Probabilmente qualcuno di voi sarà andato al cinema a vedere Suffragette, il film che racconta l’epopea delle donne inglesi in lotta per il diritto al voto agli inizi del novecento, anche se in Italia non c’è stato il clamore che forse ci si poteva aspettare.
Di fatto, gli aspetti del film che hanno stimolato la mia riflessione sono stati principalmente due. Ed il primo riguarda proprio la scarsa conoscenza dei fatti narrati. Basti pensare che la stessa regista, Sarah Gavron, inglese di origine e di nascita, figlia di due politici della sinistra britannica, ne è rimasta ignara fino ai 35 anni senza aver ricevuto alcun cenno a casa, né a scuola o all’università. E che nella stessa Londra sia presente solo una targa in memoria vicino al parlamento; non una via né una piazza dedicata alle suffragette.
La tendenza a dimenticare
Questo incredibile oblio è dovuto certamente al tentativo maschilista di indebolire questa vera e propria vittoria femminile, di toglierle valore e onore. Io credo però che ci sia anche altro. C’è la nostra tendenza a dimenticare le nostre storie e i nostri percorsi, soprattutto quando riguardano ferite che ci hanno addolorato e traumatizzato. Diamo per scontato ciò che siamo perchè sarebbe troppo doloroso riconoscere che quelle botte hanno colpito anche noi. Quelle donne siamo noi; è grazie a quella vulnerabilità coraggiosa di ieri che possiamo godere della nostra libertà, oggi. Tornare lì non è superfluo né fuori tempo. E’ semplicemente tornare a casa.
Non possiamo negare che ciascuno di noi sia contraddistinto dalla coesistenza di tutte le tappe evolutive precedenti, che si integrano, si alternano e si avvicendano.
Non è facile onorare una cicatrice, ma è proprio da lì che siamo nati.
Non è facile onorare una cicatrice, ma è proprio da lì che siamo nati.
Il secondo aspetto interessante è stato per me quello della violenza. Certamente quella inferta dalla società fortemente maschilista dell’epoca, dalla polizia che sotto la pressione del governo utilizzava metodi brutali e disumani nei confronti delle donne che osavano alzare il capo.
Ma anche quella, direi obbligata, delle stesse suffragette. Quelle donne già offese dal loro stesso nome, affibiato loro dalla stampa, e che si appropriarono audacemente del dispregiativo di suffragette, operando un geniale slittamento semantico. Non avendo alternative, come ribadisce con autorevolezza anche la leader del movimento Emmeline Pankhurst durante un comizio, costrette esse stesse a utilizzare le maniere forti, dopo anni di richieste e manifestazioni pacifiche. Non sono riuscite, per nostra fortuna, a rispettare il loro ruolo di sottomesse e disprezzate. Non hanno resistito alla tentazione della libertà.
La tentazione della libertà
E magari guardandole, qualcuno ha giudicato quelle manifestazioni di protesta e ribellione come eccessive, forzate, della stessa specie delle ferite inferte loro. Talvolta rimaniamo turbati da chi prova a scardinare gli schemi, a smuovere l’ordine costituito. Di solito si tratta delle persone storicamente più deboli e danneggiate; quelle che decidono di non stare più al proprio posto, che rischiano tutto per alzarsi. E per farlo, dal momento che sono state schiacciate e compresse a lungo, hanno bisogno di energia e forza. La restituzione della dignità alla propria identità umiliata e violata non può essere un processo semplice, a volte neppure pacifico.
Non c’è forse bisogno di forza per spostare un macigno?
© Maurizio Tuccio 2016