
Potrei nascondermi dietro ad un interesse professionale per l’acquisto di questo libro, “La vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi e non sarebbe una bugia, come vedrai continuando a leggere questo post. Ma non sarebbe nemmeno la verità. L’ho comprato subito e divorato per ragioni personali. Perché capisco, da sempre, il dolore di chi sceglie di non farcela più e cercando una via d’uscita, prende la strada del suicidio. È vero, è un atto di terribile egoismo ma il dolore rende egoisti perché a volte diventa insopportabile. Allora la fantasia che dopo la morte possa esserci pace prende il sopravvento anche se dati certi in materia non ne abbiamo nessuno (anzi fino a non molti anni fa chi si suicidava non aveva un funerale cattolico e una sepoltura in terra consacrata: non un grande inizio per chi cerca la pace!).
Accanto a questo, per strano che possa sembrare, in chi si suicida c’è l’intenzione di risparmiare alle persone care il peso del proprio dolore o della propria follia: sembra strano ma è anche così. L’idea che la vita di chi resta possa essere molto peggio di qualsiasi pesantezza condivisa non sembra plausibile. Contemporaneamente mi sono trovata, molte volte, ad ascoltare il dolore di chi resta e cerca, una ragione e una soluzione per la sua vita, una soluzione che gli permetta di riprendere a vivere dopo quello che è, davvero, un olocausto, la sparizione del tuo mondo per come lo conoscevi prima.
Il suicidio è e rimane un mistero, anche quando è accompagnato da lunghe lettere di spiegazione. Non è comprensibile perché l’amore di chi resta non sia stato sufficiente e spesso non è comprensibile nemmeno l’intenzione di togliersi la vita, che viene minimizzata come è successo nel caso di S. Eppure i segnali c’erano (almeno per chi fa il mio lavoro). Erano segnali che indicavano l’intenzione: perdita del lavoro, alcolismo, disorganizzazione della vita relazionale, promiscuità, promesse non mantenute. Perché i segnali non vengono visti o, come in questo caso, creduti? Perché la parte suicidaria è una parte, spesso tenuta velata o nascosta, e non tutta l’identità della persona. Per un periodo che può essere di durata variabile c’è un braccio di ferro tra chi vuole vivere e chi vuole morire e in quel periodo i segnali sono come le briciole di Pollicino: scompaiono velocemente e non danno la possibilità di intervenire efficacemente. S aveva preparato il suicidio. Non per tutti è così. A volte è un atto impulsivo, a volte avviene sotto l’effetto di una sostanza. Chi resta ha avuto dubbi, sensazioni contraddette dalla parte che vuole vivere (o che vuole suicidarsi di nascosto). Non basta l’assoluzione per superare il dolore, come racconta Matteo B.Bianchi. Il dolore bisogna attraversarlo perché si trasformi. E ci vuole tempo: è un processo dinamico che continua e che richiede pazienza, coraggio e capacità di tollerare. È per questo che il timore più grande che suscita un suicidio familiare è quello del contagio: perché il dolore di chi resta è così grande che potrebbe spingere ad una soluzione simile.
Così il lavoro di sostegno ai sopravvissuti è fondamentale. Matteo cerca una soluzione in tutti i modi possibili. Poi la trova, secondo me, grazie ad Alberto, che ha condiviso una perdita simile alla sua ma che è più pronto ad aprirsi all’amore. Sì perché alla fine credo che l’unica cura – che non dà certezze – è l’amore, come dice Eskol Nevo ne “La simmetria dei desideri”. Quando il dolore è così grande solo l’amore lo può curare, perché l’amore riattiva una risorsa interna. E questo fa la differenza. Non dobbiamo ricoprire d’amore, amare per salvare. piuttosto è necessario che la persona riconosca di essere amata e che questo riconoscimento riattivi la fiducia che risiede dentro ognuno di noi: la fiducia che va oltre la paura di vivere.
Il libro è scritto magnificamente (ma che lo dico a fare?), con una scrittura a diapositive, che è la scrittura autobiografica che amo di più, con ampi spazi bianchi che lasciano al lettore il tempo di respirare. Poche citazioni che ti inchiodano ancora di più delle parole che leggi, anche se sei già inchiodato alla lettura. È un libro che va riletto tante volte perché è un libro a cipolla: prima leggi la storia delle relazioni intrecciate – molte – sia lavorative che amicali e familiari. Poi, inevitabile per me, emerge l’ipotesi diagnostica legata alla personalità di S. e alle tracce da Pollicino che raccontano la sua storia. “Tornare dal padre” è una perla che ha guidato la mia diagnosi. Poi leggi il processo di elaborazione del lutto di Matteo e infine leggi il processo di scrittura. Sono sorpresa che Matteo abbia potuto scrivere altri libri prima di questo: significa che è davvero uno scrittore ma questo libro, nella sua carriera di scrittore, va messo “fuori categoria” perché batte qualsiasi altra lettura.
Lascio un riferimento: l’associazione Soproxi Onlus che si occupa dei sopravvissuti e organizza regolarmente seminari residenziali e attività culturali. Un lavoro prezioso coordinato da Paolo Scocco, collega e amico, docente di Suicidologia all’Università di Padova, facoltà di psichiatria.
E una bibliografia di libri che ho amato sull’argomento (tutt’altro che esaustiva):
Una vita degna di essere vissuta, di Marsha Linehan, Cortina editore Psicologia
Se la morte di ha tolto qualcosa tu restituiscilo di Naja Marie Aidt, Utopia editore Narrativa autobiografica
L’arte di legare le persone, Paolo Milone, Einaudi editore Narrativa autobiografica
L’opera di Chiara Fumai, che ha raccontato il suo suicidio in una performance, ben prima di farlo
Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino, Einaudi editore Narrativa autobiografica
Un libro di guarigione di Gaia Rayneri, Harper & Collins Narrativa autobiografica
Superare il disturbo borderline di personalità,Valerie Porr, Erickson Psicologia
© Nicoletta Cinotti 2023 Addomesticare pensieri selvatici