Forse conosci anche tu John Irving. È un romanziere americano, molto noto. Il mondo secondo Garp, uno dei suoi libri, ha vinto il National Book Award. Irving a scuola andava piuttosto male in inglese. Non arrivava alla sufficienza. Anche il suo test d’ammissione all’università – il SAT – fu piuttosto scarso: i 2/3 degli studenti americani avevano risultati migliori del suo. Fu bocciato un anno alle superiori e i suoi insegnanti lo definivano sia pigro che stupido. Certamente non è la prima storia di un personaggio famoso che ha avuto brutti risultati scolastici. Anche Einstein sembra che non fosse propriamente un studente modello, soprattutto in matematica.
La sua storia però mi ha colpito per un’altra ragione. Siccome per lui leggere era difficile pensò che scrivere lo avrebbe potuto aiutare. Anche scrivere gli era difficile ma nessuno si accorge di quanto tempo ci metti a scrivere, quando sei da solo. Tutti si accorgono se, a scuola, leggi lentamente a voce alta.
Così iniziò a scrivere. Ogni parola era accuratamente scelta, proprio per questa sua difficoltà. Forse cesellata. Scriveva e poi correggeva moltissime volte dopo aver scritto. Da un certo punto di vista era un tormento. Da un altro punto di vista uno straordinario esercizio a cui si sottoponeva ogni giorno e che lo occupava per il triplo del tempo che sarebbe stato necessario ad un’altra persona.
Poi ebbe un figlio. E quando suo figlio andò a scuola scoprì che era dislessico. A quel punto Irving capì che anche lui lo era stato. Ma non lo aveva saputo. Forse, se l’avesse saputo, non avrebbe mai pensato di fare lo scrittore. Non sapendolo si era impegnato, con ogni singola parola. Ogni parola aveva tutta la sua attenzione. Anzi, aveva il triplo dell’attenzione che avrebbe ricevuto da un’altra persona. E questo ha fatto di lui uno scrittore di qualità.
È stata la sua libertà dalla diagnosi e la sua intelligenza che, alla fine, hanno vinto. Non sapendo di essere dislessico non si è fatto imprigionare da una etichetta. È rimasto fedele alla sua motivazione: voleva trovare un modo per superare la sua difficoltà e l’ha trovato. Perché moltissime volte sono le idee che abbiamo su di noi che ci mettono dei confini. Se non avessimo quelle etichette, se non avessimo quelle diagnosi, ci permetteremmo di fare molto di più. Oppure ci sentiremmo, semplicemente, liberi di essere noi stessi al di là delle diagnosi. Non sottovaluto l’importanza della diagnosi: dico che non può diventare una etichetta che ci dice tutto.
Perché se abbiamo infiniti modi di essere noi stessi nella salute, nella difficoltà, nella malattia ne abbiamo il triplo. E la nostra via d’uscita, molto spesso, è adatta solo a noi.
Quando scrivi puoi adoperare tutti gli ingredienti giusti, metterci tutto il tempo e tutta la cura necessaria e non cavar fuori nulla lo stesso. Ciò vale anche per l’amore. John Irving
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© Nicoletta Cinotti 2017 La retta parola. Verso un’accettazione radicale
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