
Ho passato l’ultima settimana in ritiro. Un ritiro silenzioso con Stephen Batchelor e Martine Batchelor. Durante i ritiri manteniamo il silenzio. Non é una cosa nuova per me, anzi é una situazione piacevole. Questa volta però mi ha colpito come é stato presentato il silenzio: come una esperienza di solitudine.
L’esperienza della solitudine
Per sperimentare la solitudine non è necessario un ritiro. Molte persone provano un senso di solitudine anche dentro una vita piena di impegni e attività. E molte persone hanno, con la solitudine, un rapporto ambivalente. La cercano e la sfuggono insieme. La cercano perché la solitudine spesso si accompagna ad un senso di preziosa libertá. Nello stesso tempo c’è qualcosa nella solitudine che assomiglia alla punizione. Al sentire che sei rifiutato o escluso da ciò che, invece, gli altri condividono.
La solitudine come protezione
Così spesso la solitudine mi ha fatto compagnia in questi giorni e ha orientato la mia pratica. Ho trovato, della solitudine, tante declinazioni e vorrei percorrerle insieme a te.
La mia casa dell’infanzia aveva due giardini: uno sul retro che confinava con i giardini e gli orti di altre proprietà e uno sul davanti che era il giardino che dava sulla strada. Mia madre non voleva che giocassi nel giardino antistante la casa. Si sentiva più sicura se stavo sul retro dove, però, non passava mai nessuno. Sul giardino esterno avrei potuto parlare con i passanti, incontrare gli altri bambini. Nel giardino sul retro era impossibile. Lei lo preferiva. Diceva che non bisogna essere sfacciati. Allora pensavo che la parola “sfacciati” volesse dire che una persona stava sulla facciata della casa. Poi ho parzialmente risolto l’equivoco e capito che il significato era diverso di qualche sfumatura. Ma non di tante. Con il tempo ho imparato ad amare il giardino segreto, quello del retro. Potevo stare lì indisturbata per tutto il pomeriggio, fino a che non veniva freddo o fino a che non arrivava il buio. È stato un compagno di giochi ricco e interessante che ha dato voce alla mia fantasia. E, soprattutto, mi ha insegnato il gusto tiepido e soddisfatto che può avere la solitudine.
In quel momento però avrei preferito il giardino davanti perché avevo sempre voglia di parlare ma lei diffidava del vicinato e, forse, dell’inopportuna tendenza dei bambini a dire troppo. Così ero autorizzata a giocare fuori, senza la sua supervisione, solo sul retro. Parte che anche lei preferiva. Dopo un po’ di tempo ho iniziato anch’io ad avere difficoltà a stare sul davanti perché la solitudine é così: ci si abitua a quel senso di protezione e anche conforto che offre e poi ci sembra troppo faticoso uscire fuori. Si diventa, paradossalmente, dipendenti da quella solitudine che spesso non abbiamo scelto.
La solitudine che scegliamo
Poi c’è la solitudine che scegliamo per evitare conflitti o tensioni. Ci sono persone che, nel tempo, ho preferito evitare. Il prezzo della loro compagnia era il conflitto. Certo è stimolante avere un interlocutore con il quale discutere ma questo non può superare un certo livello di tensione. Altrimenti la solitudine ci parrà molto migliore della sua compagnia. É vero che la relazione, in generale, porta sempre un elemento di difficile previsione e, a volte, é molto più semplice stare da soli che in compagnia. In questo caso la solitudine è scelta perché ci calma laddove, invece, la relazione ci agita. A volte usiamo consapevolmente la solitudine per calmarci e tornare poi in relazione. In molte scuole anglosassoni c’è la Quiet Room, una stanza dove i bambini possono andare per calmarsi. Misura da usare con cautela perché potrebbe facilmente sconfinare nel considerare la solitudine uno strumento di correzione .
Quali sono le cose che si possono fare da soli?
Ci sono delle cose poi che si possono fare solo da soli. Studiare, per esempio, è una attività che possiamo fare in gruppo ma che, alla fine, richiede sempre anche un momento di riflessione personale. Lo stesso vale per lo scrivere e il leggere. E per qualsiasi attività creativa. Anzi potremmo dire che la solitudine e la capacità di stare da soli sono un elemento importante nella formazione della creatività individuale. Per Winnicott – pediatra e psicoanalista inglese – il momento in cui il bambino impara a giocare da solo è uno dei più significativi. Ed è quello che garantisce una certa solidità di carattere: il bisogno degli altri ci rende dipendenti ed eccessivamente accondiscendenti.
Il mio lavoro, per esempio, é un lavoro molto solitario. Siamo legati al segreto professionale e, comunque, al rispetto di una serie di regole di setting – definite anche “regole di astinenza” – che lo rendono solitario anche se siamo con un’altra persona nella stanza. Anche nascere e morire sono due esperienze solitarie, anche quando sono circondate dall’affetto di tante persone. É sola la mamma, é solo il bambino. Frederic Leboyer dice che é per questo che tra il travaglio e la fase espulsiva c’è un momento di quiete. É il momento in cui mamma e bambino si salutano prima della separazione finale. Sono stati tanti mesi insieme e sanno che poi inizieranno una nuova vita, separati. Quindi hanno bisogno di quel momento di saluto, di quella quiete. Invece spesso é quello il momento in cui i sanitari vanno in ansia e intervengono. Interrompendo il saluto e affrettando la separazione. Perché spesso l’avvicinarsi del saluto, della separazione,della solitudine ci fa così paura che l’anticipiamo. Ho visto tanti amanti lasciarsi troppo presto solo perché presentivano la fine del loro amore. Aspettare il momento giusto del saluto ” la lama giusta del congedo” é una difficile arte.
[box] “Il tempo del congedo è coltello giusto la sua lama piú evidente della mia pelle –rotta –simile all’amore introvabile: un adulto di spalle ti fa vedere l’anima.” Chandra Livia Candiani[/box]
La domanda che apre la solitudine
Alla fine, per me, la solitudine apre sempre la stessa domanda di quando ero bambina: come passare dal giardino dietro al giardino davanti? Come passare dal claustrum, luogo nel quale ci incontriamo intimamente, alla relazione? Chiedo quindi soccorso alla poesia. Alla fine sono spesso le parole della poesia che fanno da transizione tra l’interno e l’esterno.
In questo caso é Hafez, poeta persiano del XIII-XIV secolo.
Lui dice: ” Non arrenderti troppo velocemente alla solitudine. Lascia che tagli in profondità, che fermenti e maturi, come pochi ingredienti, umani o divini sanno fare
Don’t surrender your loneliness so quickly. Let it cut more deep. Let it ferment and season you As few human or even divine ingredients can”
La solitudine quindi come qualcosa che taglia, fermenta e fa maturare ma qualcosa a cui rischiamo di arrenderci troppo presto e troppo presto cercare compagnia. Ho visto molte relazioni iniziare non per scelta ma per chiudere la falla della solitudine. Relazioni che, ovviamente, finivano per lasciare più soli di prima. Pessima ragione per iniziare una relazione, la solitudine. Rischiamo di partire con il piede sbagliato, quello dell’accontentarsi. Rischiamo di non scegliere la persona ma di scegliere la compagnia. E raramente funziona.
Cosa taglia nella solitudine?
Cosa c’è che taglia nella solitudine? Probabilmente ci sono tante risposte diverse. Tante quante le persone che si fanno questa domanda. Per me quello che taglia é la paura di essere stata lasciata sola: per punizione.O la paura di essere sola perché non so stare con gli altri. O la paura, infine, di essere diversa. Poco commestibile. Se guardo la mia vita nessuna di queste paure é proprio vera e nessuna é totalmente falsa.Il punto é che la solitudine ti lascia nuda e cruda davanti a te stessa. Senza sconti e senza inganni. É, a volte, una sorta di repertorio morale di se stessi dove é impossibile mentire. É questo che amo della pratica: mi mette a nudo offrendomi la forza delle mie verità e delle mie potenzialità anziché il clamore delle difese. É per questo che, a volte, é cosi difficile chiudere gli occhi: perché li apri su di te.
E, nell’aprirli, la solitudine mostra sempre quello che manca. Se manca qualcosa stai certo che é li ad aspettarti nei momenti di solitudine. Busserà alla porta di sicuro quando sei da solo. Per nascondersi quando sei in compagnia. É per quello che molte persone evitano di stare soli. E se non c’è una compagnia reale c’é sempre la possibilità di quella virtuale. Una soluzione sempre a portata di mano. Perché purtroppo oggi tendiamo a considerare un elemento di successo l’essere in compagnia.
[box] C’è qualcosa che manca al mio cuore stasera. Qualcosa che ha reso i miei occhi dolci e la mia voce tenera. E il mio bisogno di Dio assolutamente chiaro.
Something missing in my heart tonight Has made my eyes so soft My voice so tender My need of God Absolutely clear. Hafez[/box]
L essere in relazione come status symbol
Per molte persone la solitudine è un fallimento. Qualcosa che dichiara un insuccesso. Non avere una compagnia per le vacanze, i fine settimana, non avere una relazione affettiva stabile é qualcosa di imbarazzante e, nello stesso tempo, sono sempre più rari i luoghi naturali di incontro. Sostituiti da delle applicazioni sul cellulare, per superare gli incerti degli incontri naturali. Se si é soli si rischia l’ imbarazzo al ristorante, al cinema e il sovrapprezzo in albergo. La paura di invecchiare da soli o di morire da soli è una delle più forti e diffuse e spesso, anche se la persona solitaria non ne soffre affatto, proviamo un moto di compassione verso chi crediamo sia solo,
[box] Scendere verso l’autunno e continuare ad amare. Luigi Nono[/box]
Per evitare questo “insuccesso” sviluppiamo una sorta di pazienza verso la compagnia non adeguata. Sopportiamo le difformità e divergenze non per amore della diversità ma per paura della solitudine. Vivendo in una cultura che ci offre qualsiasi divertimento per riempirla a piene mani, a pieno titolo. Perché la nostra cultura sa benissimo che un essere umano che tollera la solitudine è una persona poco manipolabile.
Un ingrediente che fermenta e matura
Come dice il poeta la solitudine ci cambia, fermenta e matura certe nostre qualità. A quale condizione? Quand’è che la solitudine ci matura? Quando diventa “beata solitudine”? Anche qui credo che la risposta possa e debba essere personale. Per me sta nella misura della mancanza. Quando ciò che mi manca diventa spinta creativa anziché vuoto da colmare la mia solitudine è beata ossia foriera di beatitudine. Quando mi considero un progetto in divenire piuttosto che un essere incompleto, la solitudine è un ingrediente essenziale per la mia (e altrui) fioritura. Anche qui la poesia descrive molto bene quel processo di cura della solitudine.
[box] Se fossi in te, non curerei troppo la pianta. Quelle attenzioni premurose potrebbero danneggiarla. Smetti di zappare e lascia riposare il terreno e aspetta che sia secco prima di bagnarlo. La foglia trova da sola la propria direzione; …dalle la possibilità di cercare il sole per conto suo. Troppi stimoli e una tenerezza troppo assillante arrestano la crescita. Dobbiamo imparare a lasciare sole le cose che amiamo.
I wouldn’t coax the plant if i were you. Such watchful nursing may do it harm. Let the soil rest from so much digging. And wait until it’s dry before you water it. The leaf’s inclined to find its own direction; give a chance to seek the sunlight for itself. Much growth is stunted by too careful prodding, too eager tenderness. The things we love we have to learn to leave alone. Naomi Long Magdett
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Così, in questo ritiro sono tornata al giardino dietro della mia infanzia. A quel silenzio e a quel sapore, tanto amabile. Alla mia solitaria natura. A quella che mi ha permesso di navigare tanto in solitaria, seguendo le rotte della mia intuizione. Ho guardato con gratitudine a quello spazio interiore che la solitudine mi concede. Alla cura del progetto umano non finito che nella solitudine coltivo. Poi sono tornata a casa. Mio figlio aveva fatto il ritiro anche lui. Non con me perché un ritiro si fa sempre da soli. Mio marito no. Era a casa. Ha imparato ad amare la mia solitudine, eppure la patisce. E mi ricorda così che ogni solitudine è misura della relazione.
© Nicoletta Cinotti 2017
© Verso un’accettazione radicale