
Quando ci innamoriamo spesso mettiamo l’oggetto del nostro amore in alto. Non tanto alto da essere irraggiungibile ma abbastanza in alto da sembrarci depositario di un sacco di buone qualità. Molto spesso di quelle qualità che vorremmo portare nella nostra vita e che non ci sembra di possedere in maniera adeguata. O in quantità adeguata.
Nel momento in cui l’innamoramento inizia a trasformarsi in amore – o almeno dovrebbe – queste qualità iniziano ad esser viste più realisticamente. Come dico spesso, inizia l’atterraggio. E l’atterraggio, si sa, è uno dei momenti più delicati del volo.
È delicato perché, in molte situazioni, odiamo la discesa, l’abbassarsi dello standard. E, soprattutto, facciamo fatica a regolare l’altezza: o è alta, oppure diventa velocemente troppo bassa. Tanto bassa da non sembrare più interessante. Non è qualcosa che riguarda la persona: riguarda il nostro modo di trattare l’altezza e il nostro modo di trattare i graffi, le imperfezioni, i fallimenti. Riguarda la tendenza, spesso davvero faticosa, a passare dall’idealizzazione alla svalutazione. La tendenza a passare dall’euforia alla tristezza, velocemente, troppo velocemente.
Riguarda la tendenza a sentire il nostro valore determinato dall’esterno: dalle persone che frequentiamo, dal lavoro che facciamo, dall’approvazione o disapprovazione che riceviamo. E fino a che sarà l’esterno a dare valore alla nostra vita non avremo altra scelta che cercare, affannosamente, di stare sempre in alto.
Eppure se guardiamo dentro di noi, con interesse e curiosità, non è una landa desolata quella che ci aspetta: è un terreno fertile, non modificato dalle alterne vicende della nostra vita. È un luogo in cui, il nostro valore è sempre pronto a splendere. Basta accettare – in modo radicale – che gli alti, i bassi e la grigia monotonia riguardano tutti. E che lo splendore nasce dalla nostra disponibilità ad accettare la frizione che esercitano su di noi. Perché quella frizione scopre il diamante che è in noi. Così come l’archetto sprigiona le note del violoncello.
Possiamo dire che non ha importanza quanto abbiamo tradito l’accettazione nei nostri confronti. Né quante capacità abbiamo. Potremmo accorgerci che stare sul cuscino da meditazione e incontrare noi stessi è un vero tormento. Perché ci mette di fronte ai nostri punti di frizione. A quello che, nella nostra vita, stride con l’idea che ci eravamo fatti di come sarebbero andate le cose. Anzi, potremmo scoprire che è un tormento anche se non ci mettiamo seduti sul cuscino. Perché la nostra voce autocritica è sempre accesa. Eppure, alla fine, non è importante da dove partiamo: è importante quante volte ci ricordiamo che accettarci – e accettare – è possibile. Che possiamo farlo. Proprio qui. Proprio ora. Nicoletta Cinotti
Pratica di mindfulness: Esplorare rifiuto e accettazione
© Nicoletta Cinotti 2017 Verso una accettazione radicale
Lascia un commento