
Abbiamo tutti una grande fiducia nella possibilità di diventare: diventare qualcosa di meglio, di diverso, di nuovo. Siamo stati abituati fin da piccoli a sentirci dire che quando saremmo diventati grandi avremmo potuto fare cose che in quel momento nemmeno potevamo sognare di fare.
Il diventare è stato così legato ad una serie di azioni: se mangi diventi grande, se fai palestra diventi muscoloso, se ti eserciti impari l’inglese. Abbiamo coltivato una fiducia assoluta nel fatto che ad una azione corrisponda qualcosa (possibilmente di nuovo e migliore). Così quando ci siamo sentiti dire che si poteva diventare anche senza fare niente, semplicemente rimanendo presenti, semplicemente gustando l’attimo che stavamo vivendo ci dev’essere sembrato come la promessa di Lucignolo nel Paese dei Balocchi. Oppure l’illusione della cicala rispetto alla perseveranza della formica.
Mi è sembrato così strano che stare senza fare niente coltivasse il diventare che mi sono tranquillizzata solo quando ho visto quanto, quello stare senza fare niente, fosse tutt’altro che facile. Apparentemente ferma, in realtà immobile di fronte al continuo mutare della mente, alle sue spinte all’azione, al senso di inutilità che associavo alla quiete. Forse perché l’azione è associata alla vita, la quiete ci sembra pericolosamente associata alla fine. Solo la diversa sensazione relativa al passare del tempo che sperimento nella pratica mi consente di credere che quella quiete è la dimensione dell’infinito.
Nel Mahabharata un potente spirito domanda a Yudhisthira, il più anziano e saggio dei Pandava quale sia il più grande dei misteri. “Ogni giorno muoiono innumerevoli persone, eppure quelli che rimangono vivono come se fossero immortali”. Mahabaratha
Pratica del giorno: La classe del mattino
© Nicoletta Cinotti 2017 Verso un’accettazione radicale
Foto di © gianmarco giudici
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