A volte mangiare è una cosa automatica, oppure un riempitivo. Altre volte sentiamo una fame che è vitale, energica, la chiamiamo appetito e offre al nostro pasto, un’altro gusto. Il cibo viene percepito più pienamente, non abbiamo dubbi su cosa mangiare né recriminazioni su quello che abbiamo mangiato.
Quell’appetito ci guida con spontaneità in una direzione che non è avidità ma soddisfazione. La parola appetito ha la stessa radice della parola aspirazione: è il tendere alla soddisfazione spinti da una reale motivazione.
Quando proviamo quell’appetito e quella qualità di aspirazione tutto sembra fluire con facilità. Ed è così diverso da mangiare per impegno o per fame. Quella fame viene dal nostro appetito per la vita.
È la stessa differenza che c’è tra fare qualcosa perché l’abbiamo deciso oppure perché abbiamo sentito un movimento interno che ci spingeva in quella direzione. Ogni atto ha bisogno di una aspirazione perché ci porti soddisfazione e al piacere. Altrimenti realizziamo solo un compito, sia che si tratti di qualcosa di essenziale che di superfluo. E quel senso di compito toglie all’esperienza, il piacere che contiene e la soddisfazione del compimento.
Per riconnetterci con le nostre aspirazioni non abbiamo bisogno di molto: praticare pausa e tornare a quello che sentiamo può essere un modo semplice e informale per dire a noi stessi che siamo pronti a muoverci sulla base delle nostre aspirazioni e non dei nostri automatismi.
Gli uomini pensano di risolvere tutto con la mente invece di “sentire”. Ma il sentire non ha a che fare con l’intelligenza o con la forza. Solo lavorando su di sé, sul proprio corpo – grazie al quale l’uomo “sente” – l’uomo può curarsi e aspirare, come è sacrosanto, a una vita sana, libera, felice. Ed essere in grado di amare veramente. Alexander Lowen
Pratica del giorno: La classe del mattino
Foto di ©J u M p E r
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