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comunicazione non verbale

Lo shock di un figlio: 4 cambiamenti radicali

04/06/2016 by nicoletta cinotti

La nascita di un bambino rappresenta un punto di rottura rispetto al prima, una rivoluzione delle abitudini, una specie di shock. Diventare genitori è un passaggio solo lontanamente immaginabile prima che accada. La fame, il sonno, i pannolini e i pianti ci costringono fin da subito a rivedere completamente le nostre priorità, a regolarci su ritmi nuovi, che possono anche esasperarci. Qualsiasi fantasia si potesse avere inizialmente, viene spiazzata dalla realtà di quello che è e sarà sempre un segno indelebile nella nostra vita. Ma cosa cambia più di tutto? Si possono sfruttare questi cambiamenti radicali per stare meglio? Che opportunità ci sono dietro le nostre notti bianche?

Cambiare velocità – A ritmo con la vita

-Sono io!

-Io chi?

-Pinocchio.

-Chi Pinocchio?

-Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.

-Ah, ho capito – disse la lumaca. – Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.

-Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.

-Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.

Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.

A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita lumaca.

-Lumachina bella – gridò Pinocchio dalla strada – sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità!

-Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.

La fretta ci accompagna per gran parte del nostro tempo. Ci arrabbiamo se in coda prima di noi c’è una persona tarda a capire, o se in macchina qualcuno dorme al semaforo: ci arrabbiamo nel nostro pieno diritto ad avere fretta. Sembra qualcosa di naturale e inevitabile.

Eppure un figlio è in grado di far dimenticare la fretta. Si fa aspettare per quasi un anno prima di essere pronto per uscire, poi si fa aspettare per quasi un altro anno prima di iniziare a camminare… Ancora un altro per iniziare a parlare. E noi, in tutto questo tempo, non abbiamo nessuna fretta. Impariamo a stare nel ritmo naturale delle cose, così come sono, nel loro naturale progredire.

Il figlio è uno specchio della realtà così com’è, del momento presente da cui spesso siamo lontani.

La sua imprevedibilità costringe a vivere momento per momento, sincronizzandosi con i suoi bisogni.

Con un figlio possiamo non essere più “quelli al semaforo”, quelli di fretta, che pensano solo al futuro, a quello che li aspetta dopo, ma imparare a sincronizzarci con la realtà come ci si presenta.

Cambiare direzione – Essere presenti per qualcun altro

Nei primi tempi dopo la nascita di un figlio si vive in una sorta di simbiosi con lui, si sincronizzano i tempi e le abitudini. Si sincronizza il respiro, il battito, le nostre emozioni. Lo teniamo in braccio, e mentre ci occupiamo di dare conforto e nutrimento, di prenderci cura di lui, ci accorgiamo che quello che viene fuori è la nostra parte più umana e più profonda.

Abituati a essere concentrati su noi stessi, ad essere noi la nostra direzione, ci troviamo a doverci concentrare su “altro da noi” in un modo nuovo e quasi totalizzante. La nostra presenza è fondamentale, se non ci siamo fisicamente manca il nutrimento e manca quella sicurezza che servirà al figlio per poter sviluppare un senso di fiducia e sicurezza verso il mondo esterno.

Richiede impegno questo passaggio dall’essere altrove, distratti dalle nostre preoccupazioni, all’essere presenti per qualcun altro. Camminando per strada ogni tanto vedo dei bimbi sul passeggino, che si guardano intorno curiosi o annoiati mentre le mamme e i papà sono completamente assorti dai loro cellulari. Se quando il genitore è intento a chattare il figlio inizia a piangere o chiamare, è possibile che l’adulto si spazientisca, che reagisca d’impulso: la sua risposta non sarà davvero connessa alla domanda – “Ci sei?”-, ma a qualcosa d’altro. In quel momento c’è una disconnessione.

Saper rispondere a questo bisogno di essere presenti, e non solo reagire d’impulso quando viene richiamata la nostra attenzione, è alla base dell’empatia. E’ come essere pronti per l’altro, essere in ascolto.

Un figlio può davvero far cambiare direzione al nostro sguardo, spesso concentrato altrove e chiuso ad ogni imprevisto. Ci fa voltare verso di lui, non solo parzialmente, per entrare in contatto con il “dare” nel suo senso più autentico, con la nostra capacità più autentica di amare.

Cambiare linguaggio – La voce del corpo, i codici della fantasia

C’è un altro stravolgimento che la nascita di un figlio porta con sé. Nelle prime fasi della vita il rapporto è soprattutto fisico, il contatto è fondamentale. Il corpo e la comunicazione non verbale si trovano ad avere, come raramente accade, un ruolo chiave. Perché i bambini non imparano subito a usare le parole.

Così diventa importante, più delle parole che pronunciamo, come li abbracciamo, come li guardiamo, il modo in cui sorridiamo o facciamo loro il solletico, la calma che può infondere la nostra voce. Siccome siamo abituati a dare molta importanza alle parole, ci troviamo quasi a riscoprire un nuovo linguaggio.

Allo stesso modo, mano a mano che i bimbi crescono, impareremo a capire e parlare la loro lingua, mantenendoci sul loro stesso livello. Per esempio, usando il linguaggio della fantasia: facendo arrivare i nostri messaggi attraverso storie, personaggi fantastici, usando codici a loro familiari. Impareremo ad ascoltare le loro passioni e le loro sensibilità, a vedere la loro immaginazione come un aiuto in più per noi, anche per insegnare loro passaggi utili e quotidiani. Per comunicare in modo creativo con loro, come per riuscire ad andare oltre le parole,vengono prima di tutto l’ascolto e l’osservazione del mondo misterioso che portano con sé.

Cambiare intensità – la forza delle piccole cose

Per un bimbo è tutto radicalmente nuovo, un bimbo è in grado di renderti partecipe della novità di ogni cosa, così come della grandezza delle cose più piccole. Un sorriso, un gesto, acquistano un’intensità completamente diversa. Tutto ciò che consideriamo ovvio, un bambino lo deve ancora imparare.

Mi ricordo ancora una delle prime volte che assistetti mia cugina nel fare il bagnetto al suo bimbo. Quel giorno fui testimone di alcune piccole scoperte, o progressi importanti. Ricordo il mio grandissimo stupore nel vedere quella scena. Mia cugina chiedeva: “Ale, dov’è il piedino?”, e lui rispondeva sorridendo e toccandosi un piede. Chiedeva: “Ale, e l’orecchio? Dov’è l’orecchio?” E lui ci pensava un po’, poi si toccava l’orecchio. Lo trovai meraviglioso.

I bambini, con i loro tempi “da lumaca”, sono la prova vivente che niente si può dare per scontato.

Tutto è cambiamento

Ogni età porta con sé le sue sfide e i suoi cambiamenti. I primissimi sconvolgimenti – e insegnamenti – sono semplicemente i primi di un percorso unico e imprevedibile. I figli crescono, cambiano e ci trasformano. Iniziano ad esplorare la loro individualità. In poco tempo, dal soddisfare ogni bisogno, ci troviamo a dover fare i conti con ogni capriccio. Quegli esserini che dormivano sempre diventano vulcani di energie che non dormirebbero mai. Da lì in poi saranno sempre diverse le situazioni in cui imparare ad andare a ritmo con la vita, ad andare oltre noi stessi,  a imparare nuovi linguaggi e a riconoscere la grandezza di ciò che apparentemente è minuscolo.

E noi siamo chiamati a stare nel cambiamento, a riconoscerlo e a prenderne parte.

© Silvia Cappuccio 2016 tratto dathe conscious parent

Foto di ©simply.present ©redwaves ©Out of the Blue Photography

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Le relazioni e la logica della prestazione

08/03/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Cresciamo dando moltissimo valore all’efficienza e ai risultati. Anzi, a dire la verità impariamo attraverso voti, pagelle e, qualche volta, graduatorie. Leghiamo strettamente i nostri risultati a quelli altrui: vediamo il nostro risultato e com’è stato quello del nostro collega. Tanto che ciò che facciamo non assume più solo un valore personale ma anche un valore di comparazione.

Può darsi che questo sia inevitabile. E in parte lo è. Ma c’è un area in cui la logica della prestazione rivela tutta la sua fragilità. Non possiamo essere efficienti nelle nostre relazioni, Non possiamo paragonare la qualità del nostro rapporto con altri rapporti. Nelle relazioni non possiamo vincere, se non a costo di perdere il legame affettivo. La logica della prestazione ci fa desiderare il meglio. Desideriamo il meglio anche per le persone che amiamo non possiamo ottenerlo con una prestazione.

Così, se manteniamo la nostra logica da prestazione anche nelle relazioni, possiamo rimanere davvero disorientati rispetto ai risultati che otteniamo. Perché in una relazione i risultati sono relativi e quello che conta è, invece, il contatto e l’intimità che qualificano il legame. Solo il contatto e l’intimità possono darci la flessibilità, la saggezza, l’elasticità di tollerare gli imprevisti di una relazione; per dare significato a quello che succede e per crescere dai reciproci errori.

La logica della prestazione, spostando l’energia sull’immagine di noi, ci sottrae proprio l’alimento indispensabile per qualunque rapporto umano: l’ascolto. La prestazione è come parlare: e più siamo bravi e più siamo in un assolo. La relazione è ascoltare e più siamo in contatto più il nostro ascolto è profondo.

La vita non è come si pensa che sia. È quello che è. Come ti relazioni con quello che c’è però fa la differenza.Virginia Satir

Pratica di mindfulness: Ascoltare profondamente

© Nicoletta Cinotti 2016 Cambiare diventando se stessi

 

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L’indice e la bibliografia delle parole

01/03/2016 by nicoletta cinotti Lascia un commento

Le parole, ne sono certa, contengono energia. Non si spiegherebbe altrimenti come mai alcune parole possono ferire così profondamente e altre sollevare così inaspettatamente.

Un’energia che va al di là del significato specifico, altrimenti non si spiegherebbe come mai la stessa parola in momenti diversi ha un peso specifico così aderente alla realtà del momento. Quindi è certo: le parole contengono un’energia che va al di là del loro significato e che fa sì che siano un’indice della nostra storia.

Solo così posso comprendere perché la stessa parola detta da mio padre non è uguale a quella detta da mia madre. E forse hanno anche una bibliografia perché non ci sarebbe altrimenti ragione del perché una parola rimane muta per alcuni e per altri è invece una specie di enciclopedia.

Alcune parole poi raccontano storie lunghissime e altre solo attimi, quindi devono avere anche un ritmo interno. Forse è per questo che Dio creò il mondo con un suono, una parola, un verbo. Forse è per questo che le preghiere sono fatte di parole e non di movimenti. Eppure suonano come una danza.

Alcune parole poi hanno dentro azioni e altre contemplazioni. Così come alcune sono magiche e altre sono incantesimi.

Quindi è certo: le parole che contengono verità rivoluzionano il mondo.

Per dire la verità dobbiamo conoscerla. Poiché ci riferiamo ad una verità soggettiva, la verità della nostra esperienza, abbiamo bisogno di ascoltarci internamente per discernere la verità. Gregory Kramer

Pratica di mindfulness: Centering meditation

© Nicoletta Cinotti 2016 Cambiare diventando se stessi

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La lingua dei segni, una lingua a tutti gli effetti

13/12/2015 by nicoletta cinotti

 

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Sono contento che si parli del mondo dei sordi che è un mondo più piccolo di quello degli udenti ma è cominciato molto tempo fa. Ai tempi degli ebrei – cioè prima di Cristo – ci sono già testimonianze che parlano di sordi nel mondo degli udenti, che vivevano ai margini della società. Anche nell’antica grecia abbiamo testimonianze della presenza di sordi, ma si trattava sempre di persone emarginate. Troviamo la stessa situazione anche durante l’impero romano fino a che, attorno al 1800, sono nati i primi istituti per persone sorde che hanno iniziato a raccogliere ragazzi sordi e ad ospitarli per dare loro una istruzione.

In queste scuole si usava tantissimo la lingua dei segni e i ragazzi avevano accesso a molte informazioni e potevano comunicare tra di loro. Questo fino al 1880 quando la lingua dei segni (LIS) è stata abolita. Finita questa esperienza le persone uscivano nel mondo reale e non trovavano un punto di riferimento che, invece, era presente nelle scuole a loro dedicate. Così sono iniziate a nascere delle associazioni che sono cresciute nel tempo e sono diventate sempre più forti e hanno contribuito al formarsi di una nuova identità per le persone sorde.

Quindi è dal 1800 che abbiamo una comunità che usa la lingua dei segni. Mancava però la consapevolezza che si trattasse di una lingua vera e propria, anche se veniva usata quotidianamente.

I medici, per esempio, non hanno mai sostenuto l’utilizzo della lingua dei segni: per l’udente si trattava di un modo di gesticolare, un modo di esprimersi negativo. Questo pregiudizio ha portato i sordi a segnare in modo nascosto.

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Nel 1950, negli Stati Uniti, un professore di matematica che conosceva la LIS, anche se era udente, la utilizzava durante le lezioni che teneva ai sordi e condusse una ricerca proprio sul suo sviluppo. Come sapete la lingua dei sordi americana ha proprie regole grammaticali e ha lo stesso valore della lingua dei sordi italiana. In Italia si è occupata della LIS, Virginia Volterra, (dirigente di ricerca presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, coordina da diversi anni progetti sull’acquisizione e lo sviluppo del linguaggio in condizioni tipiche e atipiche) una linguista che presenta in un libro la struttura della LIS

Ciascuna comunità di sordi tramanda da una generazione all’altra una sua lingua, per cui non esiste una lingua dei segni universale, ma tante diverse (francese, americana, britannica, ecc.) quante sono le comunità di sordi. Questo libro contiene la prima descrizione sistematica della lingua dei segni usata dalle persone sorde in Italia, denominata Lis. Il volume, qui presentato in una edizione aggiornata, è indirizzato non solo a coloro che sono direttamente impegnati nelle problematiche della sordità e dell’educazione dei bambini sordi, ma anche a ricercatori e studiosi interessati alle tematiche più generali della comunicazione e del linguaggio e, infine, a chiunque desideri conoscere la ricca seppure minoritaria realtà linguistica e culturale dei sordi. Virginia Volterra

Questo libro è nato da una serie di interviste e ricerche condotte direttamente sulle persone sorde che le ha permesso di raccogliere informazioni di prima mano, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, definendone regole e grammatica.

Qui siamo nella sala della borsa dove un tempo si incontravano gli agenti per vendere e comprare e usavano tantissimo la gestualità, anche se non possiamo parlare di una lingua. Usavano sicuramente un codice che aveva le sue regole, le regole del mondo della borsa, degli affari. Anche se non possiamo parlare di lingua possiamo però dire che usavano un codice comunicativo come accade nella Pallavolo dove si usano i gesti per indicare i vari movimenti della palla e dei giocatori sul campo. È un codice che usano in maniera limitata non come nella lingua dei segni.

L’italiano usa un canale uditivo vocale, mentre la LIS usa un canale visivo-gestuale: questa è la differenza.

Gli occhi sono molto importanti nella LIS; i sordi non usano solo la LIS ma anche il labiale, anche detto metodo oralista. Entrambi questi metodi hanno lo stesso valore. I genitori udenti di un bambino sorso possono scegliere il metodo che preferiscono. Per un bambino sordo molto piccolo il linguaggio oralista non è altrettanto efficace quanto la lingua dei segni che può portare ad uno sviluppo più ricco, al pari di quello degli udenti.

Nell’educazione comunque sia il metodo oralista che la LIS possono essere validi per permettere al bambino di affrontare sia il mondo dei sordi che quello degli udenti.

La cosa importante è l’accessibilità alle informazioni: se non si ha accesso alle informazioni con l’oralismo sarebbe meglio averne almeno l’accesso con la LIS, altrimenti è come scrivere con un pennarello che non ha un inchiostro visibile. Devo cambiare pennarello per dare accesso all’informazione. Ecco perché sarebbe meglio avere un doppio canale di accesso: con l’oralismo e con la LIS.

I parametri dei segni e la fonologia della lingua

C’è una linguistica per l’italiano e una per la LIS. L’italiano studia la strutturazione delle parole. Un insieme di fonemi diventano una parola. La parola mela, per esempio, inizia con M. Ma se cambiamo l’iniziale con una V diventa Vela, di questi aspetti si occupa la fonologia.

Anche i segni hanno una fonologia che funziona in modo diverso. Le unità minime dei segni non sono i fonemi ma i parametri. Ci sono 4 parametri nella LIS: configurazione, luogo, movimento e orientamento. Sono stati studiati da William Stokoe. Abbiamo una forma della mano con cui eseguiamo il segno (configurazione). Con questa configurazione posso fare diversi segni e, cambiando configurazione ne posso fare altri. Il secondo parametro è il luogo di articolazione del segno con uno spazio vicino al volto. Poi abbiamo il movimento, avanti e indietro, un movimento singolo o in contatto con l’altra mano. E, infine l’orientamento che si riferisce al palmo della mano, verso il segnante e verso il ricevente. Guardate, per esempio questi due segni (Francia e Gallo): cambiando il luogo cambiamo il significato. Perchè sono simili? Perchè anticamente i francesi portavano un cappello con una piuma che diventava simile alla cresta di un gallo.

La grammatica della LIS

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Chiara Sparviero durante il suo intervento

Nella LIS abbiamo le stesse funzioni grammaticali organizzate però in modalità diverse. Per esempio se in italiano vogliamo dire che la palla è sul tavolo, la palla (soggetto) va al primo posto, poi c’è il verbo e infine il complemento di stato in luogo. Nella LIS mettiamo il tavolo al primo posto, poi mettiamo la palla (soggetto)e infine lo spazio. Se sul tavolo ci fosse un animale, un gatto per esempio, sarebbe la stessa cosa. Il tavolo andrebbe al primo posto, poi metteremmo il gatto e infine, con una configurazione diversa rispetto a prima la relazione con lo spazio.Queste sono le caratteristiche della LIS, espresse attraverso classificatori, forme diverse a seconda dell’oggetto. I classificatori sono legati ai verbi e possono esprimere uno stato di luogo e un moto a luogo, un movimento.Per esempio “Il gatto salta sul tavolo”: questo verbo si esprime con un classificatore.In Italiano c’è una poesia che ha la forma scritta e la forma in LIS. Anche la LIS ha la sua poesia che è molto bella e coinvolgente; la poesia usa molto i classificatori. Questa configurazione (fa un gesto sottile) si riferisce a qualcosa di molto piccolo, aumentando la configurazione aumentano le dimensioni dell’oggetto in questione, fino ad arrivare a dimensioni sconfinate.Si usano molto anche le espressioni del volto per comunicare una dimensione di lontananza o vicinanza o qualcosa che si estende per moltissimi chilometri, oppure un terreno ondeggiante. Anche i rumori possono essere espressi attraverso dei gesti: questo è il rumore dell’acqua. Un rumore che non udiamo ma vediamo. L’acqua che rimbalza e tocca il greto di un fiume e poi continua il suo percorso lontano lontano fino ad arrivare a gettarsi in mare.

E’ l’aprirsi di occhi a lungo chiusi.
E’ la visione di cose lontane
viste per il silenzio contenuto in esse. David Whyte L’aprirsi degli occhi

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A seguire i ragazzi dell’Ente hanno raccontato le loro esperienze di vita (Nella foto Chiara Sparviero) e nel pomeriggio Massimo Bonamini ha tenuto un laboratorio di Lis, in cui udenti e non udenti hanno parlato la stessa lingua: quella dei gesti e quella delle espressioni emotive. (Le foto sono tratte dal laboratorio di Massimo e dai successivi laboratori

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Due ragazzi sordi – che hanno arricchito ogni laboratorio con la loro presenza – durante il “Teatro in silenzio di Silvia Sacco. Un grazie per la loro piena comunicazione!!!

© tratto dalla relazione di MASSIMO BONAMINI, CONSIGLIERE ENTE NAZIONALE SORDI GENOVA 2015

 

Due ragazzi sordi – che hanno arricchito ogni laboratorio con la loro presenza – durante il “Teatro in silenzio di Silvia Sacco. Un grazie per la loro piena comunicazione!!!

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