
Ero in bicicletta, qualche giorno fa, in una via del capoluogo oppressa dal traffico del primo mattino. Involontariamente, assisto a un violento alterco tra due automobilisti, con moglie e figli a bordo, per un presunto “furto” di posteggio. Evitando di entrare nel merito della diatriba, condita di parole pesanti, notavo tuttavia maggiore aggressività in chi, per occupare quello stallo, stava compiendo una manovra palesemente scorretta, civilmente sanzionabile.
Il dispregio delle regole basilari di convivenza, per imporre un punto di vista: il proprio. Risolutorio. Assoluto. Pure, mi domandavo se quella contesa, banale se rapportata a conflitti di ben altra natura, fosse frutto di una reazione consapevole, o non piuttosto di un impulso irrazionale derivante, in parte, dalla frenesia che consuma le nostre giornate, ne divora gli spazi e ci lascia senza respiro, carichi di stress altamente nocivi. E ci impedisce di alzare lo sguardo oltre la nostra fetta d’asfalto.
Mi chiedo: stiamo davvero uscendo da quella lunga fase d’ebbrezza da egocentrismo, di culto dell’”io-narciso” che ha caratterizzato, come dicono ormai da tempo molti sociologi, almeno gli ultimi trent’anni? Vi è davvero un’ansia di “vita buona“ come titolava una recente indagine statistica sulle attese degli italiani, documentando la graduale volontà di uscire dalla crisi che sembra aver congelato le relazioni economiche quanto quelle tra le persone?
Io ne sono convinto. Quest’ansia c’è: dobbiamo solo ritrovare le chiavi per aprire, con coraggio, la porta a domande latenti. Ravvivare la brace sotto la cenere.
Una prima constatazione: il nostro contesto culturale sembra aver smarrito una dimensione interiore e aperta al trascendente. Riscoprire la propria interiorità significa porsi anzitutto in ascolto. Quanto poco ascoltiamo davvero gli altri. E quando ci disponiamo a questo atteggiamento, rischiamo in realtà di far rimbalzare su di noi parole che scivolano via, spazzate dal vento della fretta e dell’indifferenza. A ben guardare non poniamo nemmeno attenzione all’ascolto di noi stessi, all’onesta percezione delle nostre emozioni. “L’attenzione – scrive lo psichiatra Eugenio Borgna, ospite nell’autunno scorso a Trento – è una delle premesse necessarie a conoscere non solo le esperienze interiori degli altri, le loro attese e le loro speranze, le loro lacerazioni dell’anima e la loro gioia (…) ma anche le nostre esperienze interiori, che così facilmente sfuggono alla nostra attenzione e delle quali come potremmo non essere responsabili? “
Non avrei dubbi da dove ripartire per ritrovare spazi di vera interiorità: dobbiamo anzitutto riassaporare la bellezza del silenzio. Silenzio come condizione primaria dell’ascolto, in primo luogo, di noi stessi. Silenzio come capacità di recuperare il linguaggio delle emozioni, la voce del cuore. Far vivere le emozioni dentro di sé e riconoscerle, come modo per riconoscere le emozioni e le attese altrui, sentirsene parte, prendersene cura. Vi è poi un silenzio come via, l’unica via, verso la trascendenza. Dio non ci raggiunge e non si fa trovare nel rumore e nella chiacchiera, colonna sonora dominante delle nostre giornate. Carlo Maria Martini
www.nicolettacinotti.net “Addomesticare pensieri selvatici” Foto di © Giovanni-Bianco
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