
Quando guardiamo siamo attirati dagli oggetti, dalle forme e quindi lo spazio tra un oggetto e l’altro finisce solo per disegnare la distanza. Eppure quello è lo spazio nel quale ci muoviamo. Uno spazio senza il quale finiremmo soffocati.
Quello spazio – che noi chiamiamo vuoto – dà la forma e l’armonia agli oggetti e alle cose. Restituisce a loro la dimensione e a noi la possibilità di muoverci e apprezzare la forma.
Quel vuoto – così necessario – è quello che coltiviamo nella pratica. Nella pratica – che sia di bioenergetica o di mindfulness – noi coltiviamo lo spazio di vuoto per poter dare un senso al pieno delle nostre esperienze e al pieno della forma che le cose prendono. Senza quel vuoto le nostre esperienze, i nostri pensieri, le nostre sensazioni diventano affollate e diventa difficile attribuire loro un significato.
Possiamo incontrare quel vuoto anche nella vita quotidiana: si incontra nei tempi dell’attesa. Quando sappiamo che qualcosa verrà ma ancora non c’è. Non è solo i mesi dell’attesa che nasca un bambino. Molti momenti sono momenti di attesa. Tra quando nasce un’idea e quando prende forma. Tra un desiderio e la sua possibile realizzazione. Anche il silenzio è una forma di attesa. È un dare forma al vuoto perchè il vuoto possa definirci. Perchè – alla fine – quello di cui abbiamo bisogno è un senso di spaziosità. Quella spaziosità che è lo spazio dell’attesa, del silenzio, del vuoto.
Con un maggior senso di spaziosità riusciamo più facilmente a rimanere presenti rispetto a qualunque cosa venga in mente e a essere più indulgenti con noi stessi quando le migliori intenzioni vanno storte. Segal, Teasdale, Williams
Pratica di mindfulness: Il suono del silenzio
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