria prigione, permetta anche di vedere le proprie potenzialità.

Il famoso maestro zen del settimo secolo, Seng-Tsan, insegnava che la vera libertà è essere “senza ansia dell’imperfezione”. Questo significa accettare la nostra esistenza umana e la vita stessa così com’è.

L’imperfezione non è un nostro problema personale: è una parte naturale dell’esistenza. Siamo tutti catturati dalla paura e dai desideri, tutti noi agiamo inconsapevolmente, tutti noi sperimenteremo la malattia e l’invecchiamento. Quando ci rilassiamo rispetto all’imperfezione, non perdiamo più la nostra vita nella ricerca di momenti in cui le cose siano diverse da come sono o nella paura di sbagliare.

Lawrence descriveva la cultura occidentale come un grande albero con le radici nell’aria. ” Periremo per la mancanza di soddisfazione dei nostri più grandi bisogni” scriveva “perchè siamo tagliati fuori dalla sorgente interna di rinnovamento e nutrimento”. Viviamo per riscoprire la verità della nostra bontà naturale e della connessione con tutte le cose. Il nostro “più grande bisogno” è entrare amorevolmente in relazione gli uni con gli altri, entrare in relazione con la bellezza e con il dolore che ci circonda e che è dentro di noi. Come diceva Lawrence “abbiamo bisogno di piantare di nuovo i nostri alberi, noi stessi, nella terra della vita”. Tara Brach

© www.nicolettacinotti.net Dalla Rubrica “Addomesticare pensieri selvatici”

Mindful Self-Compassion: intensivo residenziale

 

 

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La misura della libertà

21/11/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Ci sono eventi che accadono che ci sembrano intollerabili. Possono riguardare noi stessi o altre persone, come vediamo sulle pagine dei giornali in quest’ultimo periodo. Comunque è vero: alcune tragedie sono intollerabili. Proviamo rabbia perchè ci spaventano. Proviamo compassione quando riusciamo a tollerare il dolore che suscitano.

Questo ci spinge a fare un’ulteriore chiarezza.

Cosa significa permettere, cosa significa dire sì a quello che accade nella vita? Quanta ragione c’è a dire di sì di fronte ad eventi dolorosi e ingiustificabili?

Il nostro sì non significa autorizzare le cose che avvengono. Significa permettere, riconoscere quello che c’è perchè è già presente nella nostra vita

Ciò a cui è necessario dire sì, è alle nostre sensazioni rispetto all’evento indesiderato. Non cambieremo il mondo esterno ma autorizzarci a provare quello che proviamo, sentirlo nella sua risonanza corporea ed emotiva, mantenendo chiaro e ampio lo spazio interiore, ci permetterà di scollinare la montagna di dolore, di rabbia, di risentimento, di fastidio che ci troviamo davanti.

Ci permetterà di far scorrere nuovamente quell’energia che la reazione tiene bloccata nel corpo, quell’attivazione che ci rende inquieti o ansiosi, o quel torpore che ci lascia immobili quando vorremmo muoverci.

Non abbiamo alternative rispetto agli eventi che sono accaduti: possiamo solo accoglierli con dignità. Nessuna protesta li farà andare via.

Abbiamo però piena giurisdizione sul nostro mondo interno e dichiarare quindi un emendamento di pace, dire di sì a ciò che proviamo è una regola di buon governo. Perché ciò che non possiamo accettare disegna la dimensione della nostra prigione.

Il confine di ciò che non possiamo accettare è la misura della nostra libertà. Tara Brach

Pratica di Mindfulness: Esplorare rifiuto e accettazione

© Nicoletta Cinotti 2022 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

 

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Far fiorire la propria vita

18/11/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Far fiorire la propria vita non è impresa da poco. Ad un albero richiede almeno un anno, fatto di pausa, preparazione e infine fioritura. Noi umani, si sa, abbiamo tempi lunghi anche se pretenderemmo di averli brevissimi.

Vorremmo che si realizzasse subito quello che desideriamo, come se attendere non fosse maturare ma disperare. Vorremmo soprattutto una continua pienezza che mostri le 4 stagioni in un unico attimo.

Invece non succede così. Alcune parti sono in ombra e quindi maturano più lentamente. Altre soffrono per lo strapotere di alcuni aspetti. Così spesso, al successo professionale paghiamo qualche prezzo che riguarda la vita personale. O viceversa.

Per tutto questo non servirà lo sforzo e nemmeno la critica. Servirà la pazienza e la generosità della semina. L’accettazione del processo e delle pause, perché la fioritura non è cosa da poco. Per noi umani occorre tutta la vita.

Riconoscere chiaramente cosa accade dentro di noi e considerarlo con una mente aperta e un cuore amorevole, è ciò che io chiamo un atto di Accettazione Radicale. Se teniamo indietro una parte qualsiasi della nostra esperienza, se chiudiamo fuori chi siamo e cosa sentiamo, diamo nutrimento alla paura e a quel sentimento di separazione che sostiene una trance: quella che ci impedisce di sentire il nostro valore. Una Accettazione Radicale scioglie alle fondamenta questa trance. Tara Brach

Pratica di mindfulness: Le parti esiliate: meditazione di reparenting

© Nicoletta Cinotti 2022 Be real not perfect: verso un’accettazione radicale

 

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Il rischio squisito: un cuore non difeso

01/09/2022 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Una delle metafore più usate per la trasformazione spirituale è quella del bruco nel bozzolo. Il risveglio avviene nel momento in cui il bruco realizza che è il momento per andare oltre e trasformarsi in una bellissima farfalla che vola in libertà. È una metafora molto utile, sia personalmente che come specie visto che noi viviamo in una specie di bozzolo formato dai nostri pensieri e dai nostri comportamenti egoici. Un bozzolo che ci è necessario nei primi stadi dello sviluppo ma poi arriva il momento di andare oltre.

Se non lo facciamo il bozzolo comincia a creare una pressione che ci lascia via via sempre più compressi perché siamo in un luogo troppo piccolo per il nostro spirito in crescita. La pressione che avvertiamo ci ricorda che abbiamo la possibilità di cogliere questa opportunità e uscire all’esterno. Altrimenti, se non lo facciamo, corriamo il rischio di una stasi del nostro sviluppo.

Per noi esseri umani uscire dal bozzolo non è un evento unico. Siamo continuamente chiamati ad uscire dal nostro bozzolo: il bozzolo delle nostre illusioni, il bozzolo delle nostre convinzioni limitate e dei comportamenti che ci tengono piccoli. È un processo continuo che ci permette di entrare in contatto con una realtà più ampia.

È qualcosa di simile al cambiare pelle: ogni volta che lo facciamo ci sentiamo più esposti perché la pelle nuova è più porosa della vecchia pelle ma permette più contatto, più flusso e un maggior senso di vulnerabilità.

Così vorrei riprendere una frase che ho sentito recentemente dal poeta Mark Nepo, che amo. Descrive il cambiare pelle come il “prendere un rischio squisito”
Ogni volta che usciamo dal confine ordinario della nostra realtà per entrare in contatto con qualcosa di più ampio, entriamo in contatto più pienamente con la vitalità ma questo consiste anche nel prendere un rischio squisito. Mi piace la parola squisito perché è connessa ad una qualità di bellezza, eccellenza, sensibilità e responsività. Squisito. E poi il rischio che è esporsi a qualcosa di pericoloso e ad una perdita. Vogliamo lasciar andare la nostra esperienza passata, quella che ci dava una certa misura di comfort, di sicurezza e cambiarla con qualcosa che è più straniero e più vitale. Questo è un rischio squisito.

Fondamentalmente percorriamo il sentiero del rischio squisito ogni volta in cui vogliamo essere pienamente presenti. È questa presenza non condizionata, che nasce dall’incontro aperto con ciò che è presente, il nostro rischio squisito.

Tara Brach

© www.nicolettacinotti.net  Rubrica Addomesticare pensieri selvatici

https://www.nicolettacinotti.net/eventi/un-cuore-coraggioso-ritiro-di-bioenergetica-e-self-compassion/

 

 

 

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Farmaci e meditazione

16/09/2017 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Qualche settimana fa ho pubblicato un post – che ha ricevuto moltissima attenzione – su meditazione e/o psicoterapia. 

Proseguo l’approfondimento con questo brano di Tara Brach su farmaci e psicoterapia. Molte persone mi chiedono, se prendo farmaci posso meditare lo stesso? Oppure se medito posso eliminare i farmaci? Ecco cosa dice la nostra autrice, insegnante di meditazione e psicoterapeuta.

Per alcune persone, indipendentemente da quanto seriamente si impegnano, la meditazione non basta. È necessario qualcosa d’altro per potersi sentire sicuri e avere un livello gestibile di paura.

Sia che la causa sia un trauma che una predisposizione genetica, la chimica dei neuromediatori e la conformazione del sistema nervoso porta alcune persone a livelli intollerabilmente alti di paura. Per loro la prescrizione aggiuntiva di ansiolitici e antidepressivi può offrire un aiuto, a volte cruciale, nel trovare quella sicurezza che permette di fidarsi degli altri e di seguire una pratica meditativa.

L’uso di antidepressivi per persone che meditano è un tema caldo. A volte le persone mi chiedono “prendo il Prozac, non sarebbe meglio se smettessi? Oppure “Il fatto che continuo a prendere antidepressivi non è come ammettere che la meditazione non funziona?” Molte persone sono spaventate all’idea di poter diventare dipendenti dal farmaco e di non poterne più fare a meno. Altri sono preoccupati che il farmaco diminuisca l’efficacia della pratica “I farmaci non offuscano la mia esperienza riducendo così l’accettazione?”. Una volta una persona mi ha chiesto addirittura “Non è impossibile che io arrivi allo stato di liberazione (lo stato di realizzazione massima nelle pratiche meditative n.d.t.) se continuo a prendere farmaci? È difficile immaginare che il Buddha prendesse Prozac sotto l’albero della Bodhi (L’albero sotto il quale ha raggiunto l’illuminazione n.d.t.).

È vero che alcuni dei più usati antidepressivi possono creare un senso di distanza dallo stato più acuto di paura, una sorta di ovattamento emotivo. È anche possibile sviluppare una dipendenza psicologica da un farmaco che produce un senso di sollievo.. Ma quando la paura è troppo grande, l’intervento medico, almeno per un certo periodo di tempo, può essere la risposta più compassionevole che possiamo dare. Come l’insulina per un diabetico, i farmaci ridanno equilibrio riportando uno stato dis-regolato verso la normalità.

Per alcune persone questo può essere un passo saggio e fondamentale sul sentiero spirituale. Ho visto persone che, dopo aver iniziato la terapia farmacologica, iniziavano finalmente a guardare a se stessi con consapevolezza e gentilezza amorevole. I farmaci, per alcune persone, rendono possibile il fermarsi e praticare.

I farmaci e la meditazione possono funzionare insieme. Mentre il farmaco riduce l’esperienza biologica della paura, la pratica di mindfulness può aiutare a sciogliere quel complesso di pensieri reattivi e sentimenti che vengono attivati dal loop della paura. Tara Brach

©www.nicolettacinotti.net “Addomesticare pensieri selvatici”  Foto di © Carmen Moreno Photography

È uscita una nuova edizione di Destinazione Mindfulness 56 giorni per la felicità. È diventato un ebook interattivo, con file di pratica, schede di esercizi e video. Acquistabile su Itunes

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