
Forse dovrei domandarmi che cosa mi ha portato qui, che cosa mi porta, ogni giorno, a riflettere su quello che mi interessa di più al mondo: la cura. Mi interessa la cura perché è quello che sta dietro all’amore, alla possibilità di crescere. Mi interessa la cura perché è quello che sta dietro alla possibilità di guarire, di sanare le parti ferite di noi.
Siamo passivi quando lasciamo che gli altri decidano per noi. Siamo aggressivi quando decidiamo noi per gli altri, determinati quando decidiamo per noi stessi. Edith Eva Eger
Primum non nocere
Il principio di non nuocere – primum non nocere – forse può estendersi dalla medicina alla psicologia eppure noi viviamo un paradosso: non possiamo andare avanti evitando il dolore che abbiamo vissuto. Non posso guarire a prescindere e, forse, questo è qualcosa che a volte può suscitare fiera resistenza. Perché guardare il nostro dolore e non saltare a piè pari verso la nostra guarigione? Risponde così Alexander Lowen:
Il cambiamento prodotto dall’applicazione di una forza dall’esterno è prodotto dal fare e influisce negativamente sull’essere. Tuttavia, c’è un processo di cambiamento che avviene dall’interno e non richiede sforzi coscienti. È chiamato crescita e migliora l’essere. Non è qualcosa che si può fare: quindi non è una funzione dell’Io ma del corpo. Alexander Lowen
Quindi il primo principio di cura è ascoltare il corpo.
La pratica dell’esperienza e l’esperienza in pratica
Sia la bioenergetica che la mindfulness fanno parte degli approcci esperenziali: ossia si impara dalla pratica, da cui nasce poi, anche se non sempre, una teoria. A volte personale, a volte una teoria che può essere valida per più persone. il nostro pensiero scientifico ha guardato con sospetto alle teorie che vengono dall’esplorazione personale, un metodo così lontano dalla scienza. Ma, nel caso di un’essere umano, chi è più competente di noi nel comprendere noi stessi? Certo, il rischio è quello di non uscire da una logica auto-referenziale. Per questa ragione mindfulness e bioenergetica offrono strumenti di esplorazione personali che possano costituire dei criteri per la nostra esplorazione.
L’altro è l’esperto della propria esperienza. Melissa Blacker, Bob Stahl e Florence Meleo Meyer
Il secondo principio della cura è riconoscere la competenza che ognuno di noi ha su di sé. Piuttosto che cercare un’esperto fuori, risvegliare un’attitudine di esplorazione personale in cui il terapeuta offre strumenti di esplorazione e inquiring. (Se vuoi approfondire puoi leggere The view from within, a cura di Francisco Varela)
Partiamo dall’esperienza
Tutto quello che abbiamo imparato da bambini nasceva da un’esperienza, sostenuta da una grande curiosità. Eravamo curiosi e questo faceva sì che guardassimo al mondo con un atteggiamento di scoperta. La nostra mente si è formata in questo modo: a partire da quello che avevamo scoperto, mischiato con le emozioni che accompagnavano la scoperta. Continuiamo ad imparare così con una piccola differenza: a volte abbiamo l’idea di conoscere qualcosa solo perché assomiglia ad altro che conosciamo già e così facciamo un rapido collegamento tra quello che sappiamo e quello che non sappiamo ancora. A volte un collegamento troppo rapido per accorgerci della novità.
Sull’esperienza è necessario considerare un altro elemento: più l’esperienza che facciamo è vicina alla nostra realtà quotidiana più è facile trasportarne i benefici nella vita di tutti i giorni. In questo senso il setting della psicoterapia individuale è un setting che esprime una parte limitata della nostra vita. Raramente siamo in questo tipo di relazione a due: una relazione in cui l’altro non ha davvero niente da fare se non darci tutta la sua attenzione. Nasciamo in una rete di relazione. Abbiamo contemporaneamente scambi tra pari e scambi con figure genitoriali. Viviamo livelli multipli di relazione e più impariamo da situazioni in cui sperimentare di nuovo questi livelli multipli di relazione, più ci sarà facile trasportare quello che abbiamo appreso nella nostra vita quotidiana. Un gruppo è molto più rappresentativo della complessità relazionale della nostra vita di una relazione di psicoterapia individuale. Questo non significa che la psicoterapia individuale non va bene. Significa che non basta.
Ho curato di più camminando in un bosco con una persona, che seduta comodamente l’una di fronte all’altro nel mio ampio e elegante studio di Chiavari o di Genova. Perché camminare rappresenta il processo di crescita, perché stavamo facendo esattamente la stessa cosa e la stessa fatica. Perché eravamo amici, quella meravigliosa declinazione dell’amore che nutre la nostra vita dalla scuola dell’infanzia in poi.
Il terzo principio della cura è la condivisione della stessa esperienza.
Per imparare è necessario esplorare
Non basta fare un’esperienza per imparare: è necessario avere, verso quell’esperienza, un atteggiamento riflessivo ed esplorativo: quello che altrove ho definito come inquiring. Se non scaviamo nelle nostre esperienze, le lasciamo scivolare via leggere e impariamo poco o nulla. Per imparare abbiamo bisogno di farci alcune domande. Per esempio potremmo chiederci Cosa è successo? Cosa ho sentito nel corpo? C’erano dei pensieri? Come cambia e si sviluppa quello che ho sentito? Più le domande che ci facciamo sono precise più è precisa la definizione dell’esperienza e quindi anche l’apprendimento. Le domande, inoltre, riportano a galla in maniera produttiva, la struttura conversazionale della nostra mente: i fondamentali dell’esistenza li abbiamo imparati dentro una relazione e lo strumento della relazione è la conversazione, implicita ed esplicita.
Le esperienze non sono fenomeni isolati ma sono come i vagoni di un treno: più i vagoni sono separati più rischiamo di perderli. Anche proprio la distanza tra un vagone e l’altro potrebbe essere un ottimo oggetto di esplorazione: quella distanza è la misura di quanto ci dissociamo da quello che viviamo per poterlo controllare. Anche vagoni troppo vicini rischiano di non reggere la pressione che il movimento esercita. Abbiamo bisogno di trovare la giusta distanza tra un’esperienza e l’altra: un po’ come abbiamo bisogno della pausa inspiratoria ed espiratoria. Per questa ragione è importante fare il passo successivo: mettere in relazione ad un contesto più ampio quello che abbiamo vissuto, e, nello stesso tempo, cercare di riconoscere i singoli atti d’esperienza: la generalizzazione è un processo utile per concettualizzare. De-generalizzare è fondamentale per imparare. Abbiamo imparato a scrivere da una singola lettera. Imparato a parlare da una sola parola: impariamo a cambiare dalla possibilità di riconoscere i singoli atti d’esistenza con gentilezza e precisione.
Il quarto principio della cura è riconoscere e onorare gli atomi d’esperienza, lasciarli galleggiare in modo che formino per affinità un significato.
La valenza
Ho fatto chimica solo nel quarto anno del liceo. Non ricordo nemmeno il viso del mio insegnante di chimica. Ricordo molto bene però quello che mi ha insegnato. Due elementi, per unirsi, devono avere vuoti complementari: così si forma la materia. Anche i significati funzionano così. Emerge un elemento, poi un’altro e un altro ancora e si mettono insieme a partire dal vuoto complementare. Invece se usiamo la razionalità li mettiamo insieme a partire da leggi logiche generali che potrebbero essere giuste oppure no. Se lasciamo che si uniscano liberamente, attraverso i vuoti complementari, abbiamo la certezza interiore che quell’intuizione è giusta. Il dubbio che ci accompagna si dissipa. La domanda fondamentale “Mi ami? Sono amabile?”, diventa una sola risposta:”Sei amabile”.
Anche per imparare a parlare impariamo così: partiamo da una parola attorno alla quale si coagulano un mondo di relazioni. “Mamma acqua” suona dentro di noi “Solo la mamma può darmi l’acqua” e poi diventa “mamma mia che buona l’acqua” e così via attraverso un criterio che unisce ciò che è significativo per noi: ciò a cui attribuiamo valore. Questo è assolutamente unico e personale: nessuno può essere più esperto di noi su di noi. La valenza – ciò che è importante – è il nostro vocativo, la nostra poesia che chiama ciò che manca.
Per guarire, accogliamo il buio. Edith Eva Eger
Il quinto principio è che ciò che guida la guarigione è la mancanza.
Il contesto più ampio
Quello che viviamo è un attimo di tempo/esperienza tra passato e futuro. Gli diamo significato a partire da quello che abbiamo vissuto, da esperienze che vengono attivate da quello che abbiamo vissuto e facciamo una proiezione sul futuro. Non avere troppo fretta di passare a queste connessioni può essere utile: ci permette di cogliere l’unicità di ogni esperienza. Insomma i vagoni sono collegati ma ogni vagone è diverso dagli altri che lo precedono e che lo seguono.
Un grandissimo aiuto per stare nell’unicità dell’esperienza è offerto dal contesto di gruppo. Il riconoscimento interno al gruppo è un modo efficace per aiutare tutti a rendersi conto di non essere soli a dover lottare contro una certa difficoltà. Ci permette di uscire dal senso di isolamento o vergogna che ci rende timidi rispetto all’imparare dall’esperienza. Il carattere condiviso di un’esperienza ha un effetto immediato e potente: normalizza quello che viviamo. Riduce la sensazione di essere strani. Ci rendiamo conto, con sollievo, che quello che viviamo è condiviso e condivisibile.
Ma, soprattutto, usufruiamo di una energia che è maggiore della nostra, personale, energia: l’insieme è più della somma delle parti e vedere il processo dell’altro stimola più di qualunque discorso: è l’esempio che ci spinge avanti.
Il sesto principio è che, fin dall’inizio della vita, impariamo per imitazione.
Siamo tutti sulla stessa barca
Sperimentare di essere parte di un insieme più vasto è consolante e ci permette quella tranquillità interiore che ci fa sentire sicuri anche fuori dalla nostra comfort zone. È in questo spazio, più morbido, che possono fiorire le nostre intuizioni, una forma di scoperta “scientifica” mai sufficientemente valorizzata. Non impariamo solo attraverso la logica; a volte impariamo attraverso salti logici che vengono fatti sulla base di una intuizione e questo vale anche per le scoperte scientifiche.
Abbiamo solo bisogno di fare un po’ di vuoto perché l’intuizione abbia la possibilità di emergere. È una specie di forza inerziale che viene amplificata dalla presenza di altre persone. Il fatto che altri portino al centro quello che hanno appreso dà una spinta al nostro apprendimento in un effetto valanga che, in questo caso, è produttivo e permette a tutti di usufruire della spinta di ognuno.
Può essere difficile credere che esista una via d’uscita così facile da un problema contro il quale si sta lottando: eppure molto spesso la verità è più semplice di quello che pensiamo. Il cambiamento è una forza collettiva e non solitaria. Il cambiamento solitario è molto più faticoso e più lento. Nessuna buona idea appartiene ad una sola persona ma è patrimonio di molti che hanno contribuito alla sua nascita.
il settimo principio è che il cambiamento è una forza collettiva
A volte non è necessario risolvere: a volte basta conoscere
Molto spesso crediamo che i problemi debbano essere risolti e non teniamo conto che i problemi non sempre si possono risolvere ma, soprattutto, non sempre è necessario farlo. A volte conoscerli è tutto quello di cui abbiamo bisogno perché la tensione che viviamo a riguardo evapori.
In fondo quello che facciamo – sia con la bioenergetica che con la mindfulness – è un processo di dipanamento. Dipanamento da un groviglio di esperienze, di reazioni, di nozioni. Dov’è diretto questo dipanamento? All’intuizione, a quel momento in cui, con un piccolo sobbalzo, cogliamo un aspetto che ci libera dalla solita prospettiva. È un percorso di dis-identificazione che può accompagnarsi con la calda sensazione di tornare a casa, a quell’essere noi stessi che a volte ci sembra perduto.
Una intuizione che è personale e universale insieme: riguarda noi, la nostra vita ma è familiare anche alla vita di molte altre persone. Un percorso che si snoda tra paura e coraggio perché, come dice F., una sola delle due diventa un tiranno.
Il coraggio va mano nella mano con la paura, non c’è uno senza l’altro. Devono farsi compagnia. Perché se rimangono soli diventano tiranni. F
© Nicoletta Cinotti 2019
[ecs-list-events design=”columns” limit=’6′ cat=’ritiri’ thumb=’true’ excerpt=’true’ viewall=’false’ venue=’true’ contentorder=’date, title, venue, excerpt, thumbnail’]