
Menzogna e letargo controllano il mondo
Nei periodi di pace. Ciò che ha insegnato il dolore
È presto scordato; noi esaltiamo
Quello che dovrebbe accadere come già accaduto,
Le nostre vanterie ci accecano. E allora ritornano
le paure che temevamo (…) W.H. Auden L’età dell’ansia
Non so se anche voi, da bambini, eravate attratti da quello che vi faceva paura. Io ricordo una vecchissima serie televisiva “Belfagor, il fantasma del Louvre” che imploravo di guardare anche se poi diventava il mio incubo notturno.
Abbiamo un rapporto ambivalente con la paura: la rifuggiamo e, nello stesso tempo, ne siamo attratti, come dimostra il successo di molti film di terrore, dei noir e dei gialli. Cerchiamo, attraverso l’arte, di addomesticare un sentimento primario e dirompente. Questa è una delle ragioni per cui ti presento il lavoro di Joanna Bourke, docente di Storia all’Università di Londra che si occupa di storia delle emozioni – in particolare la storia dell’odio e della paura – e della storia della violenza sessuale, in un progetto che si chiama SHaME.
Com’è che una storica decide di occuparsi della storia culturale delle emozioni? In una maniera piuttosto personale.
Una ricerca che nasce dalla propria storia
Joanna era ricoverata in ospedale, dopo un intervento chirurgico e con una pompa di morfina che non funzionava troppo bene. Un’amico le aveva lasciato il libro di Virginia Woolf “On being ill” (Sulla malattia). In questo saggio Virginia Woolf lamentava il fatto che la letteratura non si fosse occupata della malattia tanto quanto dell’amore o della gelosia. Un romanzo sulla malattia, scrive Virginia Woolf nel 1926, non avrebbe trama. Oggi non è più così vero perché molti sono i romanzi, anche autobiografici, che hanno raccontato il rapporto con la malattia. Il punto però che ha colpito Joanna è un punto centrale anche nella pratica di mindfulness. “Naming is taming”, ossia avere le parole per descrivere l’esperienza è un modo – importante – per affrontarla e fronteggiarla. Nasce così l’interesse di Joanna per la storia delle emozioni. Un interesse che affronta da storica e con lo stesso metodo con cui uno storico ricostruisce i grandi avvenimenti del passato. Ossia attraverso documenti, lettere, diari che coprono un lungo arco temporale.
Il Novecento e la paura
Inizia così la ricerca storica di Joanna che, a partire dalla sofferenza, arriva ad includere le emozioni che hanno una grande risonanza collettiva come l’odio e la paura. Il Novecento diventa il secolo degli eventi privi di risposte e di senso ma che suscitano, tutt’ora, grande paura. Lo spettro della minaccia nucleare, la persecuzione degli ebrei, il nazismo, la paura del terrorismo. Tutti argomenti che diventano giustificazioni per compiere atti terrorizzanti come gli attacchi preventivi, la guerra intelligente, la lotta al terrorismo.
La frequenza con cui siamo esposti alla violenza e alla paura – a partire dai telegiornali per finire ai videogiochi – ha ridotto la nostra sensibilità all’orrore e, sostiene Joanna, abbiamo perso sensibilità sociale nei confronti della paura. Proviamo orrore e disgusto per la violenza ma la paura è diventata un fatto personale. Ci preoccupa se ci riguarda direttamente. Altrimenti è solo disgusto. È la paura per qualcosa che potrebbe succederci, più che la paura per gli altri. I migranti sulle navi del Mediterraneo ci fanno paura perché potrebbero turbare i nostri fragili equilibri. Abbiamo paura di loro, paradossalmente, anziché aver paura per loro che hanno attraversato torture, guerre e minacce di ogni tipo prima di arrivare alla soglia del mediterraneo.
La paura e la solidarietà
Questo modo di affrontare il sentimento della paura riduce la solidarietà. La paura, dice la Bourke, diventa una emozione dispensata politicamente per coltivare scelte economiche e politiche di tipo autoritario mentre sarebbe tempo di tornare a politiche che si occupano della vita altrui e non solo della protezione della nostra stessa vita. Una vita che sentiamo esposta a pericoli planetari.
Nel suo libro Joanna affronta la paura della morte e del morire che, da molti punti di vista si potrebbe considerare la paura più radicata e trasversale, come delle paure infantili che disegnano la nostra psicostoria, per arrivare alla minaccia del nucleare. Io farò un brevissimo sunto del capitolo dedicato alle paure suscitate dal corpo e dalle malattie.
L’estraneo dentro di noi
Una diagnosi di cancro non è una sentenza di morte ma un patto di convivenza, oggi potremmo definirlo così. La malattia non è più da sconfiggere (meglio se accade) ma un ospite con il quale trovare un equilibrio di convivenza accettabile, questa potrebbe essere la definizione della storia di Edna Kaehele a cui nel 1946 fu diagnosticato un cancro con una prospettiva di vita di sei mesi. Quando nel 1959 pubblicò – da viva – il suo libro Sealed Orders, fu una dimostrazione efficace di quanto l’immaginazione, la determinazione e una buona dose di apertura mentale, possano contro una malattia. Un punto rilevante del suo rapporto con questo difficile ospite è raccontato così:
L’angoscia mentale fu peggiore di qualsiasi sofferenza fisica avessi sopportato. E tutto questo, alla fine, non era necessario (…) è l’ignoto che atterrisce. Edna Kaehele
Se alla fine dell’Ottocento le malattie temute erano la difterite, il vaiolo, la polmonite o la lebbra, nel Novecento la malattia che abbiamo temuto aveva un nome – spesso impronunciabile – cancro. Fino all’epidemia di Aids alla fine degli anni ’80 il cancro era la malattia – il brutto male – più temuto, descritto con parole mostruose: invasore malvagio, mostro che si riproduce.
Reich ipotizzò che ci fosse una radice psicosomatica del cancro, collegata con parti non vitali e non ossigenate del corpo ma anche con parti “morte di noi”. Parla così del cancro di Freud
Fumava davvero molto. Ho sempre avuto la sensazione che fumasse non per nervosismo ma perché voleva dire qualcosa che non riusciva a pronunciare. Wilhelm Reich
Susan Sontag e la malattia
È stata Susan Sontag a spezzare la lancia su come il linguaggio – e le metafore legate a questa malattia – finissero per avere un effetto patologico. “Le metafore e i miti..uccidono” affermò con forza e colpiscono pazienti e curanti. I medici non sono immuni alla paura che suscita la malattia che curano e questo può spiegare la reticenza nella comunicazione che hanno molti medici nei confronti dei loro pazienti.
Persino i medici che sono in disaccordo nel tenere nascosta la diagnosi sono d’accordo nel negare certe informazioni ai pazienti e molti pazienti riferiscono che il modo in cui è comunicata la diagnosi influenza la prospettiva con cui guardano alla loro malattia.
La paura ostacola prevenzione e cura
Come con il cancro, la paura dell’AIDS ostacola la prevenzione e i regimi di cura. A questa diagnosi si aggiunge, inoltre, anche la vergogna e l’educazione sanitaria relativa all’AIDS è un ottimo esempio di una campagna preventiva basata quasi esclusivamente sulla paura. Nel 1988 l’Health Education Autority portò avanti una campagna nazionale in cui, con lettere cubitali bianche su sfondo nero appariva il seguente slogan ” Qual è la differenza tra HIV e AIDS? Il tempo”. Lasciando così intendere che la fine fosse certa e inarrestabile. In questo caso però è accaduto qualcosa di nuovo: la comunità si è rifiutata di cedere al linguaggio della paura. Non solo la comunità gay ma anche, a partire dalla comunità gay, ampie frange di popolazione sensibile – delle quali ho fatto parte anch’io – hanno iniziato a protestare nei confronti di questo linguaggio della paura. Hervé Guibert è stato, per anni, la lettura che ha guidato la mia campagna contro una prevenzione basata sulla logica della paura. Per la stessa ragione detta poco sopra: una campagna basata sulla paura rende egoisti e distrugge il senso di solidarietà.
Oggi – oggi che con il cancro si può convivere e che l’AIDS è diventato un ospite cronico – la paura è quella di una morte che vada oltre la durata della vita: una vita prolungata meccanicamente dall’accanimento terapeutico. Oggi la morte prolungata dai dispositivi medici è un’ipotesi che fa rabbrividire.
Settembre 2001
L’11 settembre del 2001 è ormai il giorno in cui la paura reale ha superato qualsiasi immaginazione. Quello che abbiamo visto sugli schermi televisivi sembrava un film di fantascienza ma era una crudele realtà, trasmessa in mondovisione. Una somministrazione di terrore su scala mondiale che ci ha fatto passare dall’età dell’ansia all’età del terrorismo. Quale rischio corriamo? Il rischio che qualsiasi misura difensiva – a fronte di tanta paura – risulti giustificata e giustificabile. Il rischio è che la paura e il terrore disgreghino i nostri comportamenti prosociali. Eppure la vera cura, ogni volta, è la solidarietà. La nostra sopravvivenza dipende dalla cooperazione molto più che dalla lotta e le donne sono, da sempre, le prime promotrici di questa sensibilità, perchè siamo wired per le relazioni. la nostra sensibilità non può fermarsi di fronte all’uso improprio delle parole. Facciamo attenzione quando leggiamo “il cancro e le cellule terroristiche vanno debellate una volta per tutte”. La stessa attenzione che dobbiamo fare quando sentiamo che un uomo che ha ucciso è definito “gigante buono”. Se non siamo consapevoli delle leve che accende la paura saremo sempre trainati da fili che sono nelle mani di burattinai. Quando siamo spaventati lo scollamento tra rischio reale e paura aumenta. Cerchiamo di ridurre questo scollamento con la socialità costruttiva.
Ricordiamoci le parole di Bertold Brecht:
Chi è sopravvissuto alla persecuzione è sopravvissuto grazie all’aiuto degli altri. Bertold Brecht
e questo è vero per qualsiasi pericolo: lo superiamo meglio se siamo aiutati e sconfiggiamo la paura se non ci sentiamo soli.
© Nicoletta Cinotti 2019
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