
La vera bellezza della morte è la presenza. Francois Cheng
Nelle ultime due settimane ho affrontato il tema della paura con un articolo sulla paura del buio e un articolo sulla relazione tra il corpo e la paura. Un modo per entrare nella festa di Halloween ma anche, in una paura più grande, la paura della morte. Halloween infatti nasce come un modo per esorcizzare questa paura, per entrare dentro un argomento decisamente scomodo.
Non uso frequentemente la parola morte e non mi addentro volentieri nella vastità di questo argomento eppure come psicologa provengo da lì. Per anni mi sono occupata della formazione ad operatori che lavoravano con pazienti cronici e terminali e da quel lavoro è nato anche un libro che raccoglie il materiale degli interventi portati avanti durante la formazione. Erano gli anni della diffusione dell’HIV e di una epidemia che colpiva prevalentemente persone giovani. Anni in cui eravamo sprovvisti di fronte alle nuove sfide di questa malattia.
Pochi giorni fa, guardando 120 battiti sono tornata nel pieno di quel periodo in cui il tema della morte era una strana compagnia quotidiana per me. Una compagnia iniziata con un seminario negli anni ’80, condotto da Jules Grossman “Vivere e morire”. Avevo vent’anni e quello era il mio primo seminario. Strano a dirsi la morte mi sembrava meno tabù a vent’anni che a 50.
Incontrare la malattia
In questi ultimi tempi ho sperimentato uno strano riserbo verso il tema della morte. Non ho voglia di parlarne eppure l’ho incontrata più volte. Sono morte persone care e familiari. E altre persone che mi erano vicine anche se non le conoscevo bene. Non ho incontrato subito la loro morte: prima ho incontrato la loro malattia, quella sospensione fatta di speranza e sconfitta, di perdita e fiducia. Quella situazione unica ed estrema che porta a galla ogni malattia. Ogni volta mi sono sembrati troppo giovani. A volte perché giovani lo erano davvero. Altre volte perché misuravo l’aspettativa di vita che avrebbero avuto davanti. Ho capito che, sia che l’accettassi sia che la rifiutassi, non potevo fare a meno di avere una relazione con questo evento della nostra vita. Così ho deciso di parlarne: il momento dell’anno è favorevole ma il cuore trema un po’.
Un maestro esigente
Spesso si sente dire che la morte è un grande maestro. Credo anch’io che sia così però aggiungerei che è un maestro molto esigente. Può far rinchiudere le persone in una specie di arroccamento, sordo a qualsiasi richiamo. Oppure può farle aprire e trasformarle in soggetti generosi e altruisti. Ho visto genitori che perdevano i loro figli scegliere la strada del lutto permanente e altri scegliere quella dell’apertura, del volontariato, delle azioni sociali. Non è però per questo che la considero un maestro molto esigente: è esigente perché è persistente. Malgrado tutti i nostri sforzi riaffiora continuamente alla nostra consapevolezza e ci parla in maniera intima e profonda. Forse perché è un affronto – il più grande – al nostro ego. Più lottiamo contro questo maestro, più cresce dentro di noi il risentimento e la sofferenza. Non possiamo evitare di incontrarla, possiamo evitare di aggiungere sofferenza al dolore. E non è poco.
Una diversa relazione
Molti anni fa uscì il libro di una pioniera: Elizabeth Kubler Ross. Era una pioniera perché raccontava, per la prima volta, della morte come evento personale e sociale. Medico in un reparto di pazienti terminali si era accorta che quando c’era una infermiera i pazienti avevano meno inquietudine. Scoprì che quell’infermiera aveva avuto molti lutti nella sua vita e questo le aveva offerto una sorta di saggezza rispetto allo stare vicino ai pazienti terminali. Erano stati i lutti personali che le avevano insegnato come stare nel “lutto professionale”. Non ne aveva più paura e aveva sviluppato una sorta di filosofia a riguardo: questo metteva più tranquillità in lei e più tranquillità nelle persone che curava. Non aveva paura ad entrare nelle stanze dei pazienti terminali come succedeva ad altri colleghi.
In buona parte questo è il punto centrale anche per noi. In che modo ci relazioniamo all’idea della morte? E come la nostra paura della morte colora la nostra vita? Secondo la Kubler Ross i pazienti che si trovano con una diagnosi di malattia oncologica affrontano diversi fasi prima di arrivare all’accettazione. Fasi che possono essere percorse più volte perché non fanno parte di un percorso a tappe. Prima di arrivare all’accettazione della realtà attraversiamo una sorta di negazione, alternata a rabbia e patteggiamento. In generale però la fase che precede l’accettazione è una fase depressiva, in cui il ritiro aiuta a raccogliere le forze per accettare e affrontare la realtà.
Non tutti lottano
L’idea che la malattia – e la morte – siano battaglie da vincere non è affatto unanime. Per molte persone è difficile pensare di combattere una battaglia e, semplicemente, preferiscono pensare che stanno coltivando la loro parte sana, quella che vuole vivere. Preferiscono pensare di avere la grinta per le difficoltà e la grazia per lasciar andare quello che è meglio lasciar andare. in un continuo processo di ridefinizione di quello che significa guarire.
[box] Guarire significa rapportarci in modo diverso alla nostra malattia, alla nostra invalidità, perfino alla nostra morte, imparando a guardarla con gli occhi della totalità. Guarire è affrontare le cose così come sono. Jon Kabat Zinn[/box]
Il pensiero dell’infarto
Seguo molti pazienti ipocondraici. Forse la loro malattia si potrebbe definire come una paura massima della morte. Moltissime volte sono sani ma evitano di verificare il loro stato di salute per paura di scoprire che sono malati. Non servono ragionamenti con la paura della morte e delle malattie: serve consolare, calmare, abbassare con l’affetto il livello di ansia associato e aiutare a comprendere che i pensieri non sono fatti. Come disse una volta un mio paziente: ” Sono passato dalla convinzione che ogni tachicardia fosse l’inizio di un infarto alla comprensione che questi sono solo pensieri. Brutti pensieri ma non fatti”.
In realtà la paura della morte colpisce tantissimo i vivi, i sani, coloro che sono lontani da questo pericolo e che lo tengono a bada con cabale, salutismo e paura
[box] Ci sono solo due errori che si possono fare nel cammino verso il vero: non andare fino in fondo e non iniziare.[/box]
Possiamo considerare il nostro rapporto con la morte e con la paura della morte come qualcosa da cui imparare o come qualcosa da cui fuggire: alla fine però il nostro tempo è sempre un patrimonio limitato. Se scegliamo di imparare da questo maestro esigente la nostra vita ne potrà essere arricchita. Se scappiamo e basta coltiveremo solo la nostra paura
La vita genera la vita senza fine
Francois Cheng è un filosofo cinese arrivato fortunosamente in Francia a vent’anni, senza conoscere una parola di francese, esule dopo il massacro di Nanchino. Era convinto che sarebbe morto giovane e, invece, l’essere un sopravvissuto ha arricchito il suo dialogo con la vita e con la morte. La vita terrena è un orizzonte in cui impariamo ad amare, come diceva Keats, «la terra è una valle in cui crescono le anime», un luogo di iniziazione in cui abbiamo l’occasione di diventare eterni.
La vera bellezza della morte – dice Cheng – è la presenza. Una presenza incancellabile che anche al variare delle condizioni esterne non ci abbandona. Abbiamo, infatti, una responsabilità infinita nei confronti di chi ha segnato il nostro cammino, di chi ha lottato contro la sofferenza, rendendo il nostro mondo più grande e desiderabile. Cheng esprime la necessità di avere memoria del segno invisibile che altri ci hanno trasmesso con la loro vita, perché amare significa imparare dagli assenti, celebrare con immensa gratitudine il dono più prezioso che ci è stato concesso: la relazione umana e la sua infinita risonanza.
[box] O Signore, concedi a ciascuno la sua morte: Frutto di quella vita in cui troverà amore, senso e pena. Noi siamo solo la buccia e la foglia. La grande morte che ognuno ha in sé È il frutto attorno a cui tutto cambia. Rainer Maria Rilke[/box]
Ribaltare la prospettiva
I versi di Rilke ci aiutano a ribaltare la prospettiva: invece di osservare la morte a partire dalla prospettiva della vita, considerare la vita dalla prospettiva della morte. Cosa sceglieremmo se guardassimo alla nostra vita dalla prospettiva del fatto che prima o poi moriremo? Che differenza c’è tra ciò che scegliamo per scacciare la morte e ciò che scegliamo per dare senso alla nostra vita?
Quando Goethe scrisse il Werther, dopo la fine di un amore infelice, coniò un imperativo che impose a se stesso e al mondo “Muori e diventa!” Quante piccole morti della nostra vita quotidiana hanno dato una spinta evolutiva? Quanti successi si sono rivelati fallimenti e quanti fallimenti si sono rivelati successi? Possiamo cambiare prospettiva e guardare a ciò che finisce come al momento in cui si apre il vuoto creativo? Il romanzo di Goethe – che segnò l’inizio del romanticismo – fu ispiratore del suicidio di molti giovani romantici. La fine di un amore vissuta come la fine della vita, la fine di tutto: questo è quello che scegliamo quando guardiamo alla morte dalla prospettiva della vita. La perdita diventa intollerabile perché è un punto di non ritorno. Come cambierebbe se guardassimo quella fine come l’opera non finita della nostra vita? Come una fase della nostra comprensione dell’avventura della relazione? Cosa cambierebbe se ribaltassimo la prospettiva e guardassimo alla vita dalla prospettiva della fine, inevitabile, di tutte le esperienze?
Un ribaltamento
Rilke – come dicevo poco sopra – ribalta questa prospettiva: ci invita a considerare la morte dal punto di vista della vita per collocarci in un Doppio Regno: quello in cui inizio e fine si incontrano in una sorta di circolarità
Nel Doppio Regno la vita e la morte dialogano e creano. Colloca questo Doppio Regno nel nostro cuore. Il doppio Regno non è solo il luogo dove si incontra la nostra fine e la nostra vita: è anche il luogo in cui dialoghiamo con chi è stato con noi e adesso non c’è più. Molte persone continuano un dialogo segreto con i loro cari e questo dialogo ha spesso una intima e sorprendente ricchezza. Come se le parole che vengono dette fossero filtrate dalla grande prova che è stata attraversata: da chi è vivo e da chi è morto.
Le piccole e grandi morti
Non ci misuriamo solo con la grande morte: ogni giorno siamo di fronte a piccole morti e al cambiamento che producono nella nostra vita. Consolando un’amica che è stata lasciata non facciamo in fondo una forma di accompagnamento all’esperienza della fine? E come cambierebbe il nostro modo di affrontare la fine di una relazione se usassimo il modo con cui si è conclusa questa storia come lente per comprendere, retrospettivamente, ciò che è avvenuto durante la relazione? Questo ribaltamento della prospettiva permetterebbe di considerare l’esperienza appena conclusa come un aspetto dell’opera mai finita che è la nostra vita.
In fondo ogni cambiamento segna una piccola esperienza di morte e, nello stesso tempo, una grande esperienza di creazione dalla novità e dal vuoto.
Onorare
Tradizionalmente nei giorno dei morti onoriamo la tomba dei nostri cari. Una tradizione trasversale in diverse culture, non solo in quella cattolica. È l’invito a non dimenticare la gratitudine nei confronti di chi non c’è più: un modo per onorare la vita che ci è data da percorrere.
[box] La morte è incaricata di praticare, fin nel più intimo di noi stessi, l’apertura necessaria. Pierre Teilhard de Chardin[/box]
Chiudere gli occhi davanti alla morte, barricarsi nella nostra vita, significa fare un ben misero risparmio di noi stessi. Concludo con le parole di Etty Hillesum :
La possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita; questa è come resa più ampia da quella, dall’affrontare ed accettare la fine come parte di sé. E dunque non si tratta, per così dire, di offrire un pezzetto di vita alla morte perché si teme o si rifiuta quest’ultima: la vita che ci rimarrebbe, allora, sarebbe ridotta ad un ben misero frammento. Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest’ultima. Diario 1941 -1943
© Nicoletta Cinotti 2017
Imparare a lasciar andare, Genova 3 Dicembre 2017.
Foto di © Sator Arepo