
Ieri sera sono andata al cinema e ho visto un film così bello che non mi sembrava che fosse un film. Avevo l’impressione di essere dentro alla storia, come se fosse la storia dei miei vicini di casa. Mi sono dimenticata che non ero a Beirut, mi sono dimenticata che il medio oriente è abbastanza lontano: credevo di essere lì. Nel momento in cui un insulto (L’insulto è anche il titolo del film premiato a Venezia) scatenava molto di più che una risposta individuale e diventava un fatto culturale e un conflitto politico.
Ero lì perchè ciò che accade spesso ha un senso più ampio di noi. Nemmeno i protagonisti erano consapevoli di quanto quello che stava accadendo avesse radici più ampie e lontane. O forse lo sapevano ma non volevano dirselo. Credevano che tutto stesse in un insulto e nella difficoltà a chiedere scusa. Dietro il loro comportamento c’era la storia collettiva che prendeva una forma personale. Così, alla fine, la battaglia successiva, era un modo di rispondere non solo per se stessi ma anche per altri.Spesso nell’insulto succede questo: prendiamo di mira la persona singola ma colpiamo un’intera categoria di appartenenza. Per ingigantire la forza del nostro attacco. La storia ha un epilogo quando torna alla dimensione personale. Quando i due protagonisti trovano il modo di essere loro due di fronte al loro personale conflitto. Quando tornano ad essere due persone ferite senza speranza ma anche senza disperazione. Solo due dei tanti esseri umani che vivono in un’area di conflitto.
Nessuno ha il monopolio del dolore. E questo vale proprio per ciascuno di noi: per me come per i miei vicini. Il loro dolore è amplificato dal dolore e dalla rabbia del gruppo a cui appartengono. La loro pace – che forse non è riconciliazione ma parificazione – nasce dal tornare ad essere solo loro stessi di fronte alla propria storia personale. Anche la pace non è solo per se stessi ma si allarga, proprio come il conflitto
Quando veniamo insultati per una nostra caratteristica personale non siamo colpiti solo noi ma la categoria a cui apparteniamo e con la quale ci identifichiamo in quel momento. Quando vogliamo sciogliere il conflitto dobbiamo però tornare ad essere solo noi, senza speranza e senza disperazione. E ricordare che il monopolio del dolore non appartiene a nessuno. Tornare ad essere persone di fronte ad un’altra persone. Singoli e vulnerabili nella propria storia.
In questi giorni è accaduto un fatto che ha insultato me e la categoria professionale a cui appartengo. È stato doloroso. Mi ha posto domande etiche per le quali non c’è una risposta semplice. Ho provato a stare di fronte a questa persona e ho pensato che forse, dietro a quell’insulto, c’era più dolore di quello che potevo immaginare. Ho pensato che la pace può insegnare più cose, nella sua scabrosa verità, del conflitto. Nel conflitto uno solo ha ragione e tutti e due credono di essere quelli che hanno ragione. Nella pace ognuno sta con il proprio dolore e quel dolore può insegnare qualcosa sulla verità.
Ah, dimenticavo: perchè te lo racconto? Perchè scrivere, con gli insulti, è dimenticare. Un verbo della declinazione di lasciar andare.
Scrivere come sai dimenticare
scrivere e dimenticare
Tenere un mondo intero sul palmo
e dopo soffiare. Pierluigi Cappello
Pratica di mindfulness: Centering meditation
© Nicoletta Cinotti 2018 Un percorso terapeutico verso l’accettazione radicale
Foto di © _esse_
Lascia un commento