Ragioniamo spesso per contrapposizioni. O bianco o nero. Andiamo al mare o in montagna. Facciamo questo o facciamo quello. E così via in una lista che potrebbe essere molto lunga.
Adottiamo questo criterio anche con noi stessi. Ci viene facile perché spesso abitano in noi aspetti contrapposti: vorremmo essere perfetti e vorremmo ascoltare i nostri bisogni. Vorremmo cambiare ma vorremmo anche rimanere uguali. Invochiamo la legge dell’esclusione perché ci sembra l’unica che dia coerenza, dirittura morale e valore.
Così passiamo il tempo in una sorta di altalena tra le parti contrapposte di noi. Tra il nostro Sé ideale e il nostro sé reale. Tra la nostra immagine e la sostanza. Tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. In un conflitto che sembra non avere soluzione perché la scelta di andare in una direzione che escluda il suo opposto dura poco. E poi arriva un’altra oscillazione. Perché la legge dell’esclusione non può funzionare con noi stessi. Entrambe quelle istanze sono parti di noi. Parlano dei nostri valori, delle nostre scelte e della nostra vita. Togliere uno di questi aspetti sarebbe come tagliare via una parte del corpo e ritrovarci poi con l’arto fantasma.
Con noi stessi possiamo solo usare la legge dell’inclusione: quella che prende in considerazione entrambe le posizioni. Quella che ci fa mettere in una terza posizione che non nasce dallo schierarsi con l’una o l’latra parte ma le prende in considerazione entrambe e prova a metterle in dialogo.
Questa terza posizione non richiede un grande sforzo: richiede la pratica dell’accoglienza di ogni aspetto di noi. Richiede ascolto. Richiede equanimità, quell’accettazione senza preferenze di ciò che è presente. Quel fare spazio alla nostra vita così com’è, per il semplice fatto che è la nostra vita. E non ci costa nientemeno che tutto.
Ci si può accostare all’equanimità attraverso tre stadi, ma ogni stadio può anche essere praticato separatamente.
Il primo stadio riguarda la fiducia e la sfiducia. Il secondo stadio consiste nel portare la nostra capacità di un’osservazione sempre più salda, sempre più gentile, su qualsiasi reattività, su qualsiasi atteggiamento opposto all’equanimità, su qualsiasi momento di avversione o di attaccamento.Quello che chiamo il terzo stadio è la pratica specifica del brahmavihara, basata sul pronunciare alcune frasi, come negli altri brahmavihara. Secondo la tradizione buddhista, quando si pratica upekkha, l’equanimità, si porta alla mente qualcuno o se stessi e si pronuncia la frase: “La tua felicità o infelicità non dipendono dai miei auspici, ma dalle tue intenzioni e dalle tue azioni”.
Dunque, noi auguriamo di cuore qualcosa a qualcuno, ma dobbiamo anche avere la saggezza per comprendere che il nostro controllo sulle cose è molto limitato. E in questo consiste l’equilibrio di upekkha, l’equilibrio dell’equanimità.
Possiamo anche usare un genere di frasi diverso, purché abbia la stessa forza evocativa di equanimità. Possiamo pronunciare le frasi: “Che tu possa accettare le cose così come sono, che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettare me stesso così come sono”. Corrado Pensa
Pratica di mindfulness: La meditazione della montagna. Una pratica di equanimità
© Nicoletta Cinotti 2016 Le radici della felicità
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