
In uno studio classico condotto anni fa al Princeton Theological Seminary fu detto ad alcuni studenti di teologia che avrebbero dovuto tenere un sermone di prova, sul quale sarebbero stati valutati. A ciascuno studente fu assegnato un argomento dalla Bibbia. Metà ricevette come argomento il Buon Samaritano, l’uomo che si fermò per aiutare uno straniero bisognoso ai margini della strada. All’altra metà vennero affidati altri argomenti scelti a caso.
Trascorso un certo lasso di tempo destinato alla preparazione del discorso, uno a uno uscirono dall’istituto per andare a tenere il loro sermone. Mentre andavano da un edificio all’altro, passarono davanti a un uomo piegato su se stesso e che si lamentava, in evidente stato di bisogno e di dolore. I ricercatori volevano sapere se gli studenti si sarebbero fermati ad aiutarlo. E, ancora più interessante, il fatto che stessero riflettendo sulla parabola del Buon Samaritano aveva influenza oppure no?
Si scoprì che la cosa più importante era a quale pressione credevano di essere sottoposti in termini di tempo, e in un certo modo la cosa è vera anche per molti di noi. Abbiamo le nostre liste di cose da fare, abbiamo più email e altri messaggi elettronici di quanto sia mai accaduto nella storia dell’uomo. Il problema è: quanto siamo lontani dal notare gli altri, dal sintonizzarci su di loro, dall’entrare in empatia, dall’essere preoccupati dei loro problemi? Credo che il fattore chiave per provare compassione –per essere un bambino, un adulto o persino un collega o un cittadino che si prende cura degli altri –sia sintonizzarsi sui problemi della gente ed essere disponibili a fare qualcosa al riguardo.
Daniel Goleman
© www.nicolettacinotti.net Addomesticare pensieri selvatici 2017 Foto di © Zaporogo
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