
È raro che un romanzo mi appassioni così tanto. Tanto che, malgrado abbia appena finito di leggerlo, ho deciso di rileggerlo subito: non sono pronta a separarmene.
È un memoir molto forte, La cronologia dell’acqua, di Lidia Yuknavitch. Perché Lidia non si è risparmiata niente e la vita non le ha regalato niente. Ma non è questa crudezza che ti tiene legata alla lettura. Sono la meravigliosa costruzione delle frasi e un’incredibile capacità di farti sentire ogni parola, nessuna scontata. Ad aggiungere ragioni alla mia passione Lidia parla, più volte, delle sue parti e, inevitabilmente anche di come è avvenuto il suo processo di reparenting.
Ne parla estesamente quando si avvia verso il secondo divorzio, ecco un estratto
OVVIAMENTE considerai l’idea di abbandonare la scuola di specializzazione. Avevo pagato il biglietto, mi ero goduta la corsa. No? La metà dei miei compagni aveva mollato.
Non dovevo per forza continuare il percorso accademico.
Ma qualcosa me lo impediva. Una lotta profonda in corso nella cassa toracica e nella materia grigia. Una donna sconosciuta in me. Sapete chi era? Il mio intelletto. Quando aprii la porta e me la trovai li, gli sfacciati occhiali rossi da lettura e la gonna a pennello e la borsa di pelle per i libri, pensai: e tu chi cazzo sei? Ritraendomi in una posizione di difesa e osservandola prudentemente con la coda dell’occhio. Sta’ attenta, donna.
Al che lei rispose: sono Lidia. Il mio desiderio di linguaggio e conoscenza ti farà esplodere la testa. E sono qui per scrivere una tesi.
Sì, vabbè. Come ti pare. In ogni caso, da dove spunti?
Oh, penso che tu lo sappia. Vengo da tuo padre. Ora apri questa dannata porta.
Mio padre. La sua mente che si avviluppava attorno all’arte e all’architettura e alla musica classica e ai film.
Il suo intelletto che portavo nei miei fiumi di sangue. Li i miei due io misero le cose in chiaro. L’io che avevo forgiato per scappare dalla mia famiglia e farmi strada come una testa d’ariete nel mondo e l’io sconosciuto, che nemmeno sapevo esistesse, tranne forse nascosto nelle mie mani, nascosto come i sogni accovacciati tra le mie dita. La figlia di mio padre.
«Sono una donna che parla tra sé e mente”
La notte dopo essere saltata giù dal treno delle cose, al computer il cuore mi batteva forte. Il mio primo libro sgorgò in un enorme fiotto di ritorno del rimosso. Come se un trombo di sangue si fosse sciolto. Frenesia delle mani. Le parole provenienti dalla totalità del mio corpo, dalla mia intera esistenza o dall’esistenza di donne e ragazze che avevano storie strozzate in gola uscirono in un fiotto. Niente avrebbe potuto impedire alle storie di uscire. Sebbene mi facessero male le mani e le braccia e il volto – ammaccate e tagliuzzate dalla caduta dal treno – o dal matrimonio – o da un io nella notte – scrissi un racconto dopo l’altro. Non c’era un dentro e un fuori. C’erano le parole e c’era il mio corpo, vedevo attraverso la mia stessa pelle. Riversai le mie viscere nella scrittura. Finché diventò un libro.
Finché la mia stessa pelle cantò urlando.
Forse ogni donna dovrebbe leggere questo libro e non spaventarsi quando nasce un nuovo io. Nasce da un dolore, da una separazione. Ci sembra di commettere un tradimento perché osiamo rinascere fedeli a noi stesse. Nasce attraverso la scrittura perché ogni donna sa che scrivere, per noi, non è scontato. Anche questo l’abbiamo guadagnato.
Pochi giorni fa, come in un lampo, ho capito perché le donne amano tanto i vestiti. Perché per secoli sono stati il nostro unico possesso. Oggi possiamo avere di più: lettura, scrittura, scienza, case, gioielli ma non abbiamo niente se non accettiamo di rinascere tutte le volte che la vita ci chiama a farlo.
© Nicoletta Cinotti 2023 Addomesticare pensieri selvatici