[box] A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Costituzione americana 4 Luglio 1776[/box]
Questo articolo è la relazione presentata a Bressanone al Convegno Internazionale per i 15 anni del Centro Terapeutico Bad Bachgart.
Cos’è che rende così centrale la nostra ricerca di felicità? e in che modo possiamo perseguire questa ricerca propriamente e impropriamente? Certamente se chiedessimo ad un gruppo di persone se desiderano la felicità troveremmo moltissimi consensi. Ma che cosa significa essere felici?
Il rapporto mondiale sulla felicità ha evidenziato 4 elementi alla base della felicità:
- la possibilità di rafforzare le emozioni positive;
- la possibilità di guarire o riparare dalle emozioni negative;
- la capacità di avere emozioni pro-sociali come empatia e altruismo;
- la capacità di avere un’attenzione focalizzata (strano a dirsi ma la distrazione correla con la sensazione di insoddisfazione)
La radice delle emozioni positive
La radice di tutte le emozioni positive è all’inizio della nostra vita emotiva. Riguarda, e questo non sorprende, l’esperienza di accudimento e attaccamento sperimentata con la madre. Come afferma Schore la relazione tattile, corporea, visiva con la madre scatena elevati livelli di oppiacei endogeni nel bambino, che agiscono direttamente sulle aree subcorticali della gratificazione (Schore 1996) . Queste sensazioni di benessere e piacere – connesse al conforto e alla consolazione – formano la struttura stessa della mente e i profili di vitalità, che la persona acquisirà come schemi stabili di risposta nell’arco della sua vita. Winnicott distingueva due diverse tipologie di amore materno: l’amore quieto, che calma e consola e l’amore connesso all’eccitazione e al desiderio che sveglia e stimola. L’alternanza di queste diverse modalità relazionali permette al bambino di strutturare dei profili di attivazione che sono contraddistinti dalla capacità di consolarsi – quando è turbato – e dalla capacità di attivarsi di fronte a stimoli nuovi.
Questi profili di attivazione – o, se preferiamo, di vitalità – non solo vanno a costituire degli schemi di arousal ma contribuiscono letteralmente allo sviluppo della mente del bambino ( Bartels & Zeki, Schore, Sander, Stern,Siegel)
Le emozioni positive che il bambino sperimenta con la madre configurano anche la sua capacità di amare e di costruire relazioni significative e durature. L’amore madre-bambino diventa specchio dell’amore tra due adulti e si esprime con le stesse modalità non verbali: contatto, vicinanza, sguardo reciproco, tono di voce, ritmo e sincronia.
Cosa succede se non sappiamo attivarci o confortarci?
Attivarsi e confortarsi sono basilari nella capacità di regolazione emotiva: tanto basilari che se non siamo in grado di farlo autonomamente cerchiamo un aiuto all’esterno – attraverso le relazioni – o attraverso delle sostanze che influenzino il nostro ritmo.
Così possiamo rivolgerci ad un amico o al partner per ricevere conforto, o divertimento. All’attività fisica o al caffè per scaricare o svegliarci. In alcune situazioni però quello che manca è un senso profondo di risposta al bisogno di conforto e piacere. Non basta il caffè. Non bastano gli amici.
E in questo quadro possono arrivare le sostanze. Conosciamo l’effetto calmante dei cannabinoidi ed eroina, stimolante di cocaina e anfetamine. Disinibente di alcool e ecstasy. Facciamo fare a delle sostanze chimiche quella regolazione che, per qualche ragione, non è stata stabilmente acquisita nel nostro profilo di vitalità. A volte non è stata acquisita per difetto – ossia per mancanza di presenza affettiva – altre volte non è stata acquisita per una presenza affettiva sovrabbondante che non ha permesso di sviluppare una adeguata tolleranza della frustrazione.
La risposta a questo fallimento risiede nella dipendenza: ovviamente non solo da sostanze ma anche da relazioni, dall’attività fisica, dal piacere e dal divertimento.
Una cultura affamata di divertimento
Nella nostra società l’incapacità di divertimento è una grave limitazione. Non sapersi divertire comporta l’esclusione dal gruppo, la disapprovazione sociale. Un penoso senso di fallimento. Il miglioramento delle condizioni economiche di vita, il relativo aumento del tempo libero ci ha trasformato in quella che Byung-Chul Han definisce La società della stanchezza.
La società della stanchezza
La società del XXI secolo è una società della prestazione in cui ognuno di noi è diventato imprenditore di se stesso e le persone sono diventate “soggetti di prestazione ( Leistungssubjekte). La pressione della prestazione si estende a tutto, anche al divertimento: cocaina e ecstasy servono per “fare bene tutta la serata” senza mostrare sonno o stanchezza.
Il divertimento e il piacere, anziché essere regolati dalla sensazione di benessere fisico e sazietà o soddisfacimento sono regolati dalla possibilità di fare e dall’estasi del “poter fare”.
Diventiamo così presto vittime – fin dall’infanzia – di un eccesso di stimolazione che modifica l’economia dell’attenzione. L’attenzione profonda, quella che dà quel soddisfacimento che è uno dei 4 elementi della felicità, viene sostituita con una iper-attenzione da multistimolazione, con una tolleranza bassissima per la noia che sta alla base del processo creativo.
Così camminando guardiamo il cellulare, cenando mandiamo mail, in compagnia degli amici cerchiamo contatto con altri amici, non presenti, distruggendo quell’elemento contemplativo che è parte della nostra natura, del nostro sapere essere. Il saper fare copre e sostituisce il saper essere.
Peter Handke ne “Saggio sulla stanchezza”parla di una stanchezza che divide, che colpisce per incapacità di guardare e mutismo. Così diversa dallo sguardo, dal contatto e dalla vicinanza degli affetti positivi. Da questa stanchezza si esce – dice Handke – attraverso il risveglio di un ritmo che conduca all’armonia. Forse, senza saperlo, ci parla anche lui dei profili di vitalità.
Una terapia dell’essere
Così la cura per questa perdita di riposo, per questa società malata di sovra- attenzione e multitasking, che usa le sostanze per regolarsi come un farmacista, e divertirsi al massimo, non può che essere l’invito a passare dal fare all’essere.
Come facciamo a spingerci a fare, a spingerci alla prestazione? Tendendo il corpo, dominandolo con quello che decide la mente, negando i segnali fisici, i limiti della nostra stanchezza. Sostituendo la mamma buona interna – quella che ci accompagna a letto quando siamo stanchi e ci sveglia quando il sole promette di farci giocare – con una specie di signorina Rottermeier o con il Mefistofele di faustiana memoria “Dirò all’attimo: sei così bello! Fermati!”
[box] Ogni tensione cronica nel corpo è una paura della vita, una paura di lasciarsi andare, una paura di essere. Alexander Lowen[/box]
Se essere è la vita perché ne abbiamo così paura? Perché ci è così difficile lasciarci andare ed essere soltanto? Queste le domande che Alexander Lowen pone all’inizio di “Paura di vivere” facendoci subito intendere che il libro va dritto al cuore del problema. La sua risposta è semplice ma non banale: abbiamo paura di essere perché essere è la vita del corpo e noi ce ne distacchiamo per vivere la vita della ragione, dell’Io.
[box] Se abbiamo paura di essere, di vivere, possiamo mascherare questa paura intensificando il nostro fare. Più siamo occupati meno tempo abbiamo disponibile per sentire, essere, vivere. Alexander Lowen[/box]
Anche il sentire può essere dominato e regolato dalle sostanze, come dimostrano i poliassuntori che mischiano stimolanti e calmanti come farmacisti. Che chiedono – con cognizione – sostanze che producano, sul sentire, esattamente l’effetto voluto. Non quello del corpo: quello che l’Io decide di volere.
La modalità del fare opera riducendo progressivamente la distanza tra dove siamo e il luogo dove vorremmo essere. Ci annoiamo? Usiamo una sostanza che ci diverte? Alla fine siamo stanchi ma non riusciamo a dormire? Usiamo un mix di alcol e sonniferi. La modalità DEL FARE FRAMMENTA il problema in piccole parti cercando di risolverle una per volta, senza senso della prospettiva.
Colma il bisogno immediatamente non valutando se, a lunga scadenza, quella sia una buona soluzione.
Ma è sul tema della felicità che la modalità del fare diventa disastrosa perché ci porta a concentrarci sulla distanza tra come siamo e come vorremmo essere, facendoci sempre più sprofondare in quella infelicità che ci illude, invece, di combattere.
Il cambiamento terapeutico
È spesso in questo quadro che ci troviamo ad operare. Persone che, al di là dell’uso di sostanze (che non è detto che ci sia), sono però catturati da un fare compulsivo che annienta lo spazio dell’essere, della contemplazione. L’impulso trova subito risposta – senza indugi!
È qui che nasce la richiesta di un cambiamento. Il cambiamento terapeutico, in bioenergetica,è simile alla crescita. Torna quindi al corpo. Alla regolazione delle emozioni, a quelle tensioni fisiche che tengono iperattivi o collassati. I movimenti e il lavoro corporeo non sono mai un fare. Sono piuttosto un tornare allo spazio d’esistenza del corpo: quello che, primitivamente, ha incontrato lo sguardo – speriamo benevolo – dei nostri genitori. Quello sguardo che oggi può essere quello, benevolo, del terapeuta.
La terapia dell’essere che la bioenergetica offre significa muoversi in una psicoterapia dinamica che coglie i movimenti di cambiamento, la crescita spontanea, la capacità di stare nel processo. Significa non affondare nel passato – pur riconoscendo che sono le nostre tensioni muscolari croniche che rendono il nostro passato un elemento del presente – per dare spazio alla consapevolezza, all’essere e alla nostra dimensione interiore.
Perché siamo tristi? Che cosa provoca la nostra paura? Da dove nasce la nostra rabbia? Attribuire queste emozioni all’esperienza passata è una spiegazione storica, non dinamica. Le sensazioni derivano direttamente dalle esperienze del presente: tuttavia queste esperienze sono condizionate dal passato nella misura in cui quest’ultimo si è strutturato nel modo di essere di un individuo. In questo modo il passato diventa parte del presente. Alexander Lowen
Piacere, divertimento e felicità in bioenergetica
Qual è quindi il piacere che andiamo cercando? La risposta, in bioenergetica, è diretta: è il piacere di essere vivi. Che è molto di più del mero piacere sessuale – che non va sottovalutato – ma che non può esprimere tutta la nostra ricchezza.
Ecco quindi il passo che ci porta verso la felicità: è l’esperienza in cui l’ego lascia l’egemonia e il corpo riprende il suo ruolo. Non solo di macchina percettiva: non abbiamo un corpo. Noi siamo un corpo e sappiamo che le esperienze corporee formano la nostra mente. Così il piacere e, forse, anche la felicità, è l’essere pienamente nell’esperienza in corso. È tornare a sentire, tornare al corpo, là dove siamo nati come diceva Allan Ginsberg
Nella pratica clinica torniamo a sentire attraverso due elementi: l’apertura del respiro e il movimento. Queste due azioni restituiscono flessibilità alla finestra di tolleranza e aumentano la nostra frustrabilità (ossia la nostra tolleranza alle frustrazioni). Un elemento importante per comprendere che quello che sembra un piacere momentaneo può essere un problema futuro e quello che sembra un dolore presente può essere una felicità futura.
A quel punto sarà il piacere di essere vivi che ci permetterà di attivare quella risposta parasimpatica (SNA) che calma e quella simpatica (SNA) che attiva.
Nel profondo di ciascuno di noi c’è un bambino che era innocente e libero e che sapeva che il dono della vita è il dono della felicità. Alexander Lowen
Bibliografia
Chunh-Byung Hal, La società della stanchezza, Gradasso Nottetempo Goethe J. von, Faust
Handke P., Saggio sulla stanchezza, Garzanti
Lowen A., Paura di vivere, Astrolabio; Lowen A., Il piacere, Astrolabio
Lowen A., Arrendersi al corpo, Astrolabio
Porges S. La teoria polivagale, Cortina
Schore A., La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé, Astrolabio
Siegel D., La mente relazionale, Cortina
Numerosi articoli sull’analisi bioenergetica sono online su www.nicolettacinotti.net
©Nicoletta Cinotti 2016
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